Dossier/2: Il diario perduto di HPL

Howard Phillips Lovecraft
H.P. Lovecraft #2 – L’orrore cosmico del Maestro di Providence n. 8/2014
Dossier/2: Il diario perduto di HPL

15 Maggio 1926

Partito dal porto di New York alle 19.12, con dodici minuti di ritardo sull’orario. Mi sono piazzato sul ponte superiore e ho seguito con attenzione le manovre di disancoraggio. La partenza è stata anticipata dalla sirena, che è andata ad unirsi agli schiamazzi della gente sul molo, con le mani alzate a mandare saluti ai passeggeri di questa nave, che dovrebbe raggiungere Plymouth, in Inghilterra, e poi Le Havre in Francia in soli cinque giorni e mezzo […]. New York si defilava, le costruzioni sulla costa a formare un panorama d’intersecanti linee orizzontali e verticali. La città che mi aveva ospitato e mi aveva dato una pur leggera felicità andava a confondersi con l’orizzonte e, presto, sarebbe scomparsa del tutto.

Il mio primo grande viaggio è cominciato. Di questo devo ringraziare F., che ancora ha intercesso con le zie per permettermi questa follia. Spero in cuor mio che il loro denaro sia stato ben investito. Altrimenti non troverò mai più il coraggio di rivolgere loro la parola. Se dovessi fallire, come riuscirei a sdebitarmi? […] Sto apprestandomi a solcare il mare in cerca di qualcosa, un punto di riferimento, una possibile terra fertile dalla quale potrei cogliere dei frutti.

Non so per quanto tempo sia rimasto a rimuginare questi pensieri, ma deve essersi trattato di un periodo abbastanza lungo, perché la costa era diventata una grossa linea irregolare quasi del tutto cancellata dal mare. Soltanto strizzando gli occhi avrei potuto distinguere l’ultimo punto di riferimento di New York. Anche il ponte sul quale mi trovavo si era svuotato. La maggior parte dei passeggeri che mi aveva affiancato nei momenti della partenza aveva preso posto sulle panchine di ferro e legno, mentre altri, a gruppetti, in coppia, se non addirittura solitari, caracollavano sul ponte a passi lenti, scambiandosi convenevoli e godendosi la brezza del mare. Oltre all’inglese e tutte le sue sfumature, vocaboli italiani, francesi e tedeschi s’impastavano in una rara forma di cachinno universale.

Mi hanno assegnato la cabina 229. Non è né bella né brutta, però nella sua modestia è abbastanza spaziosa per un viaggiatore solitario come me […]. Le zie hanno insistito per farmi viaggiare come un vero signore ma io stesso ho preferito questa soluzione. Non ho a disposizione molto denaro e, quindi, preferisco risparmiare per quando sarò sul continente europeo. Il viaggio si prevede lungo e le tappe numerose. Perciò una certa parsimonia nello spendere mi è di diritto. Inoltre il numero 229 della cabina mi impone di “essere”, ironicamente parlando, attento. Cabalisticamente, sommando i fattori, non è un bel numero. La superstizione, però, non è per me motivo del quale dubitare. In questo, H. sarebbe più bravo di me a trovare delle buone argomentazioni. Al ritorno, magari, affronterò con lui questa coincidenza. Nel frattempo ho fatto la conoscenza del capitano della nave. È una persona simpatica che viene da “un non so dove” della penisola di Cape Cod. […] Si è dimostrato molto discreto non avendomi chiesto la motivazione del mio viaggio. Come avrei potuto rispondergli? Ha però insistito a che fossi suo ospite a cena: «Il cuoco è italiano» ha detto, «i manicaretti sono i migliori che si possano trovare sull’Atlantico». Ho fiducia nelle sue parole, ricordandomi del delizioso piatto di spaghetti che assaggiai con il mio figlio adottivo E., nel nostro girovagare per il quartiere italiano di Providence, solo tre anni fa. […]

 

