Il guardiano della memoria. Intervista a Stefan Aust

Ilaria Floreano
Rote Armee Fraktion n. 18/2024

2.11.2023. Trascrizione della video-intervista realizzata in collegamento tra Milano e Amburgo (Germania)

Herr Aust, lei ha dedicato alla Rote Armee Fraktion un tomo di quasi mille pagine. Ha collaborato ai film Stammheim. Il caso Baader-Meinhof di Reinhard Hauff nel 1986 e La banda Baader Meinhof di Uli Edel nel 2008. Sempre nel 1986 ha diretto Baader-Meinhof e, nel 2007, il documentario in due parti Die RAF. Quali sono le premesse e lo scopo di questa sua indefessa e mastodontica ricerca sul tema?
Mi piace dire che questo è uno di quei casi in cui non è stato l’autore a cercare il soggetto, bensì il soggetto a trovare l’autore. Sicuramente perché ha a che fare con la mia storia personale.
Sono nato nel 1946 a Stade, una piccola cittadina nel nord della Germania, e lì ho frequentato le scuole. Facendo il giornalino al liceo conobbi un ragazzo di poco più giovane di me. Era il fratello minore di Klaus Rainer Röhl. Röhl, a quel tempo, era già il direttore del magazine «konkret», oltre che il marito di Ulrike Meinhof. Ecco come, mentre ancora studiavo, conobbi Röhl, Meinhof e la loro rivista.
Siccome il nostro giornale scolastico era abbastanza interessante, Klaus mi propose di lavorare con loro non appena avessi finito di studiare. Dato che i miei genitori non erano particolarmente benestanti ed era un’epoca di gran fermento, nonostante non fossi di sinistra – non lo ero allora e non lo sono adesso, sono sempre stato un uomo della classe media, un semplice liberale, o come mi si voglia chiamare – non solo accettai la proposta, ma iniziai a collaborare con «konkret» prima ancora di diplomarmi. Ho pensato subito che fosse importante che esistesse una rivista di quel genere, anche se non sempre ero convinto di quello che pubblicavamo. Fu una grande esperienza: ebbi l’occasione di conoscere persone interessanti, molte delle quali esponenti del movimento studentesco degli anni Sessanta. Persone come Ulrike Meinhof, che però, per me, all’epoca era un’anziana signora. Avevo vent’anni, lei dodici di più! [sorride, ndr].
Come reporter seguii da molto vicino le iniziative degli studenti. Andavo spesso a Berlino, conobbi molti dei principali rappresentanti dei movimenti extraparlamentari. Per questo so tante cose relative al periodo che precede l’avvento del terrorismo. Conobbi molti di loro. Gli ero molto vicino, ancorché non politicamente allineato con loro. Accompagnai Rudi Dutschke in Cecoslovacchia, per esempio, durante la Primavera di Praga. Volevamo scriverci un libro sopra. Rudi è stato aggredito mentre si stava dirigendo al quartier generale del movimento studentesco per raccogliere i materiali per questo libro.
Ecco perché sapevo e so tante cose di quel periodo e dei suoi protagonisti.
Lavorai nella redazione di «konkret» per tre anni, spalla a spalla con molti dei personaggi di cui racconto in Rote Armee Fraktion. La banda Baader Meinhof. Dopo tre anni decisi di prendermi una pausa e volai negli Stati Uniti per respirare l’aria del tempo. Lì incontrai importanti esponenti della sinistra americana, in particolare del Black Panther Party. A dirla tutta, feci la mia prima intervista Eldridge Cleaver quando era al primo posto nella lista delle persone più ricercate dall’FBI1. Lo incontrai ad Algeri. Ma ancora più interessante fu quando mi capitò di partecipare a un raduno di futuri membri del Weathermen, il gruppo terroristico americano, e ascoltarli mentre ipotizzavano i loro piani. Questo raduno, infatti, si tenne nella casa dove alloggiavo, e così li sentii pianificare attentati e quant’altro. Ebbi pure l’ardire di dirgli: se volete fare come stanno facendo le Black Panther, otterrete gli stessi risultati. Ucciderete persone, o sarete uccisi, o finirete in prigione. Perciò, fossi in voi, non lo farei. Ecco qual era la mia posizione nei confronti del terrorismo, da subito.
