Storia di ragazzi e di ragazze arriva al termine di un decennio nel quale Pupi Avati, in collaborazione con il fratello Antonio, produttore e sceneggiatore, ha costruito una personale storia provinciale dell’Italia. Una gita scolastica (1983), Noi tre (1984), Festa di laurea (1985), e prima ancora Le strelle nel fosso (1979) e Aiutami a sognare (1981), compongono il quadro di un cinema malinconico e a suo modo rassicurante, immerso in un passato che del ricordo possiede l’intimità e l’ineluttabilità della perdita. Un cinema di «buone cose di pessimo gusto» (Gozzano), dalle coordinate spaziali precise legate ai luoghi d’infanzia del regista (l’Appennino tosco-emiliano, la costa adriatica, l’epicentro rappresentato da Bologna) e dalla dimensione temporale più ampia (la fine del XVIII secolo, l’inizio del XIX, l’Italia del 1914 prima dell’ingresso in guerra, l’occupazione tedesca del 1943, gli anni dell’immediato dopoguerra) ma ugualmente rappresentata in tono minore e privato.
Girando nei luoghi in cui è nato e cresciuto, raccontando storie ascoltate per anni in famiglia (Una gita scolastica) o guardando alla grande Storia e a grandi figure dalla prospettiva defilata e stranamente privilegiata del mondo contadino (Noi tre), Avati cerca soprattutto di imprigionare il sentimento del tempo come immaginario. La ricostruzione storica avviene in maniera implicita, «dal sangue alla guerra» (Ungaretti), attraverso un miscuglio indistinguibile e confuso di desideri, frustrazioni e sogni, dai quali si evince lo spirito di un’epoca, le sue rigidità e le sue passoni spesso represse. L’anima italiana emerge dai dettagli minimi della messinscena: il décor di una stanza da letto, le lenzuola e gli asciugamani; le cerimonie famigliari, il lutto e la festa; le radio che trasmettono musica americana e le orchestre che ne scimmiottano il mood; la timidezza degli ultimi, l’arroganza superficiale dei ricchi, la prepotenza dei mediocri. Il passato è umanizzato nella misura in cui il conflitto economico e sociale è riportato a una dimensione puramente relazionale, quando non addirittura emotiva: un’incomprensione fra innamorati appartenenti a classi diverse, un rapporto impossibile fra adolescenti che non si vedranno più, una fantasia messa in atto nel nome di una bugia accettata e condivisa da tutti…
Di questi aspetti del cinema di Avati, Storia di ragazzi e di ragazze è una sorta di ricapitolazione. Un’opera ancora una volta personale, ispirata dall’incontro fra le famiglie dei suoi genitori avvenuto alla metà degli anni Trenta, durante il tradizionale pranzo di pre-fidanzamento che la famiglia della sposa offriva ai parenti dello sposo. In una campagna dominata – nella versione a colori per la televisione – dai toni umbratili e invernali degli esterni e – in quella in bianco e nero per il cinema – da una patina che riprende la sovraesposizione delle foto rovinate dal tempo, due gruppi di persone appartenenti a mondi geograficamente e socialmente distanti provano a instaurare un dialogo difficile e forse impossibile. Da un lato i contadini proprietari terrieri dell’Appennino attorno a Porretta Terme, il casolare di campagna, la famiglia nucleare allargata, i preparativi per la festa, le ricette tradizionali, il lavoro nei campi che d’inverno riposa, la povertà e un benessere accennato; dall’altro i piccolo-borghesi di Bologna, la tranquillità ovattata dell’appartamento in centro, le cene formali, le stanze da letto gelide, il viaggio in treno verso la montagna, la zia zitella, la coppia di sposini, la futura suocera altezzosa, il sesso come tabù o pettegolezzo… Avati elimina quasi completamente i riferimenti al regima fascista, immerge come di consueto la vicenda in un periodo che precede o segue una tragedia collettiva (en passant si fa riferimento al vicino paese di Marzabotto, ancora privo del valore che in seguito assumerà) e così facendo blocca l’incedere della Storia in un quadretto privato e familiare. La rievocazione manca di calligrafismo, dal momento che del passato sono ricercati l’umore e il sentore, non certo l’apparenza; a emergere è una componente altrettanto rischiosa, una rappresentazione da istantanea fotografica, dolce e accondiscendente, che tende a isolare le figure e a rinchiuderle nella cornice.
