È unanimemente riconosciuto come uno tra i peggiori film di Dario Argento, eppure anche nella sua scarsa riuscita Il cartaio dice qualcosa di interessante sull’arte del suo autore e sulla Settima arte italiana di genere. Anzi, riesce a dirlo proprio in virtù della sua qualità molto relativa.
Perché Il cartaio è una specie di testamento di un tipo di cinema e di un mercato còlti nel momento in cui il loro pubblico sta passando definitivamente alla televisione, al termine di un ventennio preparatorio alla migrazione. Il film cerca di rivolgersi e strizzare l’occhio proprio a quel pubblico, proprio a quel mercato, adattando – e in parte snaturando – i codici argentiani.
La storia e la sceneggiatura, scritte dal regista con il sodale Franco Ferrini (che concepiscono il film pensando a una sorta di seguito di La sindrome di Stendhal [1996], per poi cambiare ambientazione e struttura vista l’indisponibilità di Asia Argento il cui personaggio, chiamato Anna Manni, diventa il quasi omonimo Anna Mari), guardano al thriller poliziesco d’oltreoceano: un assassino seriale di donne sfida i poliziotti giocando con loro a poker online. Ogni mano persa costa una mutilazione alla donna rapita, che perde la vita se gli sbirri perdono la partita. In caso contrario, la vittima viene liberata. A occuparsi del caso la poliziotta Anna Mari, il collega irlandese John Brennan e Remo, giovane talento del videopoker reclutato quasi controvoglia dalla coppia di agenti.
Fin dalla prima sequenza si capisce quale sia la scia che la produzione dei fratelli Argento (Dario e Claudio, per Medusa e Opera Film) decide di seguire: quella dei polizieschi procedurali che, all’inizio del terzo millennio, hanno invaso i piccoli schermi e cambiato le regole del gioco seriale, a partire da quel C.S.I. Scena del crimine (2000-2015) a cui, cinque anni dopo, Mediaset s’ispirerà per creare R.I.S. Delitti imperfetti. A suggerire questa parentela di codici sono il modo in cui viene descritto l’operato della polizia, l’attenzione al lavoro della scientifica e degli apparati tecnici, l’uso di termini e pratiche entrati nel gergo comune grazie a serie tv come Profiler. Intuizioni mortali (1996-2000) e destinati a essere definitivamente sdoganati da Criminal Minds (2005-2020). Anche l’utilizzo e la visione della violenza sono commisurati al pubblico e agli standard televisivi, contribuendo a quella tassidermia della morte che il piccolo schermo ha sdoganato proprio a cavallo dei millenni. Degli omicidi sanguinosi e violentissimi su cui Argento ha costruito un’iconografia, nel Cartaio c’è solo l’ombra: restano quasi sempre fuori campo, vengono coperti dal buio o, al limite, confinati in una fugace inquadratura (quella di Brennan, trafitto nel pre-finale dagli spuntoni di una trappola), perché gli unici corpi su cui si soffermano il regista e Sergio Stivaletti – responsabile degli effetti speciali – sono quelli dei cadaveri durante le autopsie. Dalle scenografie di Ansolini e Geleng, nominate ai Nastri d’Argento, alla fotografia umbratile di Benoît Debie, fino alla musica elettronica di Claudio Simonetti, l’intero apparato estetico-formale sembra cercare il consenso del pubblico casalingo, adattandosi all’immagine televisiva per andare a scovare quella platea che ha da tempo voltato le spalle al cinema di genere, come dimostrano i clamorosi flop di due titoli dello stesso anno – Occhi di cristallo di Eros Puglielli e Il siero della vanità di Alex Infascelli – che cercano invano di rinverdire i fasti del giallo nazionale.