Dopodiché rientrai in Germania e incontrai Ulrike Meinhof e una sua amica, con la quale viveva in quel momento. Non avrei mai immaginato che sarebbe diventata una terrorista, che si sarebbe data alla clandestinità. Insomma, come si può capire, e come traspare del libro, vissi quei momenti molto da vicino. Conobbi l’ambiente da dentro. Ecco perché, anni dopo, decisi di dedicarci un tomo così voluminoso. Lo scrissi mentre lavoravo per la televisione pubblica, che mi chiese di trarne anche diversi documentari. Ma quando si trattò di elaborare Rote Armee Fraktion, scelsi di abbandonare il lavoro per la televisione e di dedicarmi esclusivamente a ricerca e scrittura.
Vissi esperienze… originali, se così si può dire. Una, davvero straordinaria, mi capitò mentre ero al lavoro sul film di Reinhard Hauff. Ero amico di un avvocato, Kurt Groenewold, che era stato uno dei difensori di Ulrike Meinhof. Lui mi fornì qualcosa come un centinaio di metri di documenti sulla Fraktion, che stipai nel mio piccolo appartamento. Quando andai nello studio in cui li aveva conservati, all’improvviso notai anche questi 28 faldoni con i registri del processo a Stammheim. E questo in Germania non era normale. In Germania non ci sono le trascrizioni integrali dei processi in tribunale. Esistono i protocolli integrali trascritti soltanto di tre grandi processi: Norimberga, Auschwitz, Stammheim. E io, quel giorno nello studio di Groenewold, leggendo quel protocollo completo, 15.800 pagine, capii che tutto ciò che si può dire del terrorismo venne detto e discusso durante quel processo. Da questa scoperta mi venne un’idea: perché non trarne un copione? Parlai con Reinhard Hauff – eravamo amici, conoscevo bene sua moglie, a sua volta vicina alla regista Christel Buschmann, in quella che era la scena intellettuale di Berlino, Amburgo e Monaco di Baviera – e decidemmo di realizzare un film basato sullo Stammheim Protokol.
Ma anche altre cose “strane” capitarono…
Immagina: incontrai Groenewold nel 1983 o giù di lì. Lui mi diede tutti questi documenti, che io ricopiai pagina dopo pagina – non c’erano ancora le stampanti come le conosciamo noi. Vent’anni dopo, anzi di più, era il 2007, ero al lavoro sul documentario in due parti per la televisione pubblica – realizzai anche altri documentari prima di questo, ma non contano – e, nello stesso momento, ero caporedattore allo «Spiegel». Non riuscivo a fare il lavoro da solo, così chiesi a un collega di aiutarmi. Bene, poco prima di cominciare a girare, discutemmo su quale materiale tentare di ottenere da inserire nell’opera. Materiale che non fosse già noto, si intende. Scherzando dissi: c’è il protocollo scritto… dove c’è un protocollo scritto, forse, ci sono anche dei nastri registrati. Ridemmo. Ma poi andammo a Stammheim, al tribunale. Parlammo con alcune persone, che risero a loro volta della nostra idea. Risero tutti tranne uno, che si mise a cercare e trovò un tizio che era responsabile dei nastri. «Dove hai messo quelli vecchi?», chiese il nostro “aiutante”. «Be’…», rispose il tizio, «in una stanza». Io cercai questa stanza e vi trovai i nastri. Erano ancora lì! E li prendemmo. Ci crederesti? [ride, ndr] Così, con le nostre registrazioni del processo, ci rimettemmo all’opera. Concluso il lavoro sulle parole di Baader, Ensslin e Meinhof, andammo in un ristorante italiano di Amburgo e ci incontrammo con Kurt, che quasi venticinque anni prima ci aveva fornito la loro versione trascritta.
Sono successe cose davvero curiose, in quel periodo.