L’approccio ricorda quello di Edgar Reitz in Heimat (in particolare negli episodi Natale come mai fino allora e Via delle alture del Reich), quando viene raccontato il benessere delle campagne durante i primi anni del nazismo. Avati guarda al periodo fascista in maniera analoga, cogliendo l’inconsapevole normalità del quotidiano ma al tempo stesso, a differenza del regista tedesco, rifuggendo dalla Storia e dal peso delle responsabilità collettive grazie al minimalismo del racconto familiare. La struttura corale del film, già sperimentata in Una gita scolastica e più ancora in Impiegati (1985), ambientato a Bologna nell’Italia rampante degli anni Ottanta, determina una narrazione episodica e dispersiva, con il pantagruelico pranzo in onore dei due fidanzati («Abbiamo fatto solo qualcosina più del solito, speriamo che basti…») a fare da centro narrativo del racconto e tuttavia le singole scene e i singoli personaggi a vivere di grazia propria, come se ogni emozione e ogni sentimento rientrassero a stento nel quadro d’insieme.
Il senso del magico e del fiabesco, presente negli horror padani di Avati ma in maniera sorprendente anche in Una gita scolastica (lo spirito dell’incanto, i cadaveri dei due sposi, la figura quasi angelica di Guglielmo Marconi) e Noi tre (il conte Pallavicini che mangia la terra di cui è proprietario), qui è affidato ai bambini, al loro sguardo rivolto verso il cielo e verso la magia delle stelle, in una sfumatura, questa sì politica, del piccolo universo antico del regista. Nell’innocenza delle giovani generazioni c’è infatti il disegno di una possibile alterità rispetto alla società degli adulti, che dal canto suo per tutto il film, tra tradimenti, riconciliazioni, litigi, rivendicazioni, meschinità e piccoli favori, resta imprigionata nelle maglie di un desiderio destinato a restare inappagato.
Rispetto alle storie patetiche e quasi grottesche di Una gita scolastica e Festa di laura, in Storia di ragazzi e di ragazze a dominare sono la rabbia, l’appetito sessuale, la rivendicazione sociale e la conquista di un’indipendenza di genere all’epoca difficile da pensare; uomini e donne si avvicinano, si desiderano e si scontrano senza che la guerra familiare e di genere – ignara di un conflitto più grande di là da venire – porti ad alcun scompiglio.
Tutto si tiene ancora, dunque, in questo quadro ideale di un passato tipicamente italiano, e ogni cosa esprime nella sua piccolezza l’anima più autentica del cinema di Avati, evocativo come l’eco di uno sparo fuori campo; dolce ed evanescente come l’impronta di un dolore ormai acquietato.
CAST & CREDITS
Regia: Pupi Avati; soggetto: Pupi Avati; sceneggiatura: Pupi Avati; fotografia: Pasquale Rachini; scenografia: Daria Ganassini, Giovanna Zighetti; costumi: Graziella Virgili; montaggio: Amedeo Salfa; musiche: Riz Ortolani; interpreti: Felice Andreasi (Domenico), Lucrezia Lante della Rovere (Silvia), Alessandro Haber (Giulio), Angiola Baggi (Maria), Davide Bechini (Angelo), Anna Bonaiuto (Amelia), Massimo Bonetti (Baldo), Valeria Bruni Tedeschi (Valeria); produzione: Antonio Avati per DueA Film, Unione Cinematografica Internazionale; origine: Italia, 1989; durata: 92’; home video: Blu-ray inedito, dvd Ermitage; colonna sonora: inedita.