Nella prima sequenza, però, ci sono tracce e indizi di quella schizofrenia di cui soffre Il cartaio. Sui titoli di testa scorrono le immagini di Mari, che si prepara per l’ufficio: questi dettagli, restituiti da una macchina da presa in movimento e giocati sulla mancanza di una visione completa da parte dello spettatore – un grande classico della suspense secondo Argento –, finiscono con la silhouette della protagonista, ripresa a figura intera ma completamente sfocata. In seguito, in più di un’occasione l’autore si concentra sulla nuca della poliziotta, come fosse un omaggio – non molto centrato, ma significativo della natura sbilenca dell’operazione – allo chignon di Kim Novak in La donna che visse due volte di Alfred Hitchcock (1958). Argento, nonostante tutto, cerca il Cinema con la maiuscola.
Questa natura schizofrenica emerge, soprattutto, nella netta distinzione tra la prima metà dell’opera e la seconda, tra il poliziesco tv e il thriller argentiano: cambia l’andamento del racconto; le azioni del killer non sono filtrate dalla schermata del videopoker, ma vengono messe in scena, seppur con economia di dettagli macabri; la luce piatta degli interni impiegatizi fa spazio alle tenebre e agli anfratti della Roma in cui il film è girato, tra Gianicolense, Monteverde e Trastevere. Ed è proprio nella seconda parte che si mostrano i momenti migliori e si intravede l’ispirazione del regista: l’aggressione in casa di Mari, al buio, cerca con molta buona volontà di citare il finale di Il silenzio degli innocenti di Jonathan Demme (1991); la corsa notturna di Muccino lungo il Tevere è un momento dalla forte presa ansiogena; l’ingresso di Brennan nella casa dove troverà la morte, con i pollini svolazzanti a conferire alla scena un tono quasi fiabesco. Quel tono e quel rapporto privilegiato con la natura sono tra i tocchi caratteristici del regista. Danno conforto al fan, che ritrova l’autore da sempre adorato e riconosciuto al primo sguardo: il vento che spira nel giardino di Mari dopo l’aggressione, quello che Remo dice di sentire mentre gioca, quello che fa scorrere impetuoso il Tevere e poi porta i pollini addosso ai personaggi sono retaggi del primo Argento, archetipi inconfondibili della sua lezione.
Dopo il notevole Nonhosonno (2001), l’autore sembra involontariamente riflettere su come sono cambiati il mercato e l’industria cinematografica italiani. La critica, che stronca il film all’uscita nelle sale, si scaglia soprattutto contro i dialoghi e le interpretazioni (penalizzate dal doppiaggio), senza considerare un dato: anche alcuni tra i migliori titoli di Argento mostravano smagliature proprio in questi aspetti, che tuttavia le esplosioni registiche e visuali ponevano in secondo piano. Quelle esplosioni erano possibili grazie al talento dell’autore e dei suoi collaboratori, ovviamente, ma anche per merito di produzioni che rendevano realizzabili certe acrobazie tecniche, sempre all’avanguardia e capaci di sbalordire il pubblico in sala. A cambiare radicalmente, all’inizio degli anni Novanta, sono state proprio quelle produzioni. Così, Il cartaio diventa un testo privilegiato per ragionare sul cambio di rotta che l’industria ha effettuato nel corso degli anni.
CAST & CREDITS
Regia: Dario Argento; soggetto: Dario Argento, Franco Ferrini; sceneggiatura: Dario Argento, Franco Ferrini; fotografia: Benoît Debie; scenografia: Marina Pinzuti Ansolini, Massimo Antonello Geleng; costumi: Patrizia Chericoni, Florence Emir; montaggio: Walter Fasano; musiche: Claudio Simonetti; interpreti: Stefania Rocca (Anna Mari), Liam Cunningham (John Brennan), Silvio Muccino (Remo), Claudio Santamaria (Carlo Sturni), Adalberto Maria Merli (questore), Fiore Argento (Lucia), Cosimo Fusco (Berdarelli), Giovanni Visentin (capo del C.I.D.), Elisabetta Rocchetti (seconda vittima), Luis Molteni (anatomopatologo); produzione: Claudio Argento per Medusa Film, Opera Film; origine: Italia, 2004; durata: 99’; home video: Blu-ray inedito, dvd Medusa; colonna sonora: Deep Red.