Le tigri di Mompracem. Produrre se stessi e produrre gli altri
Rocco MoccagattaI Manetti Bros. Registi. Sceneggiatori. E produttori. Tertium datur. Anzi, non è possibile comprenderli appieno come registi e sceneggiatori senza pensarli insieme anche produttori. Di se stessi, prima ancora che degli altri. C’è nei loro film, fin da subito, una volontà di controllo e di difesa della propria opera che non può non passare anche dalla produzione. E che prende la forma di una sorta di produzione esecutiva in pectore, magari neppure ufficiale e contrattualizzata, nelle cose cinematografiche come in quelle televisive in costante dialogo con i produttori, quelli veri e ufficiali. In questo i Manetti Bros. sono più unici che rari nel panorama cinematografico italiano odierno: nella loro filmografia si legge in filigrana una vocazione all’indipendenza e all’autonomia creativa che, lungi dal realizzarsi su un piano iperuranio e ideale, sceglie di confrontarsi in campo aperto con la produzione, intesa e accettata come un’altra forma potenziale di creatività. Quella dei soldi, ovvio, con ciò che ne consegue, e con una certa coerenza mantenutasi nel tempo, persino a distanza di anni, nei titoli propri e in quelli degli altri, attraverso echi, ritorni, rispecchiamenti, riprese. Basti pensare a Piano 17 (2005), costruito su un concept che è anche e prima di tutto un’idea produttiva (e le pellicole manettiane, soprattutto all’inizio, sono spesso così, da L’arrivo di Wang [2011] a Paura [2012]) perfetta per contenere i costi: un pugno di persone bloccate in un ascensore con una di loro che ha con sé una bomba pronta a esplodere. Oltre dieci anni dopo, in un’opera prodotta per il loro protégé Daniele Misischia, The End? L’inferno fuori (2017), c’è in fondo ancora la stessa idea, sempre perfetta per un low budget, soltanto adeguata all’aria dei tempi: un tizio chiuso in ascensore e fuori un pandemonio zombi. Come a dire che nei Manetti l’interesse per la produzione tradisce e rivela, sempre e comunque, una progettualità e una solidità autoriali.
I Manetti e i produttori
Studiare la filmografia dei Manetti dal punto di vista produttivo è un esercizio suggestivo e spesso sorprendente. Soprattutto se fatto à rebours e con il senno di poi, oggi che hanno trovato un partner ideale in Carlo Macchitella (già a capo della Madeleine Film) per la loro neo-società Mompracem (nomen omen!), a partire dall’ultimo Ammore e malavita (2017) fino al Diabolik (2020) prossimo venturo.
Ma, scavando sotto la superficie degli inizi, il primo nome che s’incontra è piuttosto inatteso, se si ragiona per luoghi comuni: Bellocchio, Pier Giorgio per la precisione. Che dei Bros. è amico da sempre – anzi, già da prima del cinema – e con i Bros. ha condiviso un bel pezzo di strada professionale, in quanto producer di tanti loro videoclip. Di più: nel lontano 1994, Pier Giorgio – questa volta come regista – è stato uno tra i nomi che Marco e Antonio hanno portato in dote, oltre a se stessi, al progetto De Generazione (gli altri due sono Alex Infascelli e Asia Argento), e in seguito è stato pure produttore per Filmalbatros con Rai del loro primo lungo, Torino Boys (1997), invisibile in sala, dopo una presentazione al Festival Cinema Giovani di Torino, e pochissimo visto pure in tv. Il vulcano Manetti-Bellocchio è rimasto quiescente a lungo negli anni successivi, complice anche la carriera da attore del secondo, ma si è riacceso per Diabolik, nei termini di una collaborazione alla produzione.
Con Bellocchio Jr. c’è sicuramente un’affinità generazionale, un idem sentire, una comunanza di interessi e passioni che conferma una certa vocazione dei Manetti a fare gruppo inter pares. Ma c’è sempre stato in loro anche un evidente desiderio di confronto con personalità forti, veri e propri produttori-padrini (potenzialmente pure padroni), coinvolti in relazioni alla pari, per quanto sanamente conflittuali, dove i Bros., decisi a rimanere se stessi, hanno assorbito quanto più possibile sul piano dell’organizzazione dei film e del funzionamento della macchina-cinema nostrana.
