«Ecco la foto».
Il tecnico, rigido in un immacolato camice bianco, prese la vecchia fotografia e l’osservò con attenzione. «È una giovinetta».
«È quello che voglio. Allora?».
L’uomo scosse il capo: «Signor Dick, si può fare, ma…».
«Non mi interessa il ma. Mi basta quel si può fare». Sbatté le palpebre quasi infastidito e continuò: «Cosa mi costerebbe?».
Il tecnico sollevò le spalle: «L’automa formato uno a uno potrebbe muovere le braccia e le gambe…».
«Camminare?».
«No, solo muoverle. Girare il capo a destra e a sinistra e chiudere le palpebre».
«Tutto qui?».
«Già. E le costerebbe intorno ai trentamila dollari».
«Trentamila dollari per un giocattolo? Lei non ha capito. Io… lei… l’automa, insomma, deve camminare e parlare e sorridere e usare le braccia per… per bere una tazza di latte».
«Un automa non beve nulla».
«Lo so bene, ma deve fingere di farlo. E stringere le labbra soddisfatto una volta che ha portato la tazza alle labbra. È… è importante per me».
Il tecnico riscosse il capo: «Signor Dick, si tratta di tecnologia avanzatissima, in via sperimentale. Non so se ci sia qualcuno in tutti gli Stati Uniti in grado di fare qualcosa del genere».
Philip Kindred Dick sbatté con maggiore energia le palpebre: «Ho letto che questo laboratorio sta eseguendo prove innovative… per questa ragione sono qui… Metropolis, voglio l’automa di Metropolis con quel volto».
«Santo cielo! In quell’automa c’era una persona vera».
«Lei metta meccanismi veri al posto di una persona vera».
«È… è estremamente difficile. E avrebbe un costo rilevante».
«Di che cifra stiamo parlando?».
«Non posso dirlo con certezza… ci stiamo lavorando da appena un anno… a un prototipo…».
«Avrete certo un dato sui costi».
«Più o meno, ma è… tanto».
Philip riuscì a tenere le palpebre ferme mentre fissava il tecnico negli occhi: «Quanto?».
«Troppo…».
«Ho detto: quanto?».
«Intorno… intorno ai due milioni di dollari».
Le palpebre frullarono come ali di farfalle impazzite.
«Può… può iniziare a studiare il progetto e a raccogliere il materiale».
«Deve portarmi un acconto di cinquecentomila dollari. Altrimenti non posso sprecare tempo-macchina per nulla. Lei non ha idea di quanti calcoli e algoritmi occorre predisporre».
Dick strinse le labbra: «Li avrà».
Poi, senza neanche un gesto di saluto, uscì dalla saletta e si diresse verso l’uscita, col cuore che batteva all’impazzata e la mente che inseguiva ghirigori allucinanti. Perché non aveva la minima idea di come procurarsi tutto quel denaro.
* * *
Si può sapere cosa vuoi fare?
«Lasciami in pace».
Ma io ti voglio bene, figlio mio, non sono come quel porco di tuo padre che ti ha abbandonato alla nascita.
«Ha abbandonato te, non me».
Solo perché ogni tanto avevo qualche scatto di nervi…
«Tu eri schizofrenica. E mi hai regalato la tua schizofrenia e le tue nevrosi…».
Lui doveva capirmi… come mi capisci tu.
«Io non riuscivo a capirti quand’eri in vita, come posso capirti ora che sei morta? Lasciami in pace».
Non è stata colpa mia… la morte di tua sorella ti ha… sconvolto…
«Ero troppo piccolo quando mi hai detto di mia sorella, dovevi aspettare che crescessi ancora un po’, ma non te n’è fregato nulla e hai pensato bene di portarmi da uno strizzacervelli che ha peggiorato il mio stato».
L’ho fatto per amore…
«Per questo mi picchiavi quando dicevo di non voler più andare da quel dottore?».
Per il tuo bene… solo per il tuo bene…
«Ora basta. Smettila di assillarmi e riposa in pace. O rivoltati nella tomba… fa’ quello che vuoi, ma lasciami stare».
La tua idea è folle… cosa vuoi fare… io…
«Zitta… voglio dormire… dormo… senza aver sonno… qualcosa mi aiuta… sono felice… non voglio ascoltarti più. Neve bianca…».
* * *
Scott Meredith si morse le labbra: «Philip, tu sei un grande scrittore, ma ci sono due problemi, insormontabili. Le tue idee politiche antiamericane…».
«Che sono anche le tue».
«Io non le vado sbandierando in giro. Altrimenti anche il mio lavoro sarebbe ostacolato. Non hai idea di quanti problemi ho nel proporti…».
«La seconda?».