18 Maggio 1926

Dopo colazione ho incontrato il capitano. La sua figura, nell’elegante uniforme d’ordinanza, andava su e giù per il ponte superiore fumando del tabacco profumato da una solida pipa di radica. Mi ha salutato con la mano ed io non ho fatto che seguire quel movimento, ricambiando la cortesia andandogli incontro. Abbiamo parlato del più e del meno, passeggiando come conoscenti di vecchia data. Per saziare la mia curiosità gli ho rivolto precise domande sull’Europa, concentrandomi a raccogliere più notizie possibili sull’Italia. Ho ad ogni modo celato le motivazioni del mio viaggio, adducendo un plausibile periodo di stimolante riposo in terra straniera. In sostanza, un viaggio di piacere, tutto dedicato alla scoperta di un continente zeppo di storia e di cultura.

Il capitano, da persona cordiale qual è, ha esposto la sua erudizione in materia decantando i pregi ed i difetti di Londra e le lodi di Parigi, nonché di Roma e Venezia […].

Di Roma ha elogiato la storia millenaria, l’architettura secentesca, le fontane, i quartieri rumorosi e male illuminati, dove per poche lire è possibile mangiare in maniera genuina ed abbondante. «La maggior parte dei cibi è di origine povera, per cui non si faccia ingannare dalle pietanze… sono sublimi». Ho frenato il suo entusiasmo, confessandogli che purtroppo Roma resterà per me una meta irraggiungibile. In ogni caso non ho approfondito l’argomento. Come avrebbe reagito se gli avessi detto che questo potrebbe essere il mio unico viaggio in terra straniera? A quale conclusione sarebbe arrivato se avesse saputo le grandi difficoltà che ho dovuto affrontare per pianificare questa “folle avventura”? E, soprattutto, come avrebbe potuto intuire i grandi dubbi che dividono il mio stato d’animo? Per evitare qualsiasi coinvolgimento “emozionale” ho fatto in modo che la conversazione si indirizzasse verso il suo (almeno per me) centro: Venezia ed i suoi dintorni in terra ferma. […]

 

11 Giugno

Ho finalmente pianificato l’itinerario che seguirò nell’entroterra. Per cominciare ho deciso di spingermi fino a L. Sulle mie mappe è segnato come un punto a ridosso di una intricata ragnatela di corsi d’acqua, tra A. e il delta. Sono fermamente convinto che il luogo sia interessante, per quanto ho potuto constatare attraverso le notizie raccolte a proposito di strane apparizioni e particolari riti legati ad una secolare tradizione religiosa. Dal quel poco che riesco ad immaginare, il paese deve essere attraversato da un canale abbastanza grande da permettere la navigazione di imbarcazioni di un certo taglio. Su questo punto non ho che vaghe informazioni anche se, leggiucchiando qua e là, ho la sensazione che il paese, per la sua posizione, faccia in qualche modo da confine tra la “terraferma” ed il grande delta. In ogni caso un luogo dove il viavai delle imbarcazioni è abbastanza cospicuo. Non per nulla lo stesso canale s’interseca con un corso d’acqua di ben più robuste dimensioni, che si va ad immettere a meridione nel letto maestoso del fiume. Inoltre il posto sembra ideale per una lunga permanenza. Il problema più grosso è come arrivarci nel modo più economico e nel minor tempo possibile […]. L’impiegato al quale mi sono rivolto mi ha suggerito una soluzione ottimale alle mie necessità.