In questo senso, la liaison professionale con il mitico produttore Luciano Martino – che ha partecipato, pur in una combine produttiva particolarmente affollata, a L’arrivo di Wang – è da leggersi anche e soprattutto come dichiarazione d’intenti e d’amore verso un certo cinema popolare italiano che non esiste quasi più, ma dove i Martinos (Luciano e Sergio – altra coppia di fratelli) hanno tenuto banco per un paio di decenni abbondanti, sfruculiando in una moltitudine di generi oggi impensabile, dalla commedia sexy al thriller, passando per l’esotico-avventuroso e il poliziesco. Dopo Piano 17, L’arrivo di Wang, che è al 90% l’interrogatorio simil-Guantanamo a un alieno tentacolato in una stanza (a parte un breve prologo e un epilogo catastrofico-apocalittico in esterni, ad alta densità di sfx), è di nuovo un titolo costruito su un’idea produttiva praticabile a basso costo, in un genere difficile e complicato per il cinema italiano come la sci-fi, alla ricerca anche di un’appetibilità internazionale. Ovvio che un produttore dai mille generi come Martino avesse fiutato il talentaccio affine dei Manetti. Anzi, nel successivo Song’e Napule (2013), prodotto da Martino (e dalle figlie) poco prima della morte, con la Devon insieme a Rai Cinema, il produttore-mentore aveva intravisto un’originale e inedita commedia poliziesca neo-melodica nella “sua” Napoli, poi riproposta, raffinata e meglio articolata in Ammore e malavita, il film della consacrazione ufficiale. Il debito dei Manetti nei suoi confronti è enorme, come ammettono entrambi, perché si sostanzia soprattutto nell’indicazione di una direzione lungo la quale far correre in maniera coerente e chiara la propria poetica («Tutta un’altra commedia», strillano i flani di Song’e Napule…).
Cosa che non era accaduta per davvero, invece, con Carlo Verdone, produttore di Zora la vampira (2000), un film Cecchi Gori (immediatamente prima del naufragio di quest’ultimo) ancora segnato da una certa esitazione sulla via da intraprendere tra le tante possibili (l’horror, la parodia, il musical, il sociale). Con il senno di poi, un’occasione non certo perduta, ma forse segnata da una presenza eccessiva del produttore-regista Verdone, qui anche attore a briglia sciolta. Al punto che negli anni successivi, prima dell’incontro con Martino (e con Agostino Saccà di Pepito, altro pigmalione, pure lui coinvolto in L’arrivo di Wang e Paura), oltre che da un radicamento sempre maggiore nella serialità televisiva Rai, i Bros. sono stati contraddistinti dall’evidente tentativo di trovare una collocazione al cinema prima di tutto produttiva, navigando a vista tra l’auto-produzione con gli attori che finanziano il film stesso (succede per Piano 17, quasi una dependance di L’ispettore Coliandro nel cast artistico e tecnico) e la curiosa esperienza autarchica (e inedita) Cavie (2009), generato da un master in recitazione della Scuola del Cinema di Roma con gli stessi studenti coinvolti come protagonisti.
D’altronde quelli sono stati anni di sperimentazione di nuove formule da parte di un’intera generazione (in parte “bruciata”) di filmmaker, desiderosi di sfuggire alla commedia a tutti i costi: per esempio Eros Puglielli con Ad Project (2005), film low budget (o pilota tv?) di fantascienza, co-prodotto da tutti i partecipanti e destinato all’home video; o Alex Infascelli, con il suo thriller-horror H2Odio (2006), auto-prodotto e direttamente distribuito nelle edicole (allegato in dvd a «la Repubblica» e «L’Espresso») bypassando la sala. Anche l’unico contatto con il mondo Mediaset-Medusa Film nel 2012, con lo slasher Paura, non si è dimostrato risolutivo – nonostante, come in L’arrivo di Wang (presentato a Venezia nel settembre 2011 e poi uscito nel marzo 2012), dietro ci fossero sempre Dania Film e Pepito – forse per colpa di un lancio, pur sostanzioso come numero di sale, a inizio estate 2012.
Per fortuna c’è stato, più o meno in contemporanea, a partire da L’arrivo di Wang, il consolidamento del rapporto con il mondo Rai, che diventa quello d’elezione grazie ai buoni uffici di Martino e Saccà e a una filmografia a vasi comunicanti tra piccolo e grande schermo, dove spesso attori e tecnici scivolano dall’uno all’altro, senza differenze (o, peggio, gerarchie) tra l’uno e l’altro.
I Manetti produttori
Di fronte a una storia così intensa e tutta a saliscendi – comunque istruttiva anche negli esiti meno felici – all’insegna del rapporto con produttori quasi sempre mentori, non stupisce che i Manetti, quando producono film altrui, cerchino di ricreare lo stesso modello. Soltanto, dall’altra parte della barricata.
