Pop, non citazionisti. Il cinema come fondamento culturale
Manuel CavenaghiMax Pezzali viene trasportato nella sua infanzia, nel febbraio del 1976. Il piccolo è il giovane spettatore che, in un cinema, guarda i capisaldi della Dania Film di Luciano Martino: Milano odia: la polizia non può sparare (1974), Giovannona Coscialunga disonorata con onore (1973), La liceale (1975), Lo chiamavano Tresette… giocava sempre col morto (1973), Milano trema: la polizia vuole giustizia (1973). Sullo schermo il cantante si sostituisce al protagonista di turno, interpretando con ironia Tomas Milian, Pippo Franco, George Hilton o Luc Merenda. Intanto in sala sboccia una tenera storia d’amore tra Giampaolo Morelli e Francesca Inaudi.
Chiunque abbia visto il videoclip di Il mio secondo tempo non avrà fatto fatica a riconoscere la mano dei Manetti Bros., che lavorano al meglio sulle loro tematiche principali: ironia e citazioni. Da sempre i due sono identificati come autori di un cinema nostalgico, fatto di omaggi e rimandi, in particolar modo alle pellicole italiane anni Settanta. Eppure, se interpellati a proposito, non hanno dubbi: «Non siamo citazionisti e neanche ci piacciono i registi citazionisti»1. C’è dunque un grosso equivoco che accompagna le opere dei Manetti. Da una parte la critica gli affibbia il ruolo di alfieri del cinema postmoderno – che sfornano pastiche fatti di continue riproposizioni del cinema del passato – e dall’altra i diretti interessati si dicono estranei a questa pratica.
Le recensioni dei film, ma anche dei prodotti televisivi di Marco e Antonio Manetti, sottolineano di continuo la loro attitudine citazionista, indipendentemente dal titolo trattato, esattamente come accade per le pellicole di Quentin Tarantino. Eppure pochissime di queste, poi, esplicano con chiarezza quali siano gli omaggi effettivamente messi in scena. Perché il nodo sta nel definire in che misura si compie la citazione. Non nel ricalco perché, in realtà, i Manetti raramente prelevano una scena o uno snodo narrativo da un titolo di riferimento per inserirlo – con strizzata d’occhio allo spettatore cinefilo – nel loro lavoro. Difficile, almeno per quanto riguarda la loro produzione cinematografica, ritrovare una celebre sequenza riproposta e riadattata come possono essere, per esempio, quella della carrozzina che rotola per le scale di Gli intoccabili (1987) costruita sulle immagini di La corazzata Potëmkin (1927), oppure i tanti omicidi sotto la doccia che punteggiano la storia del cinema dal 1960 in poi, magari – e siamo al massimo del virtuosismo citazionista – utilizzando proprio 78 inquadrature.
Quella attuata dai Manetti è un’operazione diversa. Il cinema, e più in generale la cultura popolare, sono le fondamenta su cui viene costruito il mondo che vogliono raccontare. Non solo come riferimento culturale per lo spettatore, che conosce di volta in volta i fumetti, il poliziesco italiano seventies o la sceneggiata – rielaborate secondo il gusto dei fratelli – ma anche e soprattutto per la costruzione della psicologia dei personaggi.
Il caso più evidente è l’ispettore Coliandro, un invasato di celluloide che si esprime spesso con linee di dialogo parodistiche di quelle dei cult, a cominciare dalla celebre frase pronunciata da Clint Eastwood in Per un pugno di dollari (1964) che, storpiata, diventa un tormentone della serie: «Quando un uomo con la pala incontra un uomo con la pistola scarica, l’uomo con la pistola scarica è un uomo morto!»; «Quando un uomo con la pistola incontra un uomo con l’album delle figurine, l’uomo con la pistola è un uomo morto»; «Quando un uomo con la macchina blindata incontra un uomo con il lanciarazzi, l’uomo con la macchina blindata è un uomo morto», e così via. La caratterizzazione del personaggio è pregna della sua cinefilia e il mondo stesso è visto secondo lo specchio deformante della Settima arte: «La chiamavamo Charles Bronson, sempre incazzata, peggio del Giustiziere della Notte 4»; «Minchia chi sono, Walker Texas Ranger?». Battute divertenti, ma anche strumenti forti con cui i Bros. riescono immediatamente a stringere una relazione con lo spettatore. Il personaggio diventa meno astratto, quando parla il linguaggio di chi assiste alle sue gesta. E anche su grande schermo i Manetti ripetono questa pratica vincente. Il metodo migliore per raccontare un protagonista di fantasia è conferirgli peculiarità che si conoscono bene, creando soggetti che parlino la lingua di chi li ha creati. E per chi, come loro, ama la cultura popolare – non solo il cinema, ma anche televisione e fumetto – i rimandi entrano inevitabilmente anche nel linguaggio di tutti i giorni: il poliziotto di Song’e Napule (2013) viene definito «Harry Potter» per via degli occhiali tondi e della capigliatura a caschetto, la questione esistenziale posta in Ammore e malavita (2017) parla da sé: «Ciro, ma secondo te dei diamanti è meglio nasconderli nella Aston Martin di James Bond o nella DeLorean di Ritorno al Futuro?».