«Potreste prendere l’autobus dei pendolari» mi ha detto, un po’ esitante. «Da queste parti lo usano soprattutto gli operai dello zuccherificio. Fa parecchie fermate ma porta direttamente a L., prima di fare capolinea ad A. Deve sapere che la gente del posto non è ancora abituata ai viaggi in treno: da quelle parti lo reputano tutt’ora una sorta di aggeggio sbuffante… credo che non riescano a concepire il progresso. Ad ogni buon conto, l’autista è un tizio proprio di quelle parti e non fa storie se qualcuno gli chiede uno sconto sulla tariffa. Ci sono due partenze al giorno, alle otto del mattino e alle sette di sera, un poco più avanti, lungo il viale alberato. Non può sbagliare perché vedrà delle persone in piedi in attesa.» Le informazioni che avevo incamerato erano più che sufficienti. L’accenno ad un paesino dove gli abitanti sono abbastanza restii alle novità era bastato ad interessarmi. […] Come avrei potuto spiegargli che i più frequenti avvistamenti dell’essere mezzo uomo e mezzo pesce denominato “Saguseo” erano avvenuti proprio nelle vicinanze di quei luoghi e che per andare a scoprire le radici di questa leggenda mi ero spinto ad attraversare l’oceano? […] Si fermò un attimo, quasi a soppesare le parole che stava per dirmi, poi, come ricordandosi di qualcosa di importante, concluse: «Se dovesse decidere di restare più di una settimana, avrà il piacere di assistere ad una delle più grandi attrazioni del paese. Si tratta della festa dell’Assunta, una tradizione religiosa molto popolare e molto antica, nella quale i fradei [in italiano nel testo] percorrono la via principale incappucciati con dei sai rossi, prima di chiudersi nella chiesa dove tengono un rito che nessuno ha mai svelato. Le ipotesi sono molte ma alcuni sono pronti a confessare che essi si ritirino nei sotterranei della chiesa ad adorare un essere segreto…» […].

 

18 Giugno

[…] Tramite il proprietario della locanda sono riuscito a rimediare un passaggio su un calesse che dovrebbe accompagnarmi proprio nel punto esatto dove il ragazzo ha supposto di vedere il Saguseo. Può sembrare una assurdità ma qualcosa in cuor mio mi suggerisce che il fatto di ieri non sia solo frutto dell’immaginazione. La descrizione era così dettagliata da far dubitare chiunque. Sono però fermamente convinto, e non c’è altra spiegazione logica, che il ragazzo sia rimasto vittima della sua stessa ingenuità. Non voglio smentire la sua buona fede ma dall’aver veduto un essere a metà tra l’uomo ed il tritone ne passa di acqua sotto i ponti. Esiste però la possibilità che in cuor suo abbia avuto ragione, scambiando un esemplare di rana toro […] per l’essere da lui chiamato Saguseo. E se avessi scoperto il nesso tra la rana toro e questo essere fantastico? Tutta la tradizione contadina di questi luoghi andrebbe a farsi friggere. E allora ci sarebbe da riderne per davvero. Che sia una rana toro, un Saguseo o meno, questa storia mi ha messo addosso una curiosità divorante. Sono certo che dopo la “gita” nei dintorni che è riuscito ad organizzarmi il mio anfitrione avrò materiale su cui ragionare.

[…] Il signor Z. ha parafrasato questioni legate alle credenze popolari e a molte alterazioni dovute ad abbondanti dosi di vino. Da parte sua non crede a nessuna di quelle storie di avvistamenti che sovente si narrano da queste parti. «Per lo più, si tratta di storie raccontate nelle fredde notti d’inverno al riparo di qualche fienile» ha commentato, ma, vedendomi interessato, si è affrettato a chiarire che «ognuno della congrega, tra una fumata e una bevuta, cerca di spaventare gli altri con storie di fantasmi, streghe ed altre diavolerie del genere!». Ad ogni modo, mi sembra di aver capito che, da queste parti, queste novelle siano conosciute da tutti. A riprova di questi ragionamenti, quasi mi avesse letto nel pensiero, il signor Z. mi ha fatto capire che «se vuole saperne di più, allora il dottor Furin è la persona giusta!». Sulle prime non ho capito chi potesse essere costui, poi ho inteso che si trattava del medico del paese. È sicuramente una personalità erudita e di riguardo, in un posto piccolo come questo. Mi sono limitato ad annuire con la testa ed egli, tutto contento, ha accelerato il passo, facendomi cenno di seguirlo. Trovavo imbarazzante non poter commentare a dovere. Era la prima volta che l’handicap della lingua si esprimeva in tutta la sua invalicabilità. Così lo seguivo in silenzio. Camminavamo uno accanto all’altro, come amici di sempre. Era una sensazione piacevole. Mi rimproveravo di essere stato fino a quel momento un po’ scostante e taciturno con quest’uomo che, nel giro di un paio d’ore, non solo mi aveva sollevato dal mio nervosismo, ma mi stava dando una mano ad addentrarmi ancora di più nelle leggende di questi luoghi. Camminavo ed intanto elaboravo mille domande da porre alla persona che andavamo ad incontrare. Essendo un medico, mi aspettavo da lui una certa razionalità nei confronti di queste fole [in italiano nel testo]. Mi prospettavo anche un suo senso critico per giungere magari ad una soluzione alle mie supposizioni sulla rana toro ed il Saguseo. Ma, soprattutto, speravo che capisse le mie vere intenzioni e non che fossi solamente uno straniero, giunto lì per caso in cerca di notizie stravaganti da raccontare, una volta tornato a casa, ad una cerchia d’amici, sorseggiando Bourbon e ridendoci sopra. Non nego che questa eventualità mi avesse provocato un senso di panico passeggero. M’imposi di non essere incalzante, cercando invece di porre le domande con la maggior sensibilità possibile […].

