C’erano una volta leggende. (Falsi) miti duri a morire, luoghi troppo comuni per essere veri, teorie frutto di un clima culturale (all)ora cattocentrista, ora neo-perbenista, in ogni caso manicheista. I buoni ideali da una parte, le cattive pratiche dall’altra. E i giudizi dappertutto, non certo basati su parametri artistici o contenutistici, ma solo ed esclusivamente su categorizzazioni frutto di letture a volte superficiali, altre (più spesso) condizionate da una errata applicazione del senso morale all’cinema.
Al centro di queste leggende, Dario Argento.
In principio c’è l’Argento misogino, che nelle sue pellicole anni Settanta fa uccidere povere donne inermi da femmine folli e perverse. Segue l’Argento sadico, i cui film altro non sarebbero che un susseguirsi ininterrotto di omicidi iperviolenti, inutilmente respingenti e intimamente gratuiti.
Seguono dibattiti, a loro volta animati, da una parte, dalla volontà di condanna di cui sopra, dall’altra da una pregiudiziale difesa di tutto ciò che è genere. Giallo-thriller, nello specifico, perché l’horror concede ai difensori una maggior ampiezza di argomentazioni (va da sé che l’horror implichi concessioni alla truculenza) e consente ai detrattori di fruire dello spettacolo argentiano senza dover abiurare ai loro dogmi, bensì aggrappandosi a leve teoriche capaci di calmare la coscienza e permettere il libero godimento spettatoriale.
Se Suspiria (1977), Inferno (1980), Phenomena (1985) e successivi incubi irrazionali beneficiano dunque di (ri)letture critiche scevre da preconcetti – non per questo sempre benevole, sia chiaro, ma perlomeno basate su griglie di giudizio squisitamente cinematografiche – è sui gialli e i thriller argentiani che le leggende proliferano e, carsicamente, giungono fino ai giorni nostri.
Inutile, qui, dilungarsi su teorie o speculazioni critiche basate su interpretazioni di intenzioni d’autore o fantomatiche relazioni tra soglie di accettazione morale (d’epoca, odierne) e vera o presunta mostra dell’atrocità argentiana.
Qui si vogliono portare sul banco dell’imputato prove concrete. Da interpretare, ovviamente, ma oggettive e inconfutabili.
Qui si vuole dare un corpo solido e misurabile alla difesa dell’Argento-autore.
E siccome i numeri sono l’unica cosa certa a questo mondo, qui si vuole partire proprio da quelli. Dai numeri della violenza by Argento, dal bodycount dei dodici film giallo-thriller da lui diretti dal 1970 di L’uccello dalle piume di cristallo al 2022 di Occhiali neri.
Niente scivolamenti nelle irrealtà di universi horror in cui tutto è lecito per statuto, e niente tv movie condizionati dalle logiche di un medium obbligatoriamente castranti l’esibizione di violenza. Soltanto la razionalità di assassini più o meno seriali, ma sempre e comunque concreti nelle diegesi filmiche.
Prima accusa: misoginia. La parola alla difesa
Nei primi Settanta, Argento viene idolatrato dai tifosi del genere popolare – invero parecchi – e relegato al rango di pària da certa critica para-femminista, secondo la cui morale nelle sue pellicole si uccidono donne; si massacrano donne in modo eccessivamente morboso; a uccidere donne sono donne perverse. La donna, insomma, sarebbe l’unica e indiscussa protagonista di ogni abominio, subìto e perpetrato.
Ecco allora i numeri che, da L’uccello dalle piume di cristallo, portano a Profondo rosso (1975) passando da Il gatto a nove code (1971) e 4 mosche di velluto grigio (1971). Leggiamoli, prima di interpretarli.
Bodycount di genere: su un totale di 18 vittime, 10 sono uomini e 8 sono donne.
Sesso dei killer: su un totale di quattro assassini seriali, uno è uomo e tre sono donne. A questi, però, vanno aggiunti i due maschi (Alberto Ranieri e il sicario su commissione) che, in L’uccello dalle piume di cristallo, uccidono per conto di Monica Ranieri, perpetrando tre dei sei omicidi contenuti nel film. Dunque, il conto totale vede 3 uomini e 3 donne.
Snocciolati i numeri, appare evidente come, a una prima lettura, ogni accusa sia priva di fondamento. Nelle sue prime opere Argento non bada tanto al sesso di vittime e assassini, quanto alla loro funzionalità nella storia.