Lei andò sul set dei film di Hauff e Edel?
Certamente. Per quanto riguarda Stammheim, avevo le esatte planimetrie della corte e della prigione, che ricostruimmo con precisione ad Amburgo. Partecipai al set quasi per intero, collaborai anche in sala di montaggio, lavorammo a strettissimo contatto.
Quanto al film di Edel, scritto da Bernd Eichinger, vi racconto come andò perché è abbastanza divertente. La televisione pubblica mi aveva chiesto di fare un documentario, in occasione del trentesimo anniversario dell’Autunno Tedesco. Avrebbe dovuto essere, appunto, un documentario in due parti, ma ancora non avevamo preso accordi scritti. Ne avevamo parlato, ma non c’era un contratto. Così, una sera, a una festa in un famoso ristorante di Berlino, incrociai Bernd Eichinger, che mi chiese cosa stessi combinando2. Be’, gli risposi, sto lavorando a questo documentario per la tv pubblica sulla banda Baader Meinhof… «No!», mi interruppe subito lui: «Tu lo farai con me!».
E fu così che mettemmo tutto insieme e feci entrambi. Come dicevo, in quel periodo lavoravo per lo «Spiegel» e, dunque, non riuscii a frequentare molto il set. Ci andai tutte le volte che potevo, ma non tutti i giorni. Quella, purtroppo, è un’esperienza che puoi fare una volta nella vita, e infatti adesso, quando ci ripenso, rimpiango di non essermi preso una vacanza per passare tutto il mio tempo lì. Comunque, anche in questo caso lavorai a stretto contatto, scrivendo per intero il trattamento alla base della sceneggiatura. Eccolo qui, guarda [mostra un faldone ad anelli con almeno 700 pagine formato A4, ndr]. Se avessero tratto il film da qui sarebbe durato sette ore! Ma è da qui che Bernd sviluppò la sceneggiatura.
Andai sul set di Edel soprattutto quando si giravano scene particolarmente imponenti come, per esempio, quella di apertura, con la visita dello Scià di Persia. Fu una sequenza molto impegnativa, con riprese molto belle. Devi sapere che molte delle persone che erano presenti, in quel 2 giugno del 1967, compaiono in questa scena del film. Sì. I poliziotti che maneggiano i cannoni spara acqua, per esempio, sono gli stessi che usarono quegli stessi cannoni sulla folla durante la visita dello Scià.

Questo è un retroscena prezioso. Tornando a Stammheim, solo pochissimi personaggi sono chiamati con il loro nome. 
Si tratta di una decisione fondante. Come detto, la base per il film fu la trascrizione del protocollo. Qualcosa come 14.800 pagine, che ridussi a… 120. Ecco perché si rese inevitabile condensare, magari accorpando due personaggi in uno, collocandolo in una condizione diversa, oppure facendogli dire qualcosa detto in realtà da qualcun altro. Soltanto i personaggi principali compaiono con il loro nome3. Non dimenticandoci che si tratta di un film, ma posso dire che si avvicina molto, molto alla realtà.

Qual è la principale differenza tra il raccontare la RAF a parole e il farlo per immagini?
Ancora oggi trovo più interessante scriverne, perché quando scrivi puoi avvicinarti molto alla realtà, dettagliandola. Con le parole puoi restituire tutto ciò che sai. Farlo con le immagini è assai più complicato. In un film di finzione, certo, puoi girare delle scene replicando il più possibile lo svolgimento dei fatti. In altre, invece, non sai esattamente cosa sia successo, cosa sia stato detto, e allora devi inserire delle idee, delle invenzioni. A questo proposito, ci tengo a ribadire che il mio libro, Rote Armee Fraktion, non è un testo scientifico, né una tesi di dottorato. È una storia cronachistica raccontata da un giornalista, non una trascrizione stenografica da citare parola per parola. Tuttavia, ogni qualvolta ho scoperto che qualcuna delle informazioni da me scritte era errata, o diversa, ho chiesto di poter intervenire e modificare. Non ho mai detto, lo ripeto, che si tratti della storia vera e definitiva. Ma, a ogni nuova edizione, credo di avvicinarmi sempre un po’ di più alla verità [ride, ndr].