Il cinema e la televisone sono contesti culturali talmente forti da indurre ad aprire un film con una gita turistica a Scampia, sui «luoghi dove è stato girato Gomorra». Ammiccamenti immediatamente comprensibili perché appartenenti alla collettività.
Questo approccio, consolidatosi nel tempo al punto da diventare quasi una cifra stilistica, ha vissuto un’evoluzione radicale. Prima di arrivare a menzionare il blockbuster, in Piano 17 (2005) i Manetti hanno messo in scena la loro cinefilia bis a vantaggio solo di una nicchia. Non che non possano esistere due impiegati che dissertano di Luigi Cozzi e del suo Scontri stellari oltre la terza dimensione (1978), ma nell’architettura del personaggio la gag funziona molto meno di una frase fulminante su RoboCop (1987) pronunciata da Coliandro. Nei film successivi, inoltre, sono scomparsi gli omaggi con strizzata d’occhio, come la ditta di assistenza ascensori Di Leo o il cameo di Enzo G. Castellari nei panni di una guardia giurata. Quando mettono in scena Pino Mauro in Ammore e malavita, Marco e Antonio non lo fanno di traverso, a beneficio dei pochi, ma in modo palese, celebrativo. E il discorso cambia: dal “se lo riconosci bene, se no va bene lo stesso” di un Castellari che fa il generico si passa a un personaggio assiso su un trono, a sottolinearne l’importanza anche per un pubblico che non dovesse conoscerlo. Due modi diversi di utilizzare attori che diventano non solo personaggi, ma monumenti viventi.
Rientriamo allora in quel campo – il citazionismo – nel quale i due non si riconoscono?
Si aggiunga che i Manetti, pur con un linguaggio non appartenente ai nostri anni Sessanta e Settanta, praticano generi ben riconoscibili i quali, in un momento storico afflitto dalla penuria di prodotti commerciali analoghi, evocano stagioni cinematografiche remote. Forse la vera chiave estetica degli autori sta nel procedere su binari paralleli. Da un lato utilizzano una scrittura assolutamente moderna e personale: Piano 17 ha un soggetto che poco si avvicina alle corde di Lenzi, Castellari o Massi, Paura (2012) si rifà a un tipo di cinema lontano tanto dall’orrore fantastico di Mario Bava quanto dalla costruzione dell’omicidio di Dario Argento, L’arrivo di Wang (2011) è un corpo estraneo nella nostra cinematografia di genere. Dall’altro, è innegabile come le atmosfere di questi e molti altri numi tutelari si respirino a pieni polmoni.
Se, ancora, da una parte la scrittura delle immagini insegue l’originalità, dall’altra quella dell’accompagnamento sonoro è sempre quanto mai ancorata a modelli facilmente identificabili. Quella, spesso, diventa sì un’operazione di calco, l’esplicita ricerca di un ritorno al passato, di una suggestione emotiva che non può non passare attraverso determinati suoni, i quali portano con sé non solo l’emozione, ma tutto l’affettuoso debito verso un genere. Non è un caso che questo avvenga spesso in concomitanza con l’incipit e l’epilogo delle opere, come a volere incorniciare con chiarezza l’universo di riferimento, riempito poi dallo sviluppo personale dei Bros. Emblematico è in tal senso Song’e Napule, con un inizio da puro poliziottesco – nella musica, ma anche nella scelta del lettering dei titoli – e una chiusura con inseguimento che, nel taglio registico alla Lenzi e nella partitura (sorprendentemente micalizziana), potrebbe essere benissimo una sequenza di Napoli violenta (1976), summa del filone dei poliziotti di ferro sempre di ambientazione partenopea.
Resta una domanda: i personaggi di Clerville avranno visto gli stessi cult movie che amiamo noi?
Note
1 Da un’intervista apparsa su sentieriselvaggi.it.