Con malcelata amarezza, Roberto Melchionda (autore, sia detto per inciso, di un memorabile libro sulla filosofia evoliana, Il volto di Dioniso), oramai più di un quindicennio fa, notava come nell’area culturale non conformista italiana la filosofia non fosse attività “di casa”, aggiungendo che tale “deficit”, a suo parere “difficilmente negabile”, fosse al contempo “un’anomalia storica e un controsenso teorico”. Anomalia storica e controsenso teorico, perché di certo non erano mancati robusti precedenti, da Gentile a Evola e a Locchi, tanto per fare qualche nome (ma ricordo anche, en passant, l’importanza di Giuseppe Rensi nella ricostruzione delle origini dell’ideologia fascista, ad opera di Emilio Gentile).
Al di là delle ragioni di tale estraneità, che richiederebbero uno studio specifico per essere analizzate con l’attenzione che meritano, non c’è dubbio, a mio parere, che le parole di Melchionda non abbiano, purtroppo, perso d’attualità con lo scorrere del tempo. Se guardiamo agli ultimi anni, il panorama è desolante. A parte i meritori lavori di vari accademici (tra cui Lami, Di Vona e Bigalli) principalmente, ma non solo, su Evola, ad eccezione di un altro bel libro sempre di Sessa su Michelstaedter (Oltre la persuasione. Saggio su Carlo Michelstaedter, Settimo Sigillo, 2008) e di un notevole testo di Di Dario su Giamblico (Il divino Giamblico, Edizioni di Ar, 2012), c’è il vuoto.
Ecco perché nei confronti dell’ultimo volume di Sessa dedicato a Emo (La meraviglia del nulla. Vita e filosofia di Andrea Emo, Bietti, 2014) è necessario tener vivo il dialogo, in modo da non veder svanire nello sterile gioco delle recensioni una delle rarissime occasioni di riflessione su temi filosofici offerte dall’ambiente non conformista italiano.
Ora, essendomi soffermato in precedenza sul transattualismo emiano (nello scritto Su Andrea Emo. In dialogo con Giovanni Sessa), prenderò qui in considerazione il capitolo, tra i più ricchi a livello teoretico, dedicato da Sessa al dionisismo in Emo.
In realtà, già nella chiusa del capitolo sul transattualismo, Sessa introduce il richiamo al dionisismo in relazione al cristianesimo tragico di Emo. Eppure, se il cristianesimo tragico è immagine non del Christus triumphans, vincitore sulla morte nella gloria trasfigurante della Resurrezione, ma del Christus patiens, sofferente nel vertiginoso abbandono dell’ora nona, perché Dioniso? Il Dio greco, in quanto archetipo della vita indistruttibile (Kerényi), sembrerebbe essere abissalmente lontano dal Cristo inchiodato alla croce, il corpo straziato dai suoi carnefici e l’animo segnato dal silenzio di Dio, pur senza dimenticare le vicende dell’orfico Dioniso-Zagreo, fatto a pezzi dai Titani per poi rinascere a nuova vita, le cui analogie con la passio cristica impressionarono così tanto la Romantik [1].
Ma se in Emo “cristianesimo tragico e dionisismo corrispondono” (Sessa, p. 113) è per una ragione più profonda, che ‘scavalca’, per così dire, ‘all’indietro’, cioè in direzione dell’origine (che è al contempo apertura su un futuro possibile, dunque anche sguardo ‘in avanti’) le pur evidenti differenze tra i due. È quella che Emo chiama “unità dei contrari” (cit. in Sessa, p. 113), ossia la capacità (prettamente e innanzitutto dionisiaca) di abbracciare il tutto senza però rinnegare astrattamente la parte, anzi trovando in questa la vera ‘dimora’ di quello. Lo nota perfettamente Sessa quando, proprio in riferimento a Kerényi, afferma che la vita infinita, la physis inesauribile, che è Dioniso, si “manifesta pienamente nelle forme individuali” (p. 115). E in quanto unità, e dunque “sguardo totalizzante sul mondo” (Sessa, p. 121), Dioniso è anche la “divinità della contraddizione” (ibid.), ed è, perciò, il Dio del raccolto, cioè il Dio che raccoglie ogni cosa in sé, rendendo in tal modo la parte ebbra del tutto (si veda la relazione vino-liquore vitale-genius in Onians), ed invasata, perché ‘vaso’ di tutto ciò che è [2]. Questo, e non altro, è il mistero di Dioniso e della vita. Un ‘fondo’ in cui ribollono tutti i contrari nella loro intima e indissolubile unità (che però non li perde nel loro esser contrari), e che, simul, non è ‘rappresentato da’, ma è il ‘fondo’ di ogni ente. L’infinito insomma è, emianamente, nella presenza, nell’atto, lezione già chiarissima al Leopardi de L’infinito, che lungi dal pensare l’inafferrabilità dell’infinito, come vorrebbe Antonio Prete, lo pensa nel ‘cuore’ stesso del finito.
E infine, non è paradossale scoprire con Emo il volto genuinamente cristiano, tragico e vitale assieme, del massimo esponente del dionisismo rinascimentale, ovvero Giordano Bruno. Ancora una volta (in attesa di un nuovo inizio che sarà anche nuova fine) dionisismo e cristianesimo tragico si saldano in un fragile equilibrio che il rogo acceso a Campo de’ Fiori spezzerà per i secoli a venire.
- Al riguardo, cfr., giusto a titolo d’esempio, M. Frank, Il dio a venire. Lezioni sulla Nuova Mitologia, Einaudi, Torino 1994, in particolare le pp. 259-321.
- Giustamente Sessa (p. 121), sulla scia di Colli, rileva come l’orgiasmo dionisiaco sia tutt’altro che riducibile alla mera esplosione senza freni, quasi animalesca e incosciente. Così come non è neppure unio mystica, dissoluzione senza residui nell’Uno.
(Giovanni Damiano, «Totalità», 25 ottobre 2014)