«Sei nato troppo presto».
«Che intendi dire?».
«Che la tua narrativa è decenni avanti. Se scrivessi in maniera… come dire… più ortodossa, non avrei problemi a vendere bene le tue opere. Ma sono… sono…».
«Allucinanti? E dillo, cazzo!».
«Distopie allucinanti. La gente vuole leggere cose piacevoli, non cose che… ti afferrano la gola e ti stritolano l’anima. Come quello che scrivi tu».
«Il lettore dev’essere educato alla vita. È la vita a essere una distopia allucinante».
«E tu vuoi ricordarglielo» sospirò. «Ascoltami, Philip, sono certo di poter vendere qualche altro tuo racconto e forse un romanzo. Ma devo tenere il prezzo basso, altrimenti gli editori non li acquisterebbero. Poi c’è la tua crisi mistica… non so, forse potremmo ricavarci qualcosa dalla Trilogia di Valis».
«Quanto?».
«Qualche migliaio di dollari. Dipende anche dalle vendite».
Dick scosse il capo, battendo le ciglia: «Non ci pago neanche l’affitto di casa».
Meredith parve riflettere: «Forse potrei chiedere un altro anticipo per il film».
«Quanto?».
«Ventimila, e dovrò faticare molto».
«Non mi bastano… non possono bastarmi».
Il suo agente gli mise una mano sulla spalla: «Se il film va bene, i guadagni saranno notevoli. Ma prima deve… uscire e ci vogliono mesi. Oggi nessuno scommetterebbe un cent su quel film. E se non fosse per il suo famoso e abile regista sarebbe un flop prima ancora di macchiare i panni immacolati dei cinematografi. Hai già alcuni critici addosso».
«Sì, lo capisco…». Gli diede una pacca amichevole sul fianco, e a testa bassa uscì dall’ufficio del suo agente letterario. «…E non so proprio come fare».
* * *
Jane Charlotte gli sorrise dalla piccola lapide. Lui aveva scritto nel testamento che voleva essere sepolto accanto alla sua sorellina, morta pochi mesi dopo la sua nascita. Metà di lui se n’era andata con la sua gemella, ma questo l’aveva capito ormai grandicello, quando aveva cominciato a parlare con lei quasi fosse ancora viva.
Non puoi guadagnare due milioni di dollari… non così in fretta.
«Sai bene a cosa mi servono».
La sorellina continuava a sorridere immobile: Lo so, ed è una cosa meravigliosa. Ma come puoi sapere come sarei stata da giovane? Non puoi neanche ricordare che viso avevo appena nata.
«Ho trovato una vecchia foto di nostra madre. Era raggiante, giovanissima, bellissima».
Mi darai il suo volto?
«Credo che così saresti stata».
È probabile. Ma torniamo al vero problema. Come pensi di recuperare tutto quel denaro?
«Non lo so, Jane. Ma non morirò se non avrò realizzato il mio sogno».
L’automa.
«Già. L’automa Jane Charlotte».
Silenzio. Il cimitero risuonava tutt’intorno di parola sciolte nell’aria, parole senza una meta, parole riflesse dai marmi gelidi.
Io però so una cosa che voi due non sapete.
«Mamma! Ti avevo detto di lasciarmi in pace».
Non potevo pensare che lei fosse intollerante al mio latte… per te andava bene, per lei no… come…
«Nessuno ti ha mai colpevolizzata, ma ora non tormentarmi come facevi quand’eri in vita. Ho diritto di restare un po’ solo con mia sorella».
Silenzio. Poi: Voglio aiutarti.
«Non mi hai lasciato un centesimo».
C’è qualcosa…
«Lasciaci in pace».
Una signora si girò a guardarlo. Scosse il capo e si allontanò, borbottando qualcosa che aveva a che fare col dolore.
Le monete del nonno.
«Ci ho giocato io e ci hanno giocato i miei figli».
Avete giocato con un tesoro.
«E basta con queste cazzate. La morte non ti ha spenta».
Intervenne la sorella: Lasciala parlare, sento che non sono i suoi soliti vaneggiamenti.
«D’accordo. Sentiamo».
Tra quelle monete, c’è il Dollaro capelli fluenti del 1794.
Dick aggrottò la fronte: «Sì, rammento quello strano dollaro d’argento. E allora? Varrà non molto».
Va’ in biblioteca e fa’ una ricerca su quel dollaro.
«Non ho tempo, devo… scrivere».
Dalle ascolto, intervenne la sorella. Cerca…
E lui andò in biblioteca e cercò.
Per imbattersi in una notizia che lo sconvolse.
* * *
«L’asta si è conclusa. Tre milioni e settecentomila dollari».
