#MATERIA VIVA Stagioni tedesche. Un adolescente alla fine degli anni Settanta

Henry Arnold
Rote Armee Fraktion n. 18/2024

Mercoledì 18 ottobre 1977
La mattina presto apprendiamo dal notiziario dell’avvenuta liberazione degli ostaggi dell’aereo Lufthansa dirottato a Mogadiscio. L’umore è acceso, da settimane il terrore della RAF ha tenuto con il fiato sospeso la Repubblica Federale Tedesca. Ho sedici anni e frequento l’11° grado di un liceo umanistico a Monaco di Baviera. È un istituto conservatore, molto ripiegato su sé stesso, ma al cui interno si scontrano punti di vista e storie di vita molto diverse.
Sulla strada per la scuola discutiamo animatamente. Il sollievo per questa riuscita iniziativa di Stato, che ha liberato così tante persone completamente innocenti dalla loro paura della morte, è generale. Ma cosa accadrà a questo punto?
Il rapimento del presidente dei datori di lavoro Hanns-Martin Schleyer, sequestrato più di cinque settimane fa, non si è ancora concluso.
Più tardi la mattina, mentre siamo ancora in classe, trapela un’altra notizia, quasi incredibile: tre dei quattro leader più importanti della RAF, il cui rilascio è stato oggetto di ricatto da parte dei dirottatori dell’aereo Lufthansa, si sono suicidati nelle loro celle della JVA di Stoccarda-Stammheim. JVA – Istituzione dell’Esecuzione della Giustizia – è una costruzione di parole che è possibile solo in tedesco. Così le prigioni erano state chiamate dalla riforma del diritto penale all’inizio degli anni Settanta.
Come sono riusciti Gudrun Ensslin, Andreas Baader e Jan-Carl Raspe a raggiungere questo obiettivo? Apprendiamo che i due uomini si sono sparati: pistole nell’ala di massima sicurezza?
Anche tra di noi sorgono subito dei dubbi, che saranno destinati a restare sospesi per molti anni. Che tutto questo possa essere accaduto senza che nessuno se ne sia accorto? All’una di notte, poco meno di un’ora dopo l’annuncio della fine del dirottamento del volo Lufthansa?
Queste morti sembrano molto convenienti per lo Stato.
Alcuni compagni di classe, di mentalità particolarmente conservatrice, dicono che non avrebbero obiezioni da sollevare nel caso in cui proprio lo Stato avesse facilitato quegli accadimenti. Di fatto, mettono in discussione i principi fondamentali dello Stato di diritto. Non giustizia, quindi, ma vendetta. Ecco quanto è tesa e riscaldata l’atmosfera.
Avevo sedici anni, dunque. Ne mancavano due e mezzo prima di diplomarmi al liceo. I Settanta stavano gradualmente volgendo al termine e molto era già cambiato, sulla scia di quanto innescato e messo in moto dalla rivolta studentesca quasi un decennio prima. Eravamo già beneficiari di quel movimento. Da giovane, tuttavia, si percepisce il cambiamento in misura molto limitata: ciò che è accaduto, in un passato anche recente, è al di fuori dell’elaborazione cosciente.
Il cambiamento, più che altro, avviene in riferimento a sé stessi: si cresce, mutano il corpo e anche la voce, i capelli si allungano dove prima non ce n’erano ed emotivamente molte cose ronzano nelle orecchie. Il fatto che anche il resto del mondo sia in evoluzione, difficilmente gioca un ruolo.
Sono cresciuto in una famiglia che può essere descritta come di classe media. Sebbene i miei genitori fossero di sinistra e votassero per i socialdemocratici, i loro valori e modelli erano profondamente radicati nel passato. Mia madre rimaneva a casa ed era responsabile dell’ambiente domestico e dei bambini, mentre mio padre era il capofamiglia che guadagnava i soldi. Questa rigidità di ruoli comportava tensioni e il mio relativamente precoce senso di libertà e indipendenza incontrava resistenza. Anche i lunghi capelli che mi erano cresciuti erano chiaramente disapprovati, sebbene non apertamente perché, dopo tutto, i miei non volevano apparire soffocanti.
Queste dinamiche erano ancora più pronunciate nella mia scuola. Del resto, le radici dello sconvolgimento, iniziato con il movimento del ’68, erano ancora una volta diverse in Germania rispetto al resto d’Europa. Ciò era dovuto al recente passato nazionalsocialista, e da noi studenti tutto questo era molto sentito. Parecchi genitori dei miei compagni di classe e tutti gli insegnanti di età superiore ai cinquant’anni avevano vissuto la guerra da adolescenti o giovani adulti. Quasi tutti gli uomini di questa generazione erano stati nella Wehrmacht, alcuni professori avevano ferite di guerra chiaramente visibili. La continuità che dominava l’amministrazione, la magistratura e, in una certa misura, la politica e il sistema educativo nella Repubblica Federale fondata dopo la fine della dittatura nazista rimase ben salda fino al termine degli anni Settanta.
Ai miei tempi, tuttavia, la lotta era in pieno svolgimento. Mentre gli anziani cercavano di difendere i loro bastioni, c’erano alcuni giovani insegnanti di mentalità aperta che avevano iniziato a distruggere le vecchie strutture. Da una parte stava chi era dell’opinione che i bambini e soprattutto gli adolescenti dovessero essere educati per eccellere a scuola con pressione e paura; alcuni professori, occasionalmente, “scivolavano le mani fuori”, come venivano eufemisticamente descritte le punizioni corporali. Dall’altra parte c’erano invece coloro che ci guardavano negli occhi e ci motivavano in questo modo.
Educazione anti-autoritaria, rivoluzione femminista e sessuale: nel nostro presente tutto questo era arrivato da tempo. Persino a casa mia, dove gli inviti serali organizzati dai miei genitori, a cui occasionalmente partecipavo, a tarda ora trattavano regolarmente di esperienze di guerra, con «Emma» stabilmente sul tavolo del soggiorno oltre allo «Spiegel» e alla rivista televisiva «Hör Zu». «Emma» è stata la prima testata femminista tedesca, fondata da Alice Schwarzer all’inizio del 1977, e la sua lettura era ciò che mia madre aveva conquistato, per lo meno.
Anche culturalmente c’era molto fermento. Il teatro sperimentò nuove forme, anche in una città conservatrice come Monaco di Baviera. In estate c’era un festival teatrale sul terreno olimpico, a cui erano invitati gruppi indipendenti provenienti da tutto il mondo: eravamo tutti lì. Inoltre, il cinema europeo era considerato particolarmente importante: accoglievamo e discutevamo con entusiasmo i nuovi film di Federico Fellini, Ingmar Bergman, Rainer Werner Fassbinder, Alexander Kluge e di tutti gli altri autori tedeschi. C’era davvero molto da fare.