Per la verità, forse, le prime esperienze sono state più da fratelli maggiori che da veri e propri mentori. Con Gabriele Albanesi, in particolare, c’era l’impressione di una fortissima sintonia, complice la frequentazione di quel sottobosco produttivo dell’horror indipendente italiano all’epoca molto vivace e segnato da alcuni exploit (soprattutto nei circuiti festivalieri specializzati all’estero e nella distribuzione internazionale, a fronte di un’invisibilità pressoché totale nelle sale italiane). Delle due collaborazioni con Albanesi, più che Il bosco fuori (2006), dove i Manetti co-producevano con (molti) altri, è Ubaldo Terzani Horror Show (2010) a presentarsi come sfacciatamente manettiano, a partire dal cast artistico che schiera molte facce del Coliandro tv, da Paolo Sassanelli a Giuseppe Soleri (che di cognome vero fa Saccà, tra l’altro, e oggi è diventato produttore a sua volta), ed esibisce sottotesti meta-citazionisti (fin dagli inside jokes del titolo e del nome di uno dei protagonisti) molto nelle corde dei Bros.
Ai Manetti produttori interessa essere a loro volta padrini, certo, ma anche e soprattutto capofila di una factory nella quale allevare e far crescere i propri collaboratori, con cui condividere un’idea di cinema provando a coinvolgere, forti della loro posizione, anche realtà produttive e distributive altrimenti refrattarie al genere. In primis Rai Cinema, a conferma dell’intenzione di confrontarsi con progetti a basso budget, di genere, ben radicati sul territorio nazionale (senza le ambientazioni esterofile delle quali si fanno portatori altri, come i Fabio&Fabio di Mine [2016] e Ride [2018]). Così a Milena Cocozza, aiuto-regista in Song’e Napule e in Coliandro, hanno affidato la ghost story ospedaliera Letto n. 6 (2020, in sala a giugno dopo una fugace apparizione al Torino Film Festival); e, prima ancora, a Daniele Misischia, aiuto-regista e operatore nelle loro serie tv, hanno prodotto con Rai Cinema il kammerspiel zombesco in ascensore The End? L’inferno fuori (soggetto del regista e del suo co-sceneggiatore Cristiano Ciccotti in stand-by da anni). È innegabile: i Manetti indirizzano e sostengono i registi che producono con quel surplus di consapevolezza e sensibilità che deriva loro dall’essere prima di tutto registi e sceneggiatori, magari concedendo preziosi giorni in più – come nel caso di The End? – per girare con maggiore respiro l’epilogo en plein air.
Come Luciano Martino avrebbe fatto con loro.
D’altronde, proprio a lui e alla Dania, tramite la figlia Federica, Giorgio Amato aveva sottoposto il soggetto di Circuito chiuso (2012), che entusiasmò il vecchio leone e lo spinse a portarlo ai Bros., complice quel profumo di horror alla Paranormal Activity (2007) nostrano, perfetto per una piccola produzione con Rai Cinema nell’ambito di un progetto di dieci film per il web (con distribuzione gratuita su Cubovision.it).
Piuttosto, l’attività produttiva dei Manetti sembra dare sfogo al desiderio di realizzare ancora horror – ora che sono registi (a loro modo) mainstream, costretti a giocare su altri territori – praticandolo per via vicaria, attraverso i protégés. Infatti, tanto Letto n. 6 (in sala per 01 Distribuzione/Rai) quanto il secondo film di Misischia Il mostro della cripta (2020, distribuito da Vision Film/Sky) nascono da loro progetti del passato, pensati per sé e poi abbandonati (il primo solo un soggetto, il secondo una vera e propria sceneggiatura). Non perché non ci credessero, anzi, ma nella consapevolezza di non sentirsi adatti a realizzare da registi un genere che, nella sua forma pura, mal tollera il loro spirito ironico e smitizzante.
Resta allora vero, come hanno dichiarato in più di un’occasione, che da produttori realizzano i film che non farebbero da registi? O piuttosto producono i film che non possono più fare da registi? Probabilmente sono esatte entrambe le ipotesi. D’altronde i Manetti risultano anche produttori, con la Madeleine del solito Macchitella (e con Rai Cinema), di un curioso thriller dall’anima molto mélo come Tutte le mie notti (2018) di Manfredi Lucibello. Un viaggio al termine della notte, con due protagoniste e una presenza maschile quasi solo in voce, al telefono, un gioco psicologico devastante che si nutre di continui ribaltamenti, forse sullo sfondo di un delitto. Tre attori, pochi ambienti, una tensione costante. Difficile non intravedervi, pur se declinata con una sensibilità altra – e in un progetto partito al di fuori della loro factory e poi adottato – l’ennesima applicazione della filosofia manettiana delle idee produttive high concept che sbocciano in piccoli incubi deliziosi. Con un occhio sempre attento ai costi, però.