Inoltre, andando al di là della fredda enumerazione ed entrando nel merito grafico del supposto sadismo maschilista, si scopre che in due dei tre omicidi più violenti le vittime sono proprio uomini: in 4 mosche di velluto grigio il ricattatore Carlo Marosi viene strangolato con il fil di ferro a favore di camera, dopo che il suo volto è stato straziato a colpi multipli di pestello; in Profondo rosso al professor Giordani viene piantato un coltello nel collo dopo che la sua faccia è stata ripetutamente sbattuta contro uno spigolo, con tanto di denti frantumati in dettaglio. Eccezion fatta per la povera scrittrice Amanda Righetti, che sempre in Profondo rosso viene percossa e sfigurata con l’acqua bollente, a nessuna femmina argentiana viene riservato un destino tanto doloroso.
Indagare le ragioni dell’accusa, quindi, è operazione che esula totalmente da ciò che è cinema e deraglia pericolosamente nelle paludi della politica, della demagogia e di un uso improprio della critica.
Seconda accusa: sadismo. La parola alla difesa
Toltasi di dosso (ma mai del tutto) l’etichetta di regista misogino, Argento si vede appiccicare quella di sadico. Troppa violenza, troppa emoglobina, troppa insistenza nelle morti perpetrate nelle pellicole post-Tenebre (1982). Eppure sono gli anni Ottanta e Novanta, non certo avari di spargimenti di sangue sui grandi schermi di ogni dove.
Ebbene, anche in questo caso è interessante dare uno sguardo ai numeri di Opera (1987), Trauma (1993) e La sindrome di Stendhal (1996), per poi andare oltre e scavare nella celluloide.
Bodycount omicidi in campo e fuoricampo: su un totale di 23 omicidi, 11 avvengono di fronte alla macchina da presa e 12 lontano dagli occhi dello spettatore. E per lasciare a distanza anche l’accusa di misoginia, a uccidere sono due uomini e due donne (considerato che in La sindrome di Stendhal gli assassini sono prima Alfredo Grossi e poi Anna Manni) e le vittime sono 12 uomini (sei in campo, sei fuori) e 11 donne (sei in campo e cinque fuori).
In questa presunta orgia di sangue ininterrotta, vale la pena sottolineare che gli unici delitti realmente disturbanti sono quelli dell’aiuto regista teatrale Stefano – che in Opera viene dapprima trapassato da un coltello in gola, quindi dilaniato a colpi di pugnale, molti dei quali nemmeno mostrati – e della prostituta fiorentina di La sindrome di Stendhal, a cui il killer spara in faccia al culmine della violenza carnale. Un uomo e una donna, quindi, ed è di nuovo parità di genere.
Certo, nei film di Argento anni Ottanta e Novanta si uccide, come da spartito di genere. Ma lo si fa più spesso nel fuoricampo e raramente insistendo sullo strazio del corpo.
Perché, allora, quell’accanimento nello spacciare il cinema argentiano come una sorta di macelleria su schermo?
Forse la ragione è un attestato di merito: Argento, a differenza di molti colleghi coevi, a ben vedere molto più truculenti nella proposta estetica, ha i crismi dell’autore. Ne possiede grammatiche, timbri ricorrenti, soluzioni personali che ne fanno un unicum. Argento, in breve, o lo si ama o lo si deve distruggere, ma siccome per distruggerlo non è possibile sparare sul linguaggio, allora il ricorso alla morale diventa obbligato e persino sensato. Non giusto, né motivato, ma sensato sì: un attacco a testa bassa, alla disperata.
Non è un caso, forse, che al calare dell’affezione di massa nei confronti di Argento (grossomodo da Nonhosonno [2001] in poi), a calare siano state anche tali critiche miopi. Nel terzo millennio si è tornati a guardare i film dell’autore, appunto, come film, e non come trasgressioni deliberate al buon costume e al bel pensiero. E allora, proprio allora, l’Argento anni Settanta, ma anche Ottanta e Novanta è stato sdoganato sui banchi delle accademie.
Quel che i numeri non dicono: diritto di replica
Però: a voler guardare ancora di più, per vedere sempre meglio, c’è una costante che sfugge persino alla certezza dei numeri. Un dato che pertiene alla sfera della decodifica e, perciò, può essere tanto esatto quanto errato.
L’unico, tangibile filo conduttore che, in fondo, potrebbe motivare (non giustificare) alcune tra le letture secondo le quali i film di Argento sarebbero la massima espressione della violenza cinematografica italiana, risiede nella totale assenza di ironia e pietas in relazione alla restituzione del gesto assassino e dell’assassino stesso. Durante gli omicidi è impossibile empatizzare con la vittima e al momento del dunque – quando il destino del killer si compie e, come costante del cinema bis, si compie sempre con la sua morte (fa eccezione il solo Alan Santini di Opera, comunque arrestato) – lo è altrettanto empatizzare con l’assassino. C’è un blocco, negli omicidi argentiani. Un blocco emotivo, che impedisce lo scambio tra spettatore e soggetto su schermo. Tutto avviene al massimo grado di intensità scenica (le coreografie del delitto, i ricami della macchina da presa, le invenzioni sonore e di montaggio) e al minimo grado di coinvolgimento emozionale.
