Barbadillo: «Siamo noi i marziani»

Ray Bradbury
2015-05-06 15:31:28
Barbadillo: «Siamo noi i marziani»

La notte del 25 luglio 1976 la navicella «Viking» raggiunse Marte. Il pianeta rosso passò dai miti e dalle leggende alle macchine fotografiche. Ray Bradbury si trovava, assieme a Carl Sagan, al planetario della Caltech. Quando sullo schermo gigante iniziarono a delinearsi le prime immagini di Marte, furono tutti colti da un’euforia senza pari: i festeggiamenti si chiusero la mattina dopo. A quel punto, Roy Neal, della NBC, avvicinò lo scrittore, brandendo un microfono, e gli chiese: «Signor Bradbury, sono anni che scrive di Marte, dei suoi popoli e delle sue città. Ora che siamo arrivati lassù e ci siamo accorti che non c’è vita, come si sente?». Il suo interlocutore diede in escandescenze, definì il giornalista «un idiota» e aggiunse parole che costituiscono forse una delle migliori prese di coscienza da parte di un terrestre: «Certo che c’è vita su Marte! Guardi noi! Guardi noi! Siamo noi i marziani!». Una semplice battuta, quasi a voler significare un «realismo VS fantasia 0-1»? Forse, ma non solo. Queste parole sono infatti la confessione di un uomo che era già stato su Marte, sin dal 1950, anno di pubblicazione delle sue Martian chronicles. Prima che un dispositivo tecnico catturasse il mistero di un mondo sconosciuto, lo scrittore l’aveva già colonizzato con l’immaginazione – ecco dove aveva scoperto la vera identità dei marziani, nella loro continua e ininterrotta dialettica con i terrestri.

Questo aneddoto, insieme a molti altri, è contenuto in una recente raccolta di interviste a Ray Bradbury – dodici in tutto, selezionate tra le oltre trecento rilasciate nel corso della sua vita – pubblicata a cura di Gianfranco de Turris e Tania Di Bernardo. Qui è il grande «collezionista di metafore» a parlare in prima persona, raccontando vita, morte e miracoli di una generazione che scelse di affrontare le sfide del «secolo breve» attraverso lo specchio di Perseo della fantascienza, genere letterario considerato come un vero e proprio mito per l’umanità di oggi, dispersa in una modernità sempre più disumanizzante.

Storia e politica, letteratura e scienza, società e scrittura – questi alcuni degli argomenti affrontati dal «marziano» Bradbury nel corso di oltre sessant’anni, con uno stile concitato che non potrà che stupire tanto gli amanti delle atmosfere sognanti de L’estate incantata quanto quelli di Fahrenheit 451 e delle Cronache marziane, una fuga dalla realtà alla ricerca di quell’altro che è in noi. Perché, d’altra parte, se i marziani siamo noi, allora le scoperte e i viaggi spaziali altro non sono che una riconciliazione con il nostro essere più profondo, che chi vive ancorato al suolo, votandosi al più bieco realismo, non può – né potrà mai – conoscere. È forse per questo, afferma Bradbury, che «ci troviamo nell’epoca più straordinaria della storia dell’umanità. Prima di quanto pensiamo, l’uomo lascerà il pianeta Terra e s’inoltrerà nello spazio, in un nuovo e meraviglioso viaggio verso l’ignoto». Un ignoto nel quale farà incontri straordinari, ritrovando finalmente sé stesso.

 

(Andrea Scarabelli, «Barbadillo», 17 aprile 2015)

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