Dal 1975 eravamo maggiorenni. Nella Germania Ovest, all’età di diciotto anni, durante le pause gli studenti stavano davanti all’edificio scolastico e fumavano. Certo, anche noi più giovani fumavamo, ma da qualche altra parte. C’erano anche altre droghe, ma non mi raggiunsero mai. Ma i miei genitori, tuttavia, erano preoccupati e ogni passo verso una maggiore libertà doveva essere combattuto con difficoltà.
All’epoca visitavo spesso la casa di una mia grande amica – lo è ancora oggi. Da lei tutto era molto aperto: i genitori non erano sposati e chiunque poteva entrare e uscire. Fino a tarda notte avevano luogo discussioni su Marx, il capitale e il capitalismo, le condizioni sociali e il monopolio statale sull’uso della forza.
Lo Stato poteva essere riformato o dovevano essere trovate condizioni fondamentalmente diverse? Questo è stato il punto cruciale delle discussioni intorno al 1977. Molti avevano già intrapreso la «lunga marcia attraverso le istituzioni» proclamata dieci anni prima da Rudi Dutschke (una tra le figure di spicco della rivoluzione studentesca del 1968). L’idea alla base di questo concetto era di riformare gradualmente lo Stato dall’interno, occupando posizioni chiave. In effetti, molti hanno fatto parecchia strada su questo percorso fino a oggi, arrivando ai vertici della magistratura, dell’amministrazione e della politica. Ma durante la lunga marcia hanno dimenticato ciò per cui si erano messi in fila.
Nel mezzo, c’erano i pochi che avevano optato per un’altra strada. Quella radicale. E l’Europa – non solo la Germania, poiché erano tante le assonanze con ciò che avveniva in altri Paesi, soprattutto in Italia – è precipitata in una crisi profonda.
L’inizio di questo sviluppo l’ho incontrato di nuovo anni dopo, nel film epico di Edgar Reitz Heimat 2. Cronaca di una giovinezza (Die zweite Heimat. Chronik einer Jugend, 1992, ndr). L’epopea narrata si conclude nel 1970, quando alcuni hanno già intrapreso il percorso della radicalizzazione. Il film descrive questo sviluppo basandosi sul personaggio immaginario di Helga Aufschrey, una poetessa piuttosto romantica di origini piccolo-borghesi. Nel 1970 lavora come giornalista ed è una madre single. Il suo rapporto con lo Stato è rotto, la fiducia nel nuovo inizio e nel rinnovamento è scomparsa, l’ombra del passato nazista pesa troppo sull’ancora giovane Repubblica Federale. Entra in clandestinità. Hermann Simon, il giovane compositore che ho potuto incarnare e con il quale Helga ha avuto una breve relazione all’inizio degli anni Sessanta, segue marginalmente questo sviluppo. Anche lui è uno che ha perso la terra sotto i piedi, ma trae altre conclusioni. Grazie a quel ruolo ho avuto la fortuna di poter rivivere direttamente, attraverso la narrazione cinematografica, l’atmosfera di radicale messa in discussione e di sconvolgimento del 1970.

Alla fine di questo decennio, invece, la RAF, con il suo terrore, si era completamente scollegata dal discorso sociale e voleva solo salvare la propria pelle con brutali attacchi. In questo modo provocò la veemente resistenza dello Stato, che sviluppò piani per interferire profondamente con le libertà civili di quei cittadini che aveva promesso di proteggere. Le visioni dello stato di sorveglianza divennero prassi, anche se i metodi e le tecniche disponibili all’epoca, oggi possono sembrare semplici. Così, i molti approcci positivi, il coraggio di cambiare e quella primavera in cui ero nato per caso, diventarono l’Autunno Tedesco.

Giovedì 19 ottobre 1977
La mattina è soleggiata, ma fredda.
Siamo ancora scioccati. Ormai è chiaro: Hanns-Martin Schleyer, il presidente dei datori di lavoro, è stato assassinato dalla RAF. Occhio per occhio.
Dove finirà tutto questo? Nessuno lo sa, questa mattina. Men che meno noi studenti, andando a lezione di matematica – o è latino?
Una cosa, però, la sappiamo: la vita è ancora davanti a noi.

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