Come sono stati accolti i due film in Germania?
C’è un divertente retroscena anche qui: il film di Hauff vinse l’Orso d’Oro a Berlino nel 1986. Quell’anno la presidente della giuria era Gina Lollobrigida, che non lo aveva apprezzato. Salii sul palco per ritirare il premio insieme ad Hauff e, nel ritirarlo, le chiesi scusa. Mi dispiace molto che debba consegnarci l’Orso d’Oro – le dissi – So che lei è contraria.

E Lollobrigida cosa le rispose?
Non lo ricordo più… Penso non abbia detto nulla. L’aveva dichiarato poco prima, annunciando il premio! Aveva detto: «La giuria ha deciso in favore di questo film, ma io sono contraria» [ride, ndr].

Questo dal lato italiano. E per quanto riguarda il pubblico tedesco?
Stammheim fu un grande successo. Come si può intuire, non costò moltissimo rispetto a La banda Baader Meinhof, che per un periodo è stato il film più costoso mai girato in Germania.
Stammheim ci ripagò dei soldi che avevamo investito. Tantissimi andarono a vederlo in sala, generò un acceso dibattito perché rappresentava una novità assoluta. Nessuno sapeva esistesse il protokol, nessuno aveva idea di come Baader, Ensslin, Meinhof parlassero tra di loro, con i loro avvocati, con i giudici e i procuratori generali. Era una cosa assolutamente inedita, e vedendo il film capivi che si trattava di qualcosa di autentico. Era e resta una pellicola molto interessante. A conti fatti si tratta di una lunga discussione all’interno di un tribunale, mentre le poche scene girate in prigione, con Meinhof, Baader, Ensslin e Raspe, le inserimmo per rendere conto degli scontri tra loro, di cui ovviamente non c’è traccia nel protocollo, ma di cui siamo a conoscenza grazie alle lettere illegali che si inviavano da una cella all’altra. Dunque, in quel caso non avevamo le parole dette, ma quelle scritte. E loro scrivevano come se stessero parlando.
Il film di Edel è un’opera molto diversa, ad alto budget, ma anche lui ebbe un ottimo riscontro. Quasi ci fece vincere un Oscar. Arrivammo tra i primi tre agli Academy, ma niente premio. Arrivammo anche tra i primi tre ai Golden Globe, ma niente premio. E tra i primi tre anche ai BAFTA… ma niente premio. Ogni volta sul podio, ma mai primi [ride, ndr].

Lo avreste meritato. Può raccontarci qualcosa degli attori? Nel film di Edel la mimesi è ben più ricercata che in Stammheim.
La ragione è presto detta: quando trovai i documenti di cui ho raccontato prima, ne parlai sia con Hauff sia con un altro amico, Jürgen Flimm – recentemente scomparso [il 4 febbraio 2023, ndr] – che dirigeva il Thalia Theater di Amburgo. Ci dicemmo: perché non farlo insieme? Non avevamo molti soldi, né ne ricevemmo dalla televisione o dallo Stato. Lo finanziammo interamente con fondi privati, in co-produzione proprio con il Thalia. A quel punto fu scontato rivolgerci alla loro compagnia per trovare gli interpreti. In fondo, non fa molta differenza che gli attori siano simili o no agli originali, se sono bravi. Solo un ruolo restava scoperto, per il quale non riuscivamo proprio a trovare un volto del Thalia che potesse interpretarlo. Si trattava di Andreas Baader. Alla fine scegliemmo Ulrich Tukur, al suo esordio come protagonista e destinato a diventare una grande star in Germania. Nel film scritto da Eichinger e diretto da Edel cercammo un cast più mimetico, ma non era una questione essenziale. Di certo non il primo motivo per cui scegliemmo Moritz Bleibtreu per interpretare Baader. Come puoi immaginare, in quel momento ogni giovane attore tedesco sognava di interpretare Baader nel nostro film. Che, in fondo, non è solo una storia di terrorismo, ma la storia di una generazione.