In questo distacco, a metà tra quello che potrebbe avere un anatomopatologo verso i “suoi” corpi e quello – appunto – di un serial killer verso le sue vittime in relazione al suo progetto macabro, risiede la vera costante argentiana, che da L’uccello dalle piume di cristallo traghetta il suo cinema fino a Occhiali neri. Una costante traumatica, che nulla ha a che vedere con misoginia o sadismo ma che, seguita nel suo ripetersi, costituisce una sicura fonte di turbamento.
Quel che i numeri dicono: per un consuntivo
Al di là di accuse e difese, però, restano i numeri. Che sono tanti, in relazione al bodycount. In questa sede si sceglie di restituirne alcuni, giudicati arbitrariamente i più significativi del percorso giallo-thriller argentiano.
Al lettore l’invito a ulteriori riflessioni perché i numeri non solo non mentono mai, ma contengono infinite, possibili traiettorie interpretative.
Numero di film analizzati: 14.
Totale delitti compiuti da serial killer (direttamente, o per delega): 75.
Vittime maschili: 32.
Vittime femminili: 43.
Omicidi mostrati: 53 (21 uomini, 32 donne).
Omicidi fuoricampo: 22 (11 uomini, 11 donne).
Uomini killer: 11.
Donne killer: 5.
Killer arrestati: 3.
Killer morti: 14.
Arma ricorrente: coltello (17).
Omicidi ultraviolenti: 3 (Jane McKerrow in Tenebre, Stefano in Opera, escort in Occhiali neri).
Professione ricorrente del killer: poliziotto (Alan Santini in Opera, Anna Manni in La sindrome di Stendhal, Carlo Sturni in Il cartaio).
Film con il bodycount più alto: Tenebre (11).
Film con il bodycount più basso: Il gatto a nove code, 4 mosche di velluto grigio, Profondo rosso, Giallo (4).
Film con più vittime uomini: La sindrome di Stendhal (5).
Film con più vittime donne: Tenebre (7).
Film con più assassini: L’uccello dalle piume di cristallo (3).
Film con più omicidi mostrati: Tenebre (11).
Film con più omicidi fuoricampo: Trauma, La sindrome di Stendhal (5).
Sarebbe interessante, anche, mettere a confronto le forme della violenza argentiana – oltre al gender e all’efferatezza dei suoi agenti – dal punto di vista estetico. Valutare se e come cambiano gli strumenti scelti e le coreografie orchestrate dal nostro nel corso dei decenni, i primi in base a fantasia e ispirazione, forse ai casi di cronaca coevi, allo Zeitgeist e a chissà cos’altro; le seconde, spesso, in virtù delle novità offerte dall’evoluzione della tecnologia. È il caso del movimento quasi coreutico del killer per risalire le mura di un edificio in Tenebre, reso possibile dalla Louma, o l’omicidio di Daria Nicolodi in Opera, con il proiettile sparato attraverso uno spioncino attraverso un lavoro eccezionale sul dettaglio in macro. E come sarà venuto in mente, all’Argento novantesco e degli anni Duemila, di armare i suoi killer con strane macchinette che producono cappi decapitanti d’acciaio (Trauma), penne stilografiche (Nonhosonno), un arpione da pesca (Il cartaio)?
Di certo, lo ripetiamo, il lavoro di Argento sugli omicidi – intendendo così tanto i fatti quanto gli esecutori – non è sadico come da lettera corrente (e deviata dal suo significato originario); semmai, Argento è sadico come lo era il marchese da cui il termine deriva. Alla domanda della teodicea “Perché esiste il Male se Dio è buono?” de Sade rispondeva – e Argento con lui: il Male esiste perché Dio è assolutamente cattivo, e con la mia opera (letteratura/cinema) ve lo dimostro. Geometricamente, asetticamente: nessuna emozione, immenso sforzo di pensiero e costruzione tecn(olog)ica, rinunciando quasi completamente a ogni sensualità romantica.
E se ha ragione Bataille: i grandi autori sono quelli che, mostrando il maligno, tolgono il velo a quel potere costituito da convenzioni sociali che vorrebbe imbrigliarci, fingendo di agire per il bene, in realtà avendo intenzioni tutt’altro che nobili.
Il vero male, in fondo, è (anche) una via molto umana per raggiungere un diverso livello di libertà.