#Focus film: Anni di piombo (1981)

Ilaria Floreano
Rote Armee Fraktion n. 18/2024

Titolo originale: Die bleierne Zeit
Regia: Margarethe von Trotta
Biografico, colore

Soggetto: Margarethe von Trotta; sceneggiatura: Margarethe von Trotta; montaggio: Dagmar Hirtz; fotografia: Franz Rath; musiche: Nicolas Economou; scenografia: Barbara Kloth, Georg von Kieseritzky; costumi: Monika Hasse, Jorge Jara; interpreti: Jutta Lampe (Juliane), Barbara Sukowa (Marianne), Rüdiger Vogler (Wolfgang), Doris Schade (la madre), Luc Bondy (Werner), Franz Rudnik (il padre), Julia Biedermann (Marianne a 16 anni), Ina Robinski (Juliane a 17 anni), Karen Bremer (secondina), Hannelore Minkus (insegnante), Wilbert Steinmann (avvocato); produttore: Eberhard Junkersdorf; produzione: Bioskop Film, Sender Freies Berlin (SFB); origine: Germania Ovest; durata: 106’.

Lo spunto del film – Leone d’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia 1981 – proviene da un incontro avvenuto nel 1977 a Stoccarda, ai funerali di Gudrun Ensslin. Tra i convenuti alle esequie c’è Christiane, sorella maggiore della defunta. Lei e Margarethe von Trotta, in quel frangente, si conoscono. Si parlano. E la regista – la cui filmografia è e sarà sempre più un’acuta indagine filosofica su femminilità, sorellanza e politica – decide di raccontare Gudrun attraverso lo scandaglio del suo rapporto con Christiane, giornalista femminista che a lungo ha condotto una ricerca tesa a dimostrare che quello di Stammheim non è stato un suicidio. Christiane Ensslin morirà nel 2019, un anno prima dell’attrice Jutta Lampe che nella pellicola – con il nome di Juliane – le presta lunghi capelli rossi, sguardi bergmaniani, brevi slanci di ironia e silenzi carichi di tensione, sgomento o tenerezza. È Juliane la protagonista. Colei che, nell’incipit, apre le porte al disperato marito di Marianne/Gudrun e a loro figlio; organizza l’adozione di quest’ultimo una volta che il cognato si suicida (in una scena di spiazzante asciuttezza); accoglie la sorella che, insieme a due compagni (uno è “Baader”), le irrompe in casa di notte – ma non l’implicito invito a unirsi a loro; va a trovarla in carcere portandole tutto ciò che esige («Lei non chiede, ordina»); è disposta a demolire la sua relazione decennale per preservare quella con lei, prima, e la sua memoria, dopo. Attraverso la voce di Juliane, con il suo stesso rigore e la sua stessa compassione – si veda la sequenza in cui la donna tenta di infilarsi una sonda in gola e si chiede quanto una persona possa sopportare moralmente quell’invasione – von Trotta mette a tema i due diversi modi con cui la resistenza può essere condotta: alla lotta armata di Marianne, che appare a sprazzi, violenta come una folata di vento, dolorosamente rigida sulle sue posizioni, eppure capace di grande dolcezza quando si tratta della sorella, oppone la militanza intellettuale, paziente, parlata (o scritta) di Juliane – come anche quella della donna che dirige il primo carcere in cui Marianne viene rinchiusa («A piccoli passi»). Ma l’opposizione tra sorelle non è solo l’ontologica dicotomia tra azione e pensiero («La realtà conta, non le parole!»), violenza e diplomazia, collettivo e individuo, universale e particolare: essa è prima di tutto il «solito duello mortale» tra la maggiore (il modello ispiratore) e la seconda (la prediletta di papà). La regista, che inserisce – nel flusso di coscienza costituito dai dialoghi in carcere – flashback del passato in famiglia, sottolinea a più riprese quanto in origine fosse Juliane la ribelle, la «più esigente», quella che indossava i jeans al posto delle gonne e raccoglieva le lacrime di Marianne dopo avere visto insieme a lei macabre riprese di ebrei nei lager. Era lei che leggeva Sartre. Ed è lei che per la regista rappresenta il radar con cui captare le incongruenze e le contraddizioni dell’Autunno Tedesco. E dell’animo umano.

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