L’arrivo davanti alla casa del dottor F. ha interrotto del tutto i panegirici della mia mente […].

«Venga, venga. Non faccia complimenti.» Mi meravigliai di sentire parlare in inglese. Il dottor Furin, in mezzo alla porta, mi sorrideva, porgendomi la mano destra.

«Non stia lì, in mezzo alla strada, entri senza fare complimenti. È un piacere per me fare la sua conoscenza.» Sebbene con un marcato accento, le frasi fluivano dalla sua bocca come musica. Non mi feci attendere oltre. Allungai una mano verso la sua, gliela strinsi ed entrai in casa, seguito da Z. […].

«Mi scusi, ma ancora non mi sono presentato: Ferdinando Furin, e nel bene e nel male sono il medico di questo ridente paesino.» Mi strinse ancora la mano ed io ricambiai nuovamente, dicendo il mio nome.

Finite le presentazioni, il dottore ci accompagnò in un soggiorno arredato con un certo buon gusto. Mobili di legno massiccio, qualche ninnolo di cristallo, un paio di paesaggi ad olio e una grossa tenda di fustagno arricchivano quell’arredamento sobrio e apparentemente demodé. Un leggero ristagno di odore di tabacco completava l’atmosfera.

«Il signor Z. mi ha detto che lei è un giornalista americano, interessato alle nostre tradizioni popolari.» Il dottore andò diritto al punto, dopo averci fatto accomodare su delle poltrone di velluto verde. Diedi un segno di assenso, aspettandomi una serie di domande riguardanti la mia “professione”. Non arrivarono. Stavo per rivolgergli la prima domanda quando il signor Z. si alzò di scatto dalla poltrona, dicendo qualcosa al dottore e indicando la mia direzione. Compresi che parlavano in dialetto e non me ne feci un problema: anche se avessero parlato nella loro lingua nazionale, sarei rimasto all’oscuro delle loro parole.

«Il signor Z. si assenterà un paio d’ore, per certe incombenze. Nel frattempo, noi due ci faremo una lunga chiacchierata.» Il senso della traduzione di F. era più o meno questo, mentre Z. mi salutava con un «arrivederci» che compresi perfettamente. Poi, i due si allontanarono, lasciandomi solo nel soggiorno. Sentii la porta d’ingresso aprirsi e i due parlottare […].

Udii la porta richiudersi e i passi del dottore avvicinarsi. Lasciai cadere le mie riflessioni non appena l’uomo fu nuovamente davanti a me.

«Z. si scusa con lei ma preferisce gestire i suoi “affari” da solo. Non lo biasimi, Giuseppe è un buon amico ed un grande lavoratore.» Risposi che non mi sentivo affatto offeso e che, anzi, il nostro dialogo sarebbe stato migliore senza l’apporto della traduzione. Dopo questa spiegazione, il dottore si è seduto di fronte a me nella stessa poltrona dove pochi minuti prima aveva preso posto Z., che adesso sapevo chiamarsi Giuseppe.

