Tra due rive. I casi Schleyer e Moro: prospettiva politica

Emilio Quadrelli
Rote Armee Fraktion n. 18/2024

«Questi sono giorni nei quali nessuno dovrebbe
affidarsi indebitamente alla sua “competenza”.
La forza risiede nell’improvvisazione.
Tutti i colpi decisivi sono sferrati con la mano sinistra»
Walter Benjamin

Colonia, 5 settembre 1977: la Rote Armee Fraktion sequestra Hanns-Martin Schleyer.
Roma, 16 marzo 1978: le Brigate Rosse sequestrano Aldo Moro.
Le due operazioni sono comunemente considerate come le più importanti azioni politico-militari compiute dalle rispettive organizzazioni guerrigliere. Inoltre, sono solitamente assimilate e lette all’interno di un perimetro di sostanziale affinità. In realtà, a uno sguardo un poco più attento, al di là di alcune similitudini tecnico-operative (per altro estendibili a molte circostanze analoghe), tra i due sequestri la distanza è quanto mai ampia. Anzi, sono proprio questi episodi a fornirci la diversità di prospettiva che fa da sfondo alla RAF e alle BR.
Partiamo dal caso Moro, facendo una necessaria premessa: questa operazione va osservata a partire da come le Brigate Rosse leggono la situazione politica italiana e assunta come “vera verità”, poiché è proprio tale lettura che conduce al compimento dell’azione e, per altro verso, al suo fallimento. Facile affermare come proprio il sequestro Moro mostri l’inconsistenza del progetto brigatista, ma l’ottica da adottare non è questa, bensì quella che anima i militanti delle BR. Per loro, l’Italia del 1978 è sull’orlo della «guerra civile dispiegata»: tale convinzione, del resto, sarà mantenuta pressoché sino alla fine della loro esperienza. Moro, di tutto ciò, rappresenta il corposo incipit. Attraverso il suo sequestro le BR si propongono di perseguire tre obiettivi: tattico, facendo saltare il governo di unità nazionale; egemonico, obbligando tutto il movimento antagonista e guerrigliero a riconoscere le Brigate Rosse e la loro prassi come il solo e unico cuore della prospettiva rivoluzionaria; strategico, ottenendo, attraverso la trattativa con lo Stato sulla questione dei prigionieri, un riconoscimento formale traducibile, in qualche modo, con l’entrata in parlamento. Nessuno di questi obiettivi viene centrato. Non solo il sequestro non inceppa il progetto di governo, ma lo rafforza: sarà proprio il Partito Comunista Italiano (PCI) – nei confronti del quale, in maniera del tutto impropria, i brigatisti vantano ancora mire – a diventare il più tenace sostenitore della “fase emergenziale” e a farsi il principale becchino delle insorgenze operaie e proletarie.
Già in questo è possibile notare una sostanziale differenza tra RAF e BR. Per la Rote Armee Fraktion è il riformismo, ossia lo Stato socialdemocratico, l’asse intorno a cui si dipana il comando capitalista (su questo punto, in Italia, si allineeranno tutte le formazioni che andranno dalle varie sfaccettature dell’Autonomia Operaia sino a Prima Linea). Per le Brigate Rosse, invece, è sempre la destra a incarnare il piano del capitale: i progetti strategici della borghesia saranno di volta in volta individuati nello “Stato forte”, nel “Neogollismo” e in molti altri orientamenti. Significativo, a tal proposito, il fatto che le BR rivolgeranno la loro critica ai “berlingueriani” – osservati come una sorta di corpo estraneo – e cercheranno di mantenere costantemente aperta una porta verso la mitica base operaia del PCI e, in particolare, verso la sua organizzazione di massa: il sindacato.
Il sequestro Moro non intacca minimamente la penetrazione del riformismo dentro la statualità capitalista, anzi: è esattamente in questo momento che – attraverso lo slogan: «La classe operaia si fa Stato» – il riformismo, da progetto egemone in fabbrica, acquisisce un pieno sdoganamento anche in seno alla politica istituzionale. A questo primo insuccesso se ne somma immediatamente un secondo. La richiesta di combattimento rivolta alle varie anime del movimento viene sostanzialmente elusa e la “campagna di primavera” (così è denominata l’operazione Moro) non trova significative sponde. La stessa Prima Linea, con la quale le Brigate Rosse cercano di consolidare un rapporto, risponde negativamente e si astiene dal compiere qualunque azione nel corso del sequestro. L’isolamento in cui si ritrovano le BR, quindi, non è solo o semplicemente frutto di linee politiche divergenti. Alla base vi è una incommensurabile distanza, che si potrebbe dire epistemica, sulla concezione del rapporto organizzazione-classe e una differenza che chiama in causa la strategia militare. Se si pensa che il sequestro Moro viene fatto esattamente un anno dopo il 1977, diventa persino banale cogliere il mero automatismo che contraddistingue l’agire delle Brigate Rosse: quale relazione possa esservi tra il ’77 e Moro non è dato sapersi. Ancora più interessante è cogliere la diversità sull’impostazione militare che caratterizza le organizzazioni del Movimento e le Brigate Rosse. Il primo, per molti versi, sembra fare sue le indicazioni del Thomas Edward Lawrence della guerra nel deserto: se il nemico può essere raffigurato come un rinoceronte, allora può essere abbattuto attraverso un attacco frontale – perché ciò avvenga, però, occorre avere un apparato di pari dimensioni – o attraverso mille punture d’insetto. In virtù di questa strategia, Lawrence condusse alla vittoria le scarne forze guerrigliere arabe contro l’impressionante esercito ottomano. Tale concezione, a conti fatti, è alla base di tutto ciò che si muove in maniera autonoma rispetto alle BR le quali, al contrario, dello scontro tra apparati fanno il loro credo.
