A prima vista, la scelta di ripubblicare un libro pro-Salazar scritto da Mircea Eliade negli anni del soggiorno portoghese può sorprendere. Parliamo di Salazar e la rivoluzione in Portogallo (Bietti), testo in qualche misura disconosciuto dallo stesso Eliade, già nel 1944: «Non rimpiango niente con maggior intensità che il tempo perso nel 1941 e il 1942 a documentarmi e a scrivere il libro su Salazar. Che nefasta decisione presi nel novembre 1941! Quando penso che, per Salazar, rinunciai al libro progettato su Camões, in cui avrei avuto tanto da dire sull’India, sulle scoperte oltremarine, sulle culture oceaniche!…» (p. 294).
In realtà, si tratta, come si evince dall’ottimo saggio del professor Cicortaş, da cui abbiamo ripreso la citazione, di una scelta più che opportuna. E per due ragioni.
In primo luogo, perché la lettura di Salazar e la rivoluzione in Portogallo permette di fare luce sull’impoliticità del pensiero di Eliade. Piccola premessa: siamo davanti a un grandissimo studioso delle religioni, che però non ha mai capito la natura profonda del fenomeno politico. Ovviamente, ci riferiamo al “politico” in senso schmittiano, come durissimo conflitto amico/nemico per l’acquisto e la conservazione del potere. Detto questo, veniamo al punto: per tutto il libro Eliade sviluppa una critica al liberalismo e alla politica dei moderni, che però, politicamente parlando, non ha senso compiuto. Per quale motivo? Perché Eliade, impoliticamente, oppone alla politica dei moderni, maldestramente imposta dall’alto in Portogallo, la politica spirituale, o spiritualizzata, della tradizione pre-moderna, da lui ricondotta, senza alcuna esitazione, nell’alveo della migliore tradizione portoghese. Insomma, di qua i buoni, di là i cattivi.
Ora, il punto è che le costanti del politico, come avverte la metapolitica più vigile, sono sovratemporali, nel senso che valgono per tutti: buoni e cattivi, antichi e moderni. Cosicché resta difficile (si pensi all’esperienza del cristianesimo), se non del tutto impossibile (si rifletta sui totalitarismi/autoritarismi novecenteschi), ritenere che le rivoluzioni, anche le più spirituali, che tanto affascinavano il giovane Eliade, una volta “stabilizzate” non obbediscano regolarmente alle leggi del politico e di riflesso della conservazione del potere a ogni costo.
Perciò non esistono regimi liberali, tradizionali, antichi, moderni, eccetera, assolutamente perfetti e indenni da conflitti, divisioni, lotte, intrighi, eccetera. La politica passa, il “politico” resta. Senza questa distinzione concettuale si finisce inevitabilmente per gettare, insieme all’acqua sporca (la politica e la sua possibilità di rifondarla), il bambino (le leggi del politico). Ed è quel che accade al grande storico delle religioni, il quale trascorrerà dai fervori giovanili, più o meno politicizzati a destra, all’ascetismo scientifico degli anni americani, passando attraverso la disillusione, maturata nel periodo francese, verso la possibilità di rifondazione spirituale della politica. Senza una nuda visione del “politico”, come dire, al di là del bene e del male, Eliade, l’ammiratore pentito di Salazar e altro ancora, non potrà non oscillare fra il troppo e il troppo poco.
In secondo luogo, perché i continui, convinti, talvolta addirittura entusiastici, richiami eliadiani al valore salvifico della politica economica autarchica di Salazar, possono gettare, per contrasto (e non solo con il senno di poi), una luce ben diversa e assai più realistica sui costi effettivi del nazionalismo economico. Nonostante gli sforzi, anche letterari, di Eliade, Salazar, come si può evincere da qualsiasi buona storia economica del Portogallo moderno, impose al suo popolo, all’epoca ben lontano dal tenore di vita attuale, una durissima politica di tagli, risparmi e austerità. Non si comprese che un ciclo storico, quello imperiale, era finito per sempre. Cosicché Salazar, pur di tenersi fuori dall’odiato modernismo europeo, imbalsamò la società portoghese e alla lunga rese insostenibile e antieconomica, a causa del ristretto mercato interno, la conservazione stessa delle ultime colonie. Perciò, quando oggi si parla, e fin troppo facilmente, di sovranismo e decrescita, si dovrebbe invece riflettere sul sostanziale fallimento economico della ricetta autarchica salazariana. Perché, se è vero che è esistito ”il salazarismo dei ponti e delle strade”, del resto necessari in un paese arretratissimo, è altrettanto vero che la trasformazione economica del Portogallo avverrà dopo un’altra rivoluzione, ma di segno opposto, quella “dei garofani”, anno di grazia 1974. Rivoluzione che coinciderà con una nuova e vivificante apertura alla modernità europea. Quindi, ripetiamo, il libro di Eliade è utile, suo malgrado, come vaccino contro le ricorrenti fumisterie autarchiche.
Di certo, coloro che tuttora celebrano la mitica società organica, in qualche misura teorizzata da Salazar – il cui regime, è onesto ricordarlo, fu di tipo autoritario più che fascista o nazionalsocialista – troveranno nel volume quei motivi di gratificazione, che purtroppo non mancano, nonostante, come dire, gli intelligenti e forbiti avvisi ai viaggiatori di due bravissime guide come Cicortaş e Alexandrescu. Perciò esiste il pericolo di ipnotiche idealizzazioni, così apprezzate negli ambienti culturali e politici, fortunatamente in disarmo, più ricettivi al richiamo della metafora organicista. Ed è un peccato, perché si rischia di andare oltre Eliade (che, come abbiamo visto, disconobbe il volume) e di fabbricare l’ennesimo mito incapacitante. E, cosa più importante, di ignorare le costanti del politico, che insegnano che il potere, anche il più spiritualizzato e puro, tende sempre a ricostituirsi. E, quanto più una società è chiusa, tanto più il potere non trova ostacoli. Il che sarà pure una banalità, ma del tipo “superiore”, per dirla con Gide.
(Carlo Gambescia, «Metapolitics», 23 gennaio 2014)