A quel punto, saltati i convenevoli, abbiamo iniziato a parlare tra noi. Lui mi ha chiesto dell’America e come mai fossi interessato proprio ai racconti del Filò polesano, dal momento che le leggende indiane del mio Paese erano di gran lunga più interessanti. Solo allora gli ho spiegato i miei intenti e lo scopo del mio viaggio in Italia […]. Lui ascoltava in silenzio e annuiva. Solo una volta ha interrotto la discussione, chiedendomi se gradissi un bicchiere di grappa.

«Viene da Bassano ed è la migliore che si possa trovare nel raggio di duecento chilometri.» Ho accettato di buon grado, senza fare commenti su dove si trovasse Bassano. Un minuto dopo, sorseggiavo il liquore che egli stesso mi aveva versato […].

A quel punto fu il dottore a parlare. Si accomodò sulla poltrona e, senza che io avessi insistito nel chiedergli qualcosa di specifico sull’argomento, disse: «La verità è che non ho mai creduto nel soprannaturale.» Era un’affermazione che non significava niente ma, in quel contesto, era il preludio ad una rivelazione importante.

«Quindi ho fatto il possibile» ha proseguito «per ridimensionare certi racconti ispirati a vecchie superstizioni campagnole.» C’era in lui una sorta d’illogicità razionale, quasi egli stesso volesse non credere alle sue stesse parole. Da parte mia, mi divertivo molto a vedere una persona colta come lui affermare che quelle voci avrebbero potuto basarsi su fatti più o meno deformati.

«Ho appreso dai contadini molti racconti di località frequentate da “spiriti” deformi e mostruosi, ma mi sono astenuto dall’occuparmene, giacché non ho avuto l’occasione di investigarli personalmente… Le apparizioni fantasmatiche nei canali e nei paesini del Po di Pila sono sempre state considerate dai pescatori e dai contadini come eventi normali e, naturalmente, essi affermano che sono spiriti di entità ancestrali, sempre esistiti in questi luoghi remoti. Tali apparizioni avvengono ordinariamente di notte e si manifestano in varie forme, talora assumendo, in guisa tangibile o fantomatica, le caratteristiche di creature sconosciute di colore grigio-verde o rosa pallido con enormi occhi di bragia. Alcuni affermano che queste “creature” assumano talvolta forme indefinite di nubecole, luminose od opache.

«Le apparizioni di tale natura incutono da sempre terrore negli abitanti della zona, i quali ritengono pericoloso venire in contatto con esse, preconcetto, quest’ultimo, che determina qualche volta dei casi di false personificazioni di fantasmi a scopi interessati. Si pensa inoltre che, venendo a contatto con un fantasma od una di queste creature, si possa far loro del male. Esiste perciò una certa riverenza, se non addirittura una sorta di sudditanza, nei confronti delle apparizioni. Non sono però riuscito ad essere ragguagliato intorno ai motivi per cui si presume che si arrecherebbe loro del male. Tengo a sottolineare questi racconti, leggende qualsivoglia, che popolano i racconti del filò (di cui ho molto rispetto, per la continuità della tradizione popolana) per segnalare l’orientamento dei pensieri di queste menti semplici, tanto più che posso affermare di aver avuto occasioni di accertarmi personalmente dell’esistenza, nei cimiteri, nei canali e nelle zone più paludose del delta, di apparizioni in forma fisica di un grosso ramarro verde grigio con grandi occhi sporgenti su una testa schiacciata. In un’altra occasione mi capitò di assistere al formarsi di nubecole luminose, apparizione che mi fu indicata come quelle che i contadini considerano anime dei defunti».