Questo agire sembrerebbe porle in piena affinità con la Rote Armee Fraktion ma, anche in questo caso, le differenze sono abissali. Nello scontro tra apparati le Brigate Rosse prefigurano già il loro essere Stato – cosa che porranno nero su bianco attraverso il loro manifesto programmatico L’ape e il comunista – mentre per la RAF la guerra all’apparato statuale della Repubblica Federale Tedesca non è l’affermazione di sé in quanto nascente stato proletario, ma il frutto di una volontà di disarticolazione dei piani imperialisti, in unità e relazione dialettica con i movimenti di liberazione anticoloniali e antimperialisti. La RAF non descriverà mai uno Stato a propria immagine e somiglianza mentre, per le BR, quello sembra essere il problema centrale. Se nel sequestro Schleyer vi è per intero l’attacco a una componente centrale (e a un simbolo) della politica imperialista, con Moro vi è il farsi Stato di un’organizzazione.
Chiarito questo, si torna all’obiettivo strategico perseguito dalle BR: il riconoscimento politico. Perché sicuramente le BR sono interessate allo scambio dei prigionieri, ma quello non è per loro il punto centrale. Decisivo, piuttosto, è il fatto che si giunga a una forma di trattativa. In questo modo, di fatto, lo Stato riconoscerebbe che, in Italia, esista una componente politica, organizzata come guerriglia comunista, della quale tenere conto. Un passaggio che può considerarsi bizzarro, ma diventa persino ovvio se si pensa, come detto, che per le BR si stia entrando in una fase di «guerra civile dispiegata». La trattativa, secondo tale prospettiva, potrebbe portare con sé uno scenario di tipo irlandese, con tutte le ricadute del caso. Ma anche questo obiettivo, come noto, naufraga, poiché lo stato non accetta alcuna trattativa. A conti fatti, quindi, il sequestro Moro è un completo fallimento. Ma qual è la relazione con il caso Schleyer?
Alcune differenze sono state tratteggiate, si tratta ora di specificarle e ampliarle. Ci si chiede, anche in questo caso, quali fossero gli obiettivi della RAF. Sostanzialmente due, ed entrambi di valenza strategica. Il primo è la liberazione dei prigionieri. Per la Rote Armee Fraktion, fuor di metafora, è una questione di vita o di morte. Sullo sfondo non vi è alcun problema di riconoscimento politico anche perché, in seguito al rapimento Lorenz, uno scambio tra la RAF e lo Stato è già avvenuto senza che questo abbia comportato modifiche nella relazione tra Stato e guerriglia. Lo scambio ha soggiaciuto a una logica prevalentemente militare, senza implicare ricadute politiche; del resto, per i presupposti stessi sui quali ha preso forma l’organizzazione, neppure avrebbe potuto averne. La partita giocata dai militanti è tutta internazionale e il riconoscimento di cui questa va alla ricerca, semmai, è tra le popolazioni in lotta contro l’imperialismo. L’obiettivo non è fare la rivoluzione in Germania Ovest, bensì agire come forza partigiana dietro le linee dell’imperialismo. Partendo da questo presupposto, la contesa per e sui prigionieri è essenziale e ciò è chiaro anche allo Stato socialdemocratico. Il (presunto) suicidio dei fondatori consumato(si) il 17 ottobre 1977, mentre Schleyer è ancora tra le mani del commando guerrigliero, non lascia molti dubbi sulla linea di condotta della RFT. L’esistenza stessa dei militanti RAF è un problema che deve essere rimosso, come rimossa deve essere ogni pratica antimperialista che possa destabilizzare le metropoli dell’Europa Occidentale, centri nevralgici per il comando del capitale. Sotto questo aspetto, almeno sul piano politico, il sequestro Schleyer è un successo poiché, mentre la Rote Armee Fraktion agisce in Germania Ovest, un commando guerrigliero del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina sequestra, a Palma di Maiorca, un Boeing 737 della Lufthansa, chiedendo la liberazione dei prigionieri RAF. Il dirottamento si conclude a Mogadiscio dove, grazie all’intervento delle teste di cuoio tedesche del GSG-9, gli ostaggi vengono liberati e i componenti del Commando Martyr Halima uccisi o catturati. La disfatta militare è chiara mentre, politicamente, sembra invece potersi rinsaldare quella forma di internazionalismo antimperialista che sta alla base dell’ipotesi RAF. Successo sicuramente effimero poiché, di lì a poco, inizierà il lento e costante declino della Rote Armee Fraktion.
In conclusione, resta il fatto che i due sequestri hanno ben poco in comune, poiché tutta la loro dinamica rimanda a concezioni molto diverse non solo della politica, ma della stessa funzione della guerriglia all’interno delle metropoli imperialiste. Il caso Moro è tutto ripiegato dentro una visione vetero-comunista, mentre l’azione Schleyer prefigura scenari propri dell’era globale e la rimessa in circolo di pratiche di dominio che – come la più recente critica post-coloniale ha evidenziato – trovano nella colonialità i loro presupposti.

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