Philip K. Dick perse un intero minuto per concretizzare nella sua mente quella cifra.
«Per… per una sola moneta?».
«Per la moneta americana antica più ricercata in assoluto dei collezionisti. Il tuo è l’unico esemplare conosciuto».
«Cazzo!».
La segretaria che stava ascoltando arrossì un po’, ma non staccava gli occhi dallo scrittore. Una delle sue tante fan.
Te l’avevo detto…
«Mamma, lasciami stare ora».
«Cosa?».
L’avvocato che aveva curato la vendita lo fissò, non capendo.
«Nulla…» sbatté le palpebre e chiese: «E sono miei?».
«Non tutti. Considerando la commissione alla casa d’aste, le tasse e il mio onorario… le resteranno circa 2,700-2,800 milioni di dollari».
Meraviglioso! sussurrò la sorella.
«Meraviglioso. E quando potrò…».
«Un paio di giorni e la somma sarà depositata nella sua banca».
Un paio di giorni.
Un paio di giorni che lo separavano dal suo sogno.
* * *
«Jane, vieni qui».
Si muoveva a scatti, ma impercettibili. Lo raggiunse e gli sorrise.
«Adorata sorella…».
L’abbracciò. Lei ricambiò l’abbraccio. Forse un po’ troppo stretto. Gli sfuggì un piccolo grido di protesta, ma non disse nulla.
«Ha bisogno ancora di qualche, come dire… ritocco».
Il tecnico stava osservando tutto e ogni tanto prendeva qualche appunto.
«Vorrei provarla… a casa».
«Nessun problema, anzi è meglio, così potremo intervenire, dovesse esserci qualche problema».
Dick girò intorno all’automa. Era molto bella, com’era stata sua madre da giovanetta: «C’è un pulsante, per spegnerla o avviarla?».
L’altro sorrise: «No, obbedisce alla voce. Soltanto alla sua voce. Per fermarla in qualsiasi caso basta dire stop».
«E per riavviarla?».
«La chiami, deve pronunciare il suo nome e obbedirà. Ma, le ripeto, soltanto alla sua voce».
«Jane…».
«Sì, Philip».
«Andiamo a casa».
«Sarà un vero piacere conoscere la nostra casa».
Dick ebbe un brivido. Nostra… Era pura felicità.
* * *
Ma… ma quella sono io.
«Certo, a chi dovrebbe rassomigliare se non a te?».
Ma… ma hai messo il mio volto a un pupazzo!
«Non è un pupazzo, mamma, è un automa».
È un pupazzo, senza… vita. Come hai osato? Riportala subito a chi ti ha dato questo… questa cosa qui… e hai speso tutti quei soldi per… per un giocattolo? Oppure cambiagli la faccia… se non lo fai mi metto a urlare… capito?
«Ora basta, mamma, esci dalla mia mente».
Mi… mi cacci via? Vergogna… dopo quello che ho fatto per te.
«Mi hai fatto diventare isterico come te. Lasciami in pace».
Colpa delle droghe, se smettessi…
«Jane, mi porteresti per cortesia una birra? È nel frigo».
«Subito, Philip».
Così hai chiamato come me quell’automa per… per essere servito? Una… una serva di colore ti sarebbe costata molto meno. E ci saresti potuto anche andare a letto.
«Jane, sorella mia, anche tu… pensavo che mi avresti capito… sto soltanto facendo delle prove. Io non voglio che mia sorella sia alla stregua di una cameriera».
Io sono tua sorella, non quel pezzo di ferro.
«Uscite dalla mia testa tutte due… maledizione… lasciatemi in pace…».
Figlio mio, come ti sei ridotto. Cacciare tua madre e tua sorella…
«Uscite… andate via… tornate all’inferno. No, Jane, tu sarai certamente in purgatorio».
Come… come puoi trattarci così? Gli allucinogeni ti stanno dando alla testa.
«Hai ragione, sono quelli che mi fanno sentire le vostre voci. Ma voi due siete morte. Morte. Non potete tormentarmi così».
«Ecco la birra».
«Grazie Jane».
«È un piacere servirti».
Ecco… avevo ragione… vuoi una serva, non una sorella.
«Basta! Non vi sopporto più… ora devo…».
Lo stroke giunse all’improvviso.
Dick si aggrappò alla sedia accanto, trascinandola con sé in una dolorosa caduta.
«Jane…».
«Philip?».
Ora sì che ce ne possiamo andare…
«Jane…».
«Philip?».
Chiuse gli occhi. Un ictus emorragico non dà scampo.
* * *
«Che facciamo?».
Lo scaricatore lanciò un’occhiataccia al suo collega: «Quello per cui siamo pagati. Prendiamo tutta questa roba, la carichiamo sul camion e la portiamo nel box».
