Editoriale: il filo della tradizione
Enrico Petrucci«Abbiamo bisogno di nuove mitologie, non possiamo rinunciarvi»: con questa citazione di Ray Bradbury, tratta dalle sue interviste edite da Bietti nel libro Siamo noi i marziani, si apriva Lune d’acciaio, il fascicolo di «Antarès» dedicato ai miti della fantascienza (n. 9/2015). La narrativa fantastica era vista come un imperativo mitopoietico di cui l’uomo contemporaneo non può fare a meno, ma che in Occidente è costretto a celarsi sotto le spoglie d’una letteratura “di genere” per appassionati, guardata con sospetto dai gatekeeper della cultura “alta”. Non per nulla la grande autrice di fantascienza Ursula K. Le Guin titolava uno dei suoi saggi più noti Perché gli americani hanno paura dei draghi?, spiegando come la letteratura fantastica sia costretta nell’ombra dai falsi miti della società contemporanea, progresso e consumismo in primis. E più recentemente, nella prefazione del 2001 al suo Ciclo di Terramare, notava come in certe produzioni fantastiche e fantascientifiche la complessità stia svanendo a favore di «eroi che brandiscono spade, laser e bacchette magiche, meccanicamente come mietitrebbie, mietendo profitti».
Eppure resistono realtà dove il fantastico non è costretto a velarsi o abdicare al bisogno mitopoietico, anche quando si fa intrattenimento e cultura di massa. È il caso dell’animazione e del fumetto nipponico – anime e manga, rispettivamente. In un mercato che è poco più del doppio dell’Italia, solo i primi cinque settimanali dedicati ai manga vendono oltre tre milioni e mezzo di copie ciascuno, e questo in tempi “di crisi” rispetto al boom tra gli anni Ottanta e Novanta, quando il più venduto («Weekly Shōnen Jump») sfiorava i sette milioni di esemplari.
Il successo dell’immaginario disegnato nipponico è ormai diventato parte integrante della tradizione culturale giapponese, tanto che alla cerimonia di chiusura delle Olimpiadi di Rio del 2016 il premier Shinzo Abe si traveste e trasforma in Super Mario, facendosi aiutare dal gatto robot Doraemon per raggiungere la città brasiliana. Personaggi immaginari moderni divengono elementi dello spirito giapponese, arcaici stratagemmi per promuovere i grandi eventi internazionali. Tra i testimonial delle Olimpiadi di Tokio 2020, posticipate di un anno a causa della pandemia, c’è Capitan Tsubasa, l’Holly di Holly e Benji, così come Ken il guerriero aveva giocato a rugby per i mondiali tenuti in Giappone nel 2019. E tra le attrazioni della cerimonia d’apertura delle Olimpiadi ci sarà un Gundam, robot gigante protagonista di una saga ormai quarantennale, che ha già mosso i primi passi.
Ma fin dal 2005 tra le attrazioni permanenti dell’Esposizione Universale di Aichi figurava la casa dei protagonisti de Il mio vicino Totoro di Hayao Miyazaki, quasi annullando la distinzione tra realtà tradizionale e mitopoiesi contemporanea.
Che il Giappone potesse trovare una sintesi moderna capace di fare a meno dell’Illuminismo settecentesco e del Positivismo ottocentesco era un’ipotesi che intrigava anche il panorama italiano del primo Novecento. Nel 1908 un Marinetti non ancora futurista immaginava, nella lirica Alla macchina da corsa, che ad animarla fosse un «mostro giapponese». Nel 1942, con il tardivo Manifesto ai futuristi giapponesi, affermava che il grande passato fosse l’«eccitante» verso una modernità tipicamente giapponese. Alla stessa conclusione giungeva il giornalista Pietro Silvio Rivetta ne Il paese dell’eroica felicità (Hoepli, Milano 1941): il Giappone sarebbe riuscito a conseguire una sapiente fusione di tradizione e modernità. E per l’ultimo Pascoli, quello de La grande proletaria si è mossa, lo stesso Giappone diventava quasi un secondo riferimento, dopo Roma antica, da cui far ripartire la riscossa d’Italia. Quasi che l’essere passati dal feudalesimo all’età moderna nel volgere di quarant’anni avesse in qualche modo preservato la possibilità di meravigliarsi e cercare il mito non in bizzarri esotismi ma tra le pieghe della quotidianità stessa.
Un’intuizione che ha avuto immediata conferma quando l’animazione nipponica ha cominciato ad arrivare in Occidente, a fine anni Settanta, ritagliandosi fin dall’inizio un posto nell’immaginario collettivo. Per quanto massificate, ripetitive, spesso costruite su personaggi ridotti a cliché (ma sarebbe più corretto parlare di archetipi, ancorché allo stato grezzo), queste produzioni hanno saputo intercettare in Occidente una necessità mitopoietica rimasta velata nel pubblico generalista.
Se all’epoca pagavano una pregiudiziale politica, oggi nei confronti di anime e manga resta il preconcetto di essere solo prodotti d’intrattenimento di massa, propri a una nazione campionessa di omologazione e alienazione. Una realtà dove si manifestano fenomeni sociali inquietanti: karoshi, la morte per superlavoro; hikokomori, la reclusione volontaria in casa per rifuggire ogni contatto con la società; johatsu, gli evaporati che annullano la propria identità e ogni legame per ripartire da zero. A completare il profilo di crisi, un tasso di fertilità sempre più basso e il debito pubblico più alto del mondo.
Ma se la sintesi fra tradizione e modernità che ispirava Marinetti mostra numerosi limiti a livello sociale e urbanistico, nella produzione culturale di massa rappresentata da anime e manga è ancora viva e vegeta. Pur nascendo nell’alienazione del Giappone moderno, queste creazioni uniche continuano a interrogarsi sul senso dell’esistenza e dei legami intersoggettivi. I temi, indipendentemente dal target di pubblico, restano quelli canonici dell’amore, della difesa della propria comunità e dell’onore.
E così sceneggiature ripetitive, colori sgargianti, improbabili pettinature, robot giganti e maghetti tutti impegnati nella difesa dell’umanità sono, per così dire, lo specchio di una vita quotidiana in cui il “fantastico” sembra remoto, resuscitando i grandi interrogativi dell’esistenza. E se agli inizi del boom dell’animazione gli elementi tradizionali presenti erano traslati in ambientazioni astratte, oggi sempre più produzioni provano a ricucire la cesura tra il Giappone ancestrale e l’alienante contemporaneità. E una commedia sentimentale come Your Name (2016), la cui sinossi sembra una eco del disneyano Freaky Friday (Tutto accadde un venerdì, 1976), in realtà vive a livello più profondo. Vi si afferma: «Il tempo e gli antichi scritti vennero distrutti. […] Da allora il significato delle feste religiose fu dimenticato e sopravvisse solo la forma. Anche se le parole sono perse, le tradizioni si devono tramandare». Ci si interroga, insomma, sulla possibilità di riannodare i fili di quelle tradizioni perdute, adattandole alla contemporaneità, sintetizzando in qualche modo presente, passato e futuro.