"La seconda notte di nozze". Esplorazione on the road dell’Italia del dopoguerra

Francesca Monti
Pupi Avati n. 10/2019

Uscito quasi in contemporanea con il romanzo omonimo dello stesso Pupi Avati (Mondadori, 2005), La seconda notte di nozze vive della patina nostalgica del racconto al passato. Non solo per la lente deformante del ricordo autobiografico, ma soprattutto perché nella sua versione cinematografica la storia passa dalla terza alla prima persona singolare. È una voce extradiegetica, infatti, a introdurre lo sfondo storico dell’immediato dopoguerra. Il narratore rende omaggio anzitutto a quei bambini che, dopo aver patito la fame e la paura dei bombardamenti, hanno trovato la morte o sono rimasti gravemente feriti a causa delle mine disseminate nel terreno. Tuttavia il passaggio di testimone tra l’autore Avati e il narratore Giordano si fonda su un’apparente inattendibilità: quest’ultimo è infatti considerato il matto del villaggio, come dimostra l’ingrato mestiere che si è trovato a svolgere subito dopo il conflitto, ovvero sminare il circondario. A proteggerlo dalla cattiveria del mondo ci sono solo due vecchie zie (Suntina ed Eugenia, interpretata da una Marisa Merlini alla sua ultima, splendida interpretazione), che però non riescono a tenerlo al riparo dai suoi sentimenti, risvegliati da una lettera della cognata Liliana. Giordano decide così di invitare la donna, rimasta vedova da poco, nella loro masseria, mentre lei, recalcitrante, viene trascinata quasi a forza da Bologna al profondo Sud dal figlio Nino, poco di buono dedito al furto.
Avati aderisce sin dalle prime immagini al punto di vista dell’idiot savant Giordano, fino a fondere i propri ricordi con i suoi: la fascinazione per Bari, di cui in famiglia si raccontavano meraviglie; le macerie di Bologna, piegata dal conflitto; la difficoltà di tornare a una vita normale. C’è poi la figura di Liliana, che riporta alla memoria la madre del regista. Anche lei, dopo avere perso il marito, era stata spinta dalle amiche a conoscere altri uomini. E ad Avati capitò di presenziare a questi primi appuntamenti, che talvolta sfociavano in vere e proprie situazioni comiche.
Il gusto per la direzione di volti inaspettati questa volta porta l’autore a scegliere una nota cantante lirica – Katia Ricciarelli, che sarà premiata con Nastro d’Argento alla migliore attrice protagonista – per un ruolo ben lontano dai fruscii del palcoscenico: Liliana è anzitutto una donna umile, con poca cultura, che per la disperazione di aver perso tutto lascia che la povertà ne cancelli la dignità.
D’altra parte, la stessa vicenda narrata disorienta lo spettatore ribaltando alcuni cliché. Anzitutto il fatto che siamo nel 1945 e che la migrazione di Liliana e Nino sia controcorrente rispetto a quella che porterà molti abitanti del Sud nelle grandi città del Nord Italia. I protagonisti discendono infatti da Bologna in Puglia e il loro viaggio costituisce un ampio prologo al fatidico (re)incontro tra Giordano e la cognata. Affascinato dal Meridione, soprattutto dopo avervi girato I cavalieri che fecero l’impresa (2001), Avati ne fa una sorta di terra promessa, raggiungibile solo dopo mille peripezie, dove è ancora possibile fare laute colazioni e vivere con dignità. Qual è lo scopo di questa scelta, che fa del film un ibrido tra melodramma e road movie? Si tratta di una costruzione che, da un lato, rafforza l’attesa, producendo un’immedesimazione dello spettatore in Giordano e nel suo febbrile entusiasmo. Dall’altro, però, c’è l’idea di esplorare un territorio, l’Italia, nel momento in cui questo è una sorta di magma informe, tanto fisicamente, a causa delle distruzioni, quanto politicamente, a causa di confini e geografie da ridefinire.