«E poi?».
«Chi ne ha diritto si prenderà tutto, ma non è un problema nostro».
«Non possiamo farcela da soli. C’è troppa roba qui. Tutti quei libri peseranno una tonnellata».
«Se vuoi, puoi dividere la tua paga con un aiutante. Io faccio da solo».
L’altro scosse il capo. Già non poteva dirsi una buona paga quella dell’agenzia.
«D’accordo» si arrese. «E questo che cos’è?».
Entrambi non avevano mai visto nulla del genere. Girarono intorno all’automa, rigido nell’esatto posto in cui aveva visto Dick morire.
«È una statua?». Si avvicinò e la fece risuonare con le nocche della destra. «È di metallo».
«Si racconta che lo scrittore se l’è fatta costruire come quelle che descrive nelle sue storie pazzesche».
«Non è possibile. Gli androidi sono androidi. Questa è una… una riproduzione di una donna».
«Che avesse gusti particolari?».
L’altro, ridacchiando, si avvicinò e scostò la camicetta all’altezza del petto.
Una spinta l’allontanò bruscamente.
«Sei un porco!».
«Ma è una specie di bambola. Magari era stanco delle donne vere… sai, ne ha sposate tante…».
L’altro non gli rispose. Girò alle spalle dell’automa e controllò tra i capelli morbidi e alla base del collo. Poi passò la mano sulla spalla: «Non vedo alcun bottone».
«Per cosa?».
«Magari si muove…».
«E geme e sospira e sussurra: “Sì… ancora… sì…”».
«Ora finiscila. Riesci a sollevarla da solo?».
«Non è mica leggera».
«D’accordo, io la prendo per le spalle, tu per i piedi, dovrebbe restare rigida».
«La portiamo sul camion?».
«No, ci facciamo una passeggiata nel parco. E smettila di fare il porco e guardare sotto la gonna, c’è troppo lavoro e stasera non voglio perdermi la partita di baseball».
A sera il bilico del box si chiuse. Il buio avvolse ogni cosa.
Anche un “pupazzo” che non poteva interessare nessuno.
* * *
Improvvisamente, nel buio assoluto una luce azzurrina lanciò il suo messaggio. Proveniva dalla fronte dell’automa. Un meccanismo si mise in moto. Era un registratore.
«Jane…».
L’automa prese vita: «Philip».
«Questa è una registrazione. E se stai sentendo questa registrazione significa che sono morto».
«Sì, Philip, tu sei morto, cosa po…».
«Ascoltami con attenzione… ecco quello che devi fare…».
* * *
Il buio in un cimitero è sempre più buio di quello normale poiché viene messo in risalto dai fuochi fatui che lo punteggiano come stelle malaticce.
L’automa camminava in maniera un po’ rigida. Sarebbe bastata una piccola correzione all’algoritmo, ma non ci sarebbe mai stata. Almeno non per l’automa-Jane. Faceva una certa impressione, ma nessuno c’era lungo i viali del camposanto a restare scioccato da quella vista.
La fronte luccicò: «L’hai trovata».
«Certo, Philip».
«Ora… scava».
«Certo, Philip».
«Tra la mia bara e quella della mia sorellina dovrebbe esserci spazio».
«Certo, Philip».
«Ora… scava».
«Lo sto facendo, Philip».
«Domani penseranno che il giardiniere ha smosso la terra per piantare dei fiori. Scendi fin giù».
«Certo, Philip».
Una decina di minuti, poi: «Ci sei?».
«Sì, Philip, sono a…».
«Fai un buco nella mia bara… all’altezza della mano».
«Subito, Philip».
Ancora alcuni minuti, poi la luce azzurrina continuò: «Prendi la mia mano… stringila e non lasciarla più».
«Certo, Philip».
Un minuto, poi: «Fatto?».
«Certo, Philip».
«Ora fa lo stesso con la bara di mia sorella… bucala e prendile la mano».
«Certo, Philip».
Un altro minuto: «Fatto?».
«Certo, Philip».
«Bene».
Silenzio. La mano sinistra dell’automa strinse quella dell’uomo morto. Che forse si mosse. O forse era soltanto un’impressione. La mano destra dell’automa strinse quella scheletrita della bambina. Che forse si mosse. O forse era soltanto un’impressione.
«Buon riposo a te, Jane carissima».
«Buon riposo, Philip. A tutti due».
«Per sempre».
«Per sempre».
La luce azzurrina lanciò un ultimo guizzo e si spense.
Tutto laggiù era spento.
L’indomani qualcuno, forse, avrebbe piantato rose bianche sulla terra smossa.