Girato a vent’anni di distanza da La casa dalle finestre che ridono (1976), L’arcano incantatore è uno dei capitoli di quel sottogenere inventato, codificato, variamente modulato da Pupi Avati nel corso della sua carriera ed efficacemente sintetizzato dalla definizione di gotico padano. Sono storie del mistero ambientate nella Bassa padana, tramandate per via orale, che ribaltano l’immagine solare e godereccia tradizionalmente (e un po’ pigramente) attribuita all’Emilia-Romagna. Come da didascalia d’apertura, L’arcano incantatore è «una fola esoterica delle nostre campagne». Un racconto di paura in cui superstizioni ancestrali convivono fianco a fianco con la minaccia di un Male cattolicamente inteso: un Satana infingardo e tentatore, presenza immanente pronta a corrompere chiunque si renda disponibile a cedere alle sue lusinghe. Se inevitabilmente L’arcano incantatore gioca di rimando con gli altri capitoli del filone – la celebre pittura murale di La casa dalle finestre che ridono è citata sia dalla successione di pareti scrostate su cui scorrono i titoli di testa, sia dall’affresco dietro cui si cela la misteriosa donna che permette al personaggio di Stefano Dionisi di abbandonare Bologna – il film, visivamente, si discosta sia dal cult del 1976 sia dal lovecraftiano Zeder (1983). Tanto le due opere precedenti sapevano generare sincera inquietudine attraverso soleggiate riprese en plein air, quanto questa si immerge nell’oscurità di vecchie magioni fiocamente illuminate e, come ogni gotico che si rispetti, abbraccia la fobia per il buio, per porte che sbattono all’improvviso, nenie cantate da donne con la voce roca, rumori sinistri, folate di vento che fanno tremolare le fiamme delle candele. Ambientato nel 1750 a Medelana, piccola località dell’Appennino bolognese (ma in realtà girato in Umbria, nei dintorni di Todi), e interamente raccontato in flashback – da Giacomo Vigetti, in forma di salvifica confessione – il film è stato variamente sottostimato alla sua uscita. Tra le accuse ricorrenti, la mancata alchimia (giusto per restare in tema) tra gli interpreti e una confezione tirata al risparmio. In realtà, se è vero che la coppia Carlo Cecchi/Stefano Dionisi non sempre brilla per pulizia di dizione e la fotografia di Cesare Bastelli appare fin troppo calda e pastosa anche nelle scene in notturna, è giusto e doveroso riconoscere alla pellicola valori formali non corrivi. Si pensi ad alcune inquadrature (la figura nera di Dionisi stagliata sulla facciata dell’antica chiesa di Medelana) o sequenze (la lunga camminata del seminarista e del becchino diretti alla casa dell’ex parroco del borgo, tra i boschi prima e lungo il corso d’acqua di fronte a cui sorge l’edificio delle converse poi); ma anche alla menzionata capacità di suscitare terrore per pura forza di suggestione e senza il ricorso a effetti speciali. E proprio di suggestioni e fole, di magia e superstizione, L’arcano incantatore si abbevera fin da subito; a partire dal racconto in apertura della donna che viaggia in carrozza e spiega di accompagnare alle terme una bambina, la terzogenita della sua padrona. «È resuscitata dopo dieci giorni di febbre perniciosa tornando al mondo dei vivi, le avevano dato pure l’olio santo. La bambina è tornata dall’aldilà».
Rivisto a distanza di tanti anni, la cosa più riuscita di L’arcano incantatore è la relazione che si instaura tra due reietti messi ai margini della società: Achille Ropa Sanuti (Carlo Cecchi), l’ex parroco di San Bartolomeo ripudiato dalla Chiesa per i suoi studi esoterici, e l’ex seminarista Giacomo Vigetti (Stefano Dionisi), costretto a fuggire da Bologna per avere messo incinta e indotto ad abortire una minorenne, quindi salvato da una misteriosa dama che lo spedisce dallo scomunicato perché sostituisca il suo scritturale deceduto. Entrambi degradati dalla Chiesa, i due inaugurano un rapporto di avvicinamento reciproco che sembra assumere i contorni di quello tra un padre e un figlio. Una solidarietà tra solitudini complementari, fatta di brandelli di fiducia conquistata quotidianamente e poi beffardamente tradita in un finale privo di speranza e di coraggiosa cupezza. Diffidente e intimorito, lo scritturale si accosta con prudente deferenza alla figura di Achille Ropa Sanuti: lo guarda di sottecchi, trattiene le domande, evita anche la prossimità fisica. Ma poco a poco, quando capisce (o pensa di capire) il senso della sua presenza in quella casa, quando l’uomo si adopera per stringerlo a sé e farlo sentire indispensabile (la scena del salasso, durante la quale Sanuti chiede al ragazzo di incidergli una vena, come se lui non potesse farlo da sé), Giacomo si lega a quella figura misteriosa che sa come blandirlo, e viene soggiogato dal fascino dell’uomo fino a provare orgoglio nel servirlo. In realtà quello che si instaura tra i personaggi è un lucidissimo, perverso processo di seduzione a senso unico – intrapreso dall’incantatore nei confronti del suo segretario – che Avati descrive con una sottigliezza psicologica tutt’altro che scontata e giocata su più registri. L’ex parroco convince Giacomo di avere bisogno della sua fiducia («Allora non mi hai tradito», dice falsamente stupito al giovane che torna da lui dopo aver consegnato una lettera cifrata, suscitandone il compiaciuto imbarazzo), lo mette a parte di episodi della sua infanzia, gli fa credere che la sua presenza sia benefica («Sai che è il punto più lontano della casa che raggiungo da tanto tempo a questa parte?», esclama mostrandosi sul limitare del bosco limitrofo al suo alloggio), infine lo porta a confessare il crimine commesso che lo ha portato alle sue dipendenze. Un rapporto tra un padre e un figlio, si diceva, diabolicamente intessuto, con certosina pazienza, fino alla ghignante beffa finale. Alla rivelazione che l’arcano incantatore non era il dotto collezionista di testi esoterici a cui Vigetti ha confessato i suoi peccati, ma un servo del Male che lo ha utilizzato per i suoi osceni scopi. Un ribaltamento di prospettiva che Avati conduce con consumata abilità e porta a un finale che, se non riesce ad avere lo stesso impatto scioccante di quello di La casa dalle finestre che ridono – del quale riprende, però, la sorpresa legata alla confusione di gender: nel film del 1976 il dettaglio rivelatore era l’apparire di un seno di donna sotto la veste di un prete, qui una mano femminile dalle unghie smaltate sul corpo di un uomo – dà però un senso, preciso e sinistro, alle parole con cui il prete inviato dalla Curia bolognese a indagare sulle vicende dello spretato, avvertiva Vigetti: «Il demonio non si fa servitore, se non per essere maestro».
CAST & CREDITS
Regia: Pupi Avati; soggetto: Pupi Avati; sceneggiatura: Pupi Avati; fotografia: Cesare Bastelli; scenografia: Giuseppe Pirrotta; costumi: Vittoria Guaita; montaggio: Amedeo Salfa; musiche: Pino Donaggio; interpreti: Stefano Dionisi (Giacomo Vigetti), Carlo Cecchi (Achille Ropa Sanuti), Consuelo Ferrara (Severina), Arnaldo Ninchi (Aoledo), Eliana Miglio (prostituta malata), Andrea Scorzoni (don Zanini); produzione: FilmAuro, DueA Film; origine: Italia, 1996; durata: 96’; home video: Blu-ray inedito, dvd FilmAuro; colonna sonora: inedita.