Verissimo. La banda Baader Meinhof, però, si conclude con la morte di Hanns-Martin Schleyer, dopo la “notte di Stammheim”. Dunque, racconta la Prima generazione RAF e accenna alla Seconda, ma non contempla la Terza.
Se potessi farti leggere il primo trattamento che ho elaborato, vedresti che un terzo era dedicato al rapimento Schleyer e al dirottamento del Landshut. Semplicemente, non avevamo abbastanza tempo per parlare approfonditamente anche di questo. In ogni caso, il nostro focus è sempre stato sulla Prima generazione, coloro che avevano orientato il movimento politico dei Sessanta verso il terrorismo.  La Seconda, a conti fatti, ha avuto come scopo liberare i prigionieri di Stammheim, che sono rimasti sempre il centro. Certo, mi è capitato nel tempo di avere voglia di scrivere un altro libro sulla generazione successiva, su cosa è successo dopo. Ma non ne so abbastanza. Non sono stato vicino agli eventi e ai protagonisti dell’ultima fase, come lo sono stato a quelli della prima. Che contiene questo nucleo interessante: il dramma di un gruppo di persone che dall’essere, o dal percepirsi, custodi di un’alta moralità, scivolarono in una dimensione totalmente immorale. Quella era la mia generazione, e le discussion dell’epoca vertevano spesso su questa contraddizione.
Penso di essere una tra le persone che ne sa di più, per aver partecipato a molte di queste discussioni.

Ma lei crede sia esistita davvero, la Terza generazione? Fassbinder, nel suo omonimo film, avanza più di un dubbio. E non è il solo.
La Terza generazione c’è stata. Ha preso il nome RAF dalla Prima e dalla Seconda, ma erano semplicemente assassini. Sappiamo poco di quello che ha fatto la Terza generazione, ma forse non si è mai nemmeno adeguatamente indagato. Potrebbe darsi che ci sia la mano della Terza generazione dietro certi omicidi – come quello di Alfred Herrhausen, capo della Banca Tedesca – ma non ne abbiamo la certezza. La Prima generazione, quello che ha fatto l’ha fatto più o meno sempre in pubblico. Piazzavano le bombe, andavano in carcere. La Seconda generazione ha cercato di tirare fuori di prigione gli Stammheimer, rapendo, dirottando. In questo modo le persone potevano seguire – sui giornali, in televisione – ciò che facevano. La Terza generazione, invece, ha fatto esplodere bombe o ucciso persone restando nell’ombra. Non ci sono dichiarazioni. Credo che, se qualcuno andasse a cercarli, troverebbe libri dedicati alla Terza generazione, ma penso che la storia della Prima sia più interessante. Perlomeno per le persone che, come me, all’epoca c’erano. Perché abbiamo condiviso ambienti, episodi, situazioni come il movimento studentesco, per dirne una. Parlavamo, discutevamo sul tema della violenza, loro teorizzavano la lotta armata e scelsero una certa direzione. Entrarono in clandestinità, diventarono terroristi. Altri ne presero un’altra e diventarono magari ministri, dell’Interno o degli Esteri [ride, ndr].
Per esempio, io conosco bene Otto Schily, che fu avvocato di Gudrun Ensslin a Stammheim. Lo incontrai la prima volta al party di capodanno del 1969. All’epoca lui lavorava molto come difensore degli studenti del movimento. Poi, appunto, assunse la difesa di Ensslin. Lo rincontrai tante volte, lo intervistai altrettante. Più avanti fondò il partito dei Verdi, poi ne è uscì, quindi entrò nel partito Socialdemocratico, infine fu Ministro dell’Interno. L’anno scorso ho festeggiato con lui il suo novantesimo compleanno, in quel di Roma. E ci siamo incontrati due settimane fa, a Berlino. Siamo ancora molto vicini e parliamo sempre dello stesso argomento.

