È, senza rimpianti, “un cervello in fuga”. Valerio Bonelli, napoletano, 45 anni, ha lasciato l’Italia per Londra per studiare cinema, e a ventuno si è ritrovato nella sala di montaggio del Gladiatore di Ridley Scott, assistente del due volte premio Oscar Pietro Scalia. Un’esperienza volano per una carriera folgorante da montatore dei
film di Stephen Frears e Joe Wright (sta lavorando al suo Cyrano). Ma a far parlare, di recente, è un documentario: SanPa, la serie Netflix su San Patrignano diretta da sua moglie Cosima Spender. Ne
discuterà stasera alle 19 in diretta web sulla pagina Facebook di Bietti, la casa editrice milanese specializzata in cinema che ha
appena pubblicato L’arte invisibile del montaggio, una sua lunga
intervista a cura di Elisa Torsiello, per la collana Fotogrammi.
Chi è il montatore?
«È l’uomo nell’ombra, lo psicologo e l’amico del regista, il primo critico di un film. La sala di montaggio è quasi un confessionale. Il set è un mondo veloce dove il regista deve innalzare delle barriere per proteggersi, Fellini si sentiva come un cristiano nell’arena
dei leoni. Invece quando sei a tu per tu nel silenzio della sala di montaggio devi metter giù la calata di poker, vedere quello che hai portato a casa davvero con le riprese. E il montatore deve usare la sua intelligenza umana e narrativa per esaltare il buono e correggere i fallimenti».
Niente condiscendenza, insomma?
«In Italia per tradizione il regista è il maestro burattinaio. Ma è un errore fare tutto quello che vuole, lo dico anche ai miei studenti: noi siamo i primi spettatori di un film, dobbiamo essere onesti, portare la nostra idea. Siamo coautori nell’ombra, anche se all’inizio mi dava fastidio. Con il documentario vale ancora di più».
Difatti il montaggio è parte essenziale in “SanPa”. Si aspettava un tale riscontro?
«Mi aspettavo che avrebbe riaperto il dibattito. Io non ho vissuto la storia di San Patrignano, ero troppo bambino, oppure certi episodi del 1990-95 me li ricordo, dall’omicidio di Maranzano alla legge sulla droga. Da quello che mi dicono gli amici in Italia, il pubblico ha apprezzato il modo in cui abbiamo raccontato questa storia controversa».
Come?
«Non avevamo preconcetti. Cosima è interessata a raccontare le zone
grigie, e la tossicodipendenza, come diceva Muccioli, è una trincea di
guerra, è doveroso dar conto anche di chi non ce l’ha fatta. Il nostro approccio è stato quello di deviare dall’aspetto giornalistico per raccontare storie umane, di persone. Eravamo più interessati all’evoluzione emotiva delle storie che alla cronologia. Esperienze
contrastanti come quella di Fabio Cantelli, salvato dall’eroina ma tenuto all’oscuro di aver contratto l’Aids. O come quella di Muccioli stesso».
Nel film appare in tutto il suo fascino, un divo naturale.
«Senza dubbio. Erano gli anni ‘80 delle tv private, e Vincenzo ha capito subito che il medium tv era potente, ed era importante parlare alle famiglie. Ma già prima il suo carisma era evidente. Un magnetismo, ti stregava con gli occhi. Guardando i filmati mi dicevo: “Immagina a essere un tossico che non ha niente e trovare quest’omone che ti abbraccia”. Nei primi anni la terapia era lui».
Quanto materiale d’archivio avete recuperato?
«Una marea, compresi inediti dati da suo figlio. Buona parte è arrivato quando eravamo già in fase di montaggio: era come una miniera, il nostro collaboratore, Daniele Ongaro, scopriva di continuo nuove cose. Il 2020 l’ho passato tutto a vedere ore e ore di archivio e interviste. Un lavoro certosino».
Come definirebbe il suo stile di montaggio?
«Emotivo. Per me è importante trascinare lo spettatore dentro le
storie dei personaggi. Non mi interessa la velocità del ritmo, ma la
fluidità».
Com’è lavorare con la propria compagna?
«In vent’anni abbiamo avuto fasi complicate, oggi siamo una
macchina super rodata. Abbiamo due figli adolescenti, e lei dopo aver partorito si è trovata fuori dall’industria, si è sentita con le ali
tagliate. La mia più grande soddisfazione è essere riuscito a tener vivo il suo desiderio di fare la regista anche in quei momenti».
Simona Spaventa ©la Repubblica 12 febbraio 2021