Seppur piena di contraddizioni, l’analisi del dottor F. era alquanto plausibile. Ero certo che le «nubecole» da lui citate altro non fossero che i fuochi fatui dei cimiteri. Il che, del resto, non contraddiceva affatto l’opinione dei contadini. È però diffusa l’opinione (anche nella cerchia di persone affermate e colte) che i “fuochi fatui” altro non siano che fiammelle d’idrogeno, o miscele di altri gas esalati dai cadaveri appena seppelliti. Ma ciò è totalmente fantastico, dato che la chimica non conosce l’esistenza di gas che assumono parvenza di fiammelle. E tanto meno di fiammelle permanenti e vaganti qua e là. Mi restava da obiettare se la creatura grigio-verde fosse la stessa che il ragazzo, ed egli stesso, aveva presunto di vedere. Accennai la mia ipotesi sulla rana toro ma il dottor F. si precipitò a dirmi che «esiste una tale possibilità. Ma questa specie di animali non è frequente da queste parti e i pochi casi conosciuti sono avvenuti solamente nelle stagioni estive.» Il che confermava le mie supposizioni.

«Mentre la maggior parte delle apparizioni è stata riscontrata in altri periodi dell’anno, soprattutto in inverno» proseguì il dottore, liquidando definitivamente la questione.

«C’è un’altra cosa che potrebbe interessarla…» il dottor F. lasciò la frase a metà, in maniera misteriosa. Mi fissava, cercando nel mio volto una nota di stupore […].

«Di cosa si tratta?» La mia frase sembrava sospendersi e subito diluirsi.

«Di una scoperta archeologica molto interessante… da due anni non si parla di altro…» Restò un attimo a soppesare la mia espressione. Capii al volo che le sue parole avrebbero stimolato la mia fantasia. Restai al gioco e formulai una domanda, un po’ stupida: «Cosa la rende interessante?».

«Se la relazione fosse vera, si tratterebbe della più settentrionale città etrusca conosciuta… Una scoperta che riscriverebbe la distribuzione di questo antico popolo sul territorio italiano.»

Conoscevo il popolo etrusco attraverso le mie letture accademiche. Sapevo che era una civiltà dell’Italia centrale molto più antica di quella romana e che, dopo essere stata sconfitta da quest’ultima, venne assoggettata, per poi scomparire per sempre. […]

 

21 Giugno

Il calesse sobbalza mentre ci addentriamo in una zona più paludosa delle altre […].

Fa una certa impressione percorrere queste stradine cosi strette che corrono lungo l’argine del fiume. Il dislivello sarà al massimo di un metro e mezzo e subito capisco perché questa zona sia così facilmente disarmata alle continue tracimazioni del Po. […] Enzo mi ha spiegato che quella in cui ci stiamo inoltrando è una zona desolata che la gente dei dintorni definisce “laggiù”. Paesini quasi inesistenti, distribuiti in un’area di una decina di chilometri quadrati, celati da una folta vegetazione dall’uniforme gamma cromatica: dal verde più pallido al verde più intenso. Un posto che, al visitatore meno smaliziato, resterebbe incognito e misterioso. Enzo si è affrettato a dirmi che la maggior parte di questi agglomerati sono sconosciuti e quasi del tutto disabitati da non essere, per la maggior parte dei casi, segnati nelle carte. […]

Cogliendo la mia perplessità, Enzo mi si è avvicinato dicendomi: «Non si preoccupi, sanno della nostra presenza ma preferiscono non farsi vedere. Non sono molto abituati all’arrivo di forestieri». […]

Nel silenzio più totale abbiamo percorso in discesa alcune centinaia di metri fino ad una irregolare piazzetta, immersi in una atmosfera umida dove l’odore di acqua e fango era così persistente da togliere il respiro. Ma, oltre il puzzo di acqua stagnante, diffusa inevitabilmente dalla brezza fluviale, era l’architettura sciatta e disordinata a richiamare lo sguardo. Abitazioni basse e solide di età indefinita sembravano abbandonate per via di estese chiazze di muffa e brecce nelle pareti delle case. Anche qui alcune finestre erano chiuse in maniera ermetica. […]