Anche l’evoluzione di Horst Mahler è peculiare…
Oh, sì [ride, ndr]. Adesso è uscito di prigione, non gode di buona salute. Horst è passato dalla sinistra radicale alla destra radicale. Nel mezzo, ebbi modo di “incrociarlo” all’epoca in cui faceva parte della RAF, quando riportai le bambine di Ulrike Meinhof dall’Italia in Germania Ovest. Ebbene sì, insieme ad Andreas Baader venne a cercarci, me e Peter Homann, con l’intenzione di ucciderci. È una lunga storia, ne parlo un po’ nel libro… A dirla tutta, ne parlo anche in quella che si può chiamare la mia autobiografia, Zeitreise, dove racconto diversi episodi della mia storia personale4.

Purtroppo mai uscita in Italia. Vuole condividere qualcosa con noi di «INLAND»?
Ah, se poteste leggere il tedesco… [sorride, ndr]. Diciamo che racconto un po’ del mio lavoro, che non si limita all’indagine sulla RAF. Certo le ho dedicato moltissimo tempo, ma ho scritto tanto anche di altri fenomeni5.

[LEGGI L’INTERVISTA COMPLETA SU INLAND. QUADERNI DI CINEMA #18 ROTE ARMEE FRAKTION – su Amazon]

Note
1 Eldridge Cleaver (Wabbaseka, 31 agosto 1935 – Pomona, 1º maggio 1998), piccolo delinquente accusato di violenza carnale e tentato omicidio, uscito di galera nel 1966 si unisce alle Black Panthers, di cui apprezza l’input alla lotta armata. Nel 1968 viene candidato dal Partito pace e libertà alla presidenza degli Stati Uniti, ottenendo lo 0,05% di voti. Ferito durante un’imboscata ai danni dei poliziotti di Oakland, durante la quale perde la vita l’attivista diciassettenne Bobby Hutton, si rifugia a Cuba, accolto da Fidel Castro. Dopodiché si trasferisce prima in Algeria e poi in Francia, dove tenta la carriera di stilista. Negli anni Ottanta le sue posizioni politiche si orientano progressivamente verso il conservatorismo repubblicano.
2 Diplomatosi negli anni Settanta alla Hochschule für Fernsehen und Film (Università della televisione e del film) di Monaco di Baviera, divenne direttore esecutivo della Neue Constantin Film, resa famosa nel panorama tedesco dal successo del film Christiane F. Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino (Christiane F. – Wir Kinder vom Behnhof Zoo, 1981). Il regista Roland Klick, contrario al coinvolgimento di attori adolescenti, fu sostituito in corsa da Uli Edel, futuro regista di La banda Baader Meinhof. La casa di produzione di Eichinger ha prodotto film come La storia infinita (The NeverEnding Story, Wolfgang Petersen, 1984), Il nome della rosa (The Name of the Rose, Jean-Jacques Annaud, 1986), Resident Evil (Id., Paul W. S. Anderson, 2002), La caduta. Gli ultimi giorni di Hitler (Der Untergang, Oliver Hirschbiegel, 2004) e Profumo. Storia di un assassino (Perfume: The Story of a Murderer, Tom Tykwer, 2006). Co-fondatore nel 1991 anche della Summit Entertainment, famosa per The Twilight Saga, Eichinger è morto nel 2011, a 61 anni, di infarto.
3 Si tratta di Andreas Baader, Ulrike Meinhof, Gudrun Ensslin e Jan-Carl Raspe.
4 Il riferimento è a Aust Stefan, Zeitreise: Die Autobiografie, Piper, Monaco di Baviera 2021, non tradotto in italiano.
5 Tra gli altri, Aust ha dedicato libri a diversi momenti della storia moderna tedesca e all’11 settembre 2001.

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