È un Paese di vuoti e mancanze, quello che scorre sullo schermo: i luoghi, quando sopravvissuti, hanno perso la funzione che li identificava prima del conflitto per farsi altro, in una continua metamorfosi semantica. Così, la chiesa a Bologna è diventata un ricovero per indigenti, con le lenzuola a fare da pareti tra camere inesistenti. Qui Liliana convive con un uomo a cui concede il proprio corpo in cambio di un pasto caldo, in una grottesca simulazione di famiglia e focolare domestico che collide con il valore simbolico di quello spazio. E scendendo giù per la penisola, Liliana e Nino troveranno una scuola improvvisata con dei banchi tra le macerie, dove un professore continua a fare lezione senza badare al fatto che non ci sia più alcun allievo. E poi, ancora, teli e muri che fungono da bagni, prati in fiore che diventano tristi alcove, vagoni di treni riadattati ad abitazioni. Sono solo due, in La seconda notte di nozze, i luoghi ancora integri, tanto dal punto di vista strutturale che funzionale: la casa di Giordano e lo studio del suo avvocato. Perché il mondo del protagonista è ancora ordinato e non ha perso il suo significato. E la cosa suona tanto più paradossale quanto più si pensa alla fragilità psichica del personaggio, la cui diversità e insensatezza è a più riprese evidenziata da chi lo circonda.
D’altra parte il tentativo di Avati, con questo viaggio nella memoria, è di dare un contributo a una riscrittura della Storia che metta al centro chi è stato ridotto ai margini di ogni discorso sul passato. Nel fare questo, il regista si diverte anche a riscrivere la Storia del cinema. La seconda notte di nozze erige infatti un piccolo monumento al cinematografo, riflettendo su quello che questo medium ha potuto rappresentare per le giovani generazioni dell’epoca. Di fronte a visioni atroci entrate nel quotidiano, il grande schermo era paradossalmente lo strumento che consentiva di varcare la soglia verso il reale, minacciato dall’insensatezza della guerra. Nino, personaggio moralmente deplorevole nei confronti della madre, è a tratti dipinto anche con bonaria comprensione, soprattutto nel suo perdersi tra i sogni di celluloide. Perché sono questi ultimi a ricordargli la propria umanità e consentirgli di emanciparsi da una visione brutalmente animalesca dell’esistenza. Non a caso, quando arriverà a sedurre la figlia dell’avvocato per sottrarle del denaro, lo farà per un gesto di “altruismo”, ossia per offrire la cifra a Enzo Fiermonte, divo del cinema che fu. Ex pugile e pilota, l’attore barese è per Nino una figura epica, capace di reinventarsi a ogni ostacolo: dopo la guerra si riciclò nel peplum, poi nello spaghetti-western e nei fotoromanzi. Senza mai perdere la capacità di dare agli spettatori quelle illusioni di cui questi avevano disperatamente bisogno per riemergere. Un po’ come quei confetti che Giordano continua a produrre con le zie, per festeggiare matrimoni e nascite.
L’abbaglio dell’amore, in fondo, che sia per una donna che non potrà mai ricambiare, o per una star a cui non si potrà mai assomigliare, è l’ultima fioca luce di umanità in un mondo deformato dalla barbarie. E, come tale, merita di essere coltivato con dedizione.

 

CAST & CREDITS

Regia: Pupi Avati; soggetto: Pupi Avati; sceneggiatura: Pupi Avati; fotografia: Pasquale Rachini; scenografia: Simona Migliotti; costumi: Mario Carlini, Francesco Crivellini; montaggio: Amedeo Salfa; musiche: Riz Ortolani; interpreti: Antonio Albanese (Giordano Ricci), Neri Marcorè (Nino Ricci), Katia Ricciarelli (Lilliana Vespero), Angela Luce (Suntina Ricci), Marisa Merlini (Eugenia Ricci), Robert Madison (Enzo Fiermonte); produzione: Antonio Avati per DueA Film, Rai Cinema; origine: Italia, 2005; durata: 103’; home video: Blu-ray inedito, dvd 01 Distribution; colonna sonora: ConcertOne.

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