Nel frattempo, eravamo giunti dove il fiume lambiva il termine naturale del villaggio. Il Po scivolava via, placido e silenzioso. Solo allora mi accorsi che, dal mio punto di osservazione, esso prendeva le sembianze di lungo serpente. Ed io mi trovavo esattamente nella sua bocca. […]

 

29 Giugno

In molti la casa ha sempre suscitato una fascinazione particolare: si erge nel bel mezzo di un canneto a pochi metri dall’argine del fiume. È un po’ rialzata dal livello del sentiero, così nei giorni di nebbia fitta sembra sospesa nel nulla. Molti hanno perfino paura a parlarne, forse perché in tempi antichi andò consumandosi una storia di orrore puro. Molti sono pronti a giurare che la serie di scomparse avvenute in quel luogo sinistro sia solo una leggenda, alimentata dalla fantasia popolare. Ma nessuno ha mai potuto confutarne il contrario. Così il suo mistero echeggia nelle dicerie della gente: si dice che in essa vi abitasse una famiglia sistematasi all’inizio del secolo, dopo essere emigrata da non si sa dove. Davano poca confidenza e chi passava nei paraggi per andare a pescare nel fiume veniva cacciato in maniera cortese da un uomo molto alto, dalla pelle molto chiara e da una grande barba nera. Comunque tutti sono concordi nell’affermare come nei suoi occhi fosforescenti si riflettessero visioni sconosciute. […]

 

4 Luglio

[…] Ho ripensato a tutto quello che i miei occhi hanno visto e agli episodi cui ho assistito. Non credevo che in un posto del genere potessero convivere una moltitudine di leggende così attaccate al soprannaturale. Ed esse sono così radicate nella cultura locale da avermi davvero meravigliato. Ma forse “meraviglia” è solo un eufemismo. Ad ogni modo sono davvero giunto alla fine del mio errare in terra straniera. Di conseguenza, passerò il pomeriggio a rifare il bagaglio. Lo sistemerò alla rinfusa, cercando di non sgualcire troppo la poca biancheria del mio modesto vestiario. A prima vista dovrei sembrare, agli occhi dei curiosi, un distinto signore in viaggio d’affari. La cosa importante è avere un portamento distinto una volta salito sull’autobus che mi riporterà a R. La ferrovia, come ho potuto constatare, da queste parti è davvero un mezzo di trasporto poco affidabile. Da R. in poi la linea ferroviaria è più efficiente e giungere a P. sarà una passeggiata. Poi si tratterà di compiere il percorso a ritroso. […]

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Trent ’anni non bastano. Né mai sarà sufficiente qualunque distanza temporale dalla sua scomparsa per sopire il senso di inadeguatezza, l’incurabile timore reverenziale e di lesa maestà scrivendo del genio di Gian Maria Volonté. Una genialità controversa, travolta dalle mistificazioni, salvaguardata dal mistero. Quel suo sguardo severo nutrito dall'esigenza di perfezione sopravvive nelle coscienze mai abbastanza critiche, al punto da indurre un autore a posticipare di sei anni la pubblicazione di un libro a lui dedicato perché “non si sentiva all'altezza”. Questi risponde al nome di Stefano Loparco, saggista navigato e rispetta- to, il cui L’ultimo sguardo. Vita [...]
Scritto da Ilaria Floreano, con la prefazione di Barbara Sukowa, il primo volume italiano dedicato alla cofondatrice, insieme ad Andreas Baader e Ulrike Meinhof, della Rote Armee Fraktion (RAF). Pubblicato da Bietti Edizioni, è un ritratto realizzato attraverso i film in cui ha recitato, le pellicole che ha ispirato, le affinità e le divergenze con personaggi come R. W. Fassbinder e le lettere scritte dal carcere alla sorella Scritto con passione e autorevolezza da Ilaria Floreano, Gudrun Ensslin. Attrice, madre, terrorista, prigioniera è un’indagine su una cittadina niente affatto al di sopra di ogni sospetto. Con gli strumenti della letteratura e del [...]