Maestro d’interpreti, Maestro di vita. Il lavoro sull’attore: in viaggio con Nicola Nocella
Pupi Avati n. 10/2019Stefano Accorsi, Silvio Orlando e Diego Abatantuono. Mariangela Melato, Micaela Ramazzotti e Vanessa Incontrada. Nik Novecento, Massimo Boldi, Ezio Greggio, Katia Ricciarelli e Neri Marcorè. Cos’hanno in comune gli attori di questa eterogenea squadra? Sono tutti popolari, certo, bravi e premiati. Ma il vero minimo comune denominatore del dream-team è l’allenatore: Giuseppe Avati da Bologna, detto Pupi. Uno che fra i viali e gli studi di Cinecittà passa per essere il più grande scopritore-(ri)lanciatore di talenti del nostro cinema, in possesso di un magic touch che ha inventato e reinventato carriere.
Certo l’elenco potrebbe essere molto più lungo. Perché in ogni attore con il quale ha lavorato, il regista ha lasciato un segno profondo. Tanto che ormai gli “Avatiani”, quando si incontrano, si annusano, si guardano negli occhi, ed è lì che scatta il loro saluto, quasi una parola d’ordine: «Anche tu hai lavorato con Pupi…». È la password per l’ingresso in questo club esclusivo delle anime, quasi un’amicizia per interposta figura di garanzia. Se hai lavorato con Pupi – è il senso intimo e non detto di quegli sguardi – vuol dire che sei all’altezza di Pupi. Davanti, e soprattutto dietro la macchina da presa.
C’è chi ci ha esordito come il povero Nik Novecento, sei film in quattro anni, da Una gita scolastica (1983) a Sposi (1987), o Stefano Accorsi, che da Fratelli e sorelle (1992) ne ha poi fatta di strada. O Mariangela Melato, ingaggiata per Thomas… gli indemoniati (1969) dopo una lunga giornata d’attesa a un provino al quale s’era presentata senza invito, e Micaela Ramazzotti, comparsa a diciassette anni in La via degli angeli (1999) e poi tornata da Pupi, attrice affermata, per Il cuore grande delle ragazze (2011). Perché da Pupi, questa è un’altra verità, ci si torna. Spesso e volentieri. E al di là dei casi-feticcio di Carlo Delle Piane o Gianni Cavina, sono tornati anche Diego Abatantuono – sei film con l’autore bolognese, a partire da quel Regalo di Natale (1986) che gli ha regalato una seconda vita artistica (drammatica) – e Vanessa Incontrada, che dopo l’esordio in Il cuore altrove (2003) ha ripercorso la via di Pupi con La cena per farli conoscere (2006). Chi lavora con Avati sente un debito di riconoscenza che prima o poi va saldato.
Per farci raccontare cosa rappresenti Pupi Avati per il lavoro dell’attore, abbiamo preso un caffè con Nicola Nocella, protagonista di Il figlio più piccolo (2010). Uno dei casi più clamorosi di carriera lanciata dal regista felsineo. Talento strabordante trattenuto a stento in un corpo da John Belushi mediterraneo, Nocella deve tutto ad Avati. E a una panchina del Centro Sperimentale di Cinematografia…
Nicola Nocella da Terlizzi, entroterra barese. Classe 1981. Uno che l’attore lo voleva fare sin da bambino. E che, cocciuto, al terzo tentativo è riuscito a entrare al Centro Sperimentale. Giancarlo Giannini il suo pigmalione. Severo e protettivo, come dev’essere un buon padre (o almeno un buon maestro): «Avevo un rapporto molto conflittuale con Giannini, difficilmente finiva una conversazione senza insultarmi. Davanti ai compagni di corso diceva “Bravissimo”. Poi veniva da me e declamava: “Hai imparato a fare la pizza? Perché te sto mestiere non lo fai…”. Insultava me e la Crescentini. Si vede che su di noi puntava».
E la panchina?
Ero lì per un turno di doppiaggio per il corto di un amico, seduto al fresco della primavera 2009. Passa Pupi Avati con Giannini. Non sa niente di me, nemmeno che sono un attore. Mi dice: «Vieni qua, tu! Perché non hai fatto il provino per il mio film?»; «Non lo so Maestro, non mi ha chiamato»; «Peccato, eri perfetto. Quanti anni hai?»; «Ventotto»; «No, ventidue».
Tanto per capire il personaggio. A quel punto interviene Giannini e mi fa il regalo più grande: «Non sembra ma è il mio miglior allievo, è uno stronzo ma è bravissimo».
A suo modo, un grande endorsement. Ma basta, finisce lì, anche perché Avati aveva già preso un altro. Che però alla vigilia delle riprese era scappato. Passano due settimane, il tempo per rimuginare sull’occasione perduta, e mi metto in viaggio per la Puglia. Pasqua incombe e i genitori mi reclamano. Sono ormai a Trani quando ricevo una telefonata:
«Sono Pupi Avati, voglio incontrarti oggi pomeriggio»; «Ma io sono a Trani!»; «Allora vieni domani»; «Sì, Maestro».
Arrivo da mio padre e gli dico: «Papà, dobbiamo ripartire. Adesso». Mi guarda stralunato. Ma davanti agli occhi vede in fila, uno per uno, tutti i sogni e tutti gli incubi di quel ragazzo di campagna che sogna il cinema da quando è bambino. Gli dico: «Papà, andiamo».
Arriviamo a Roma il giorno dopo. Ho barba e capelli lunghissimi. Avati mi accoglie e mi dice: «Ti tagli tutto subito? Anche se non ti prendo?»; «Ma certo, Maestro». E lì c’è il primo segno della Provvidenza: il parrucchiere usa un vecchio trucco del mestiere, mi lascia i capelli un po’ più lunghi e mi mette in testa una retina. Vado da Avati e lui fa: «Peccato, dovevano essere più lunghi». Tolgo la retina, et voilà: perfetto! Filo in sartoria per la prova-costumi e lì il secondo segno: mi entra tutto. Di solito non mi entrava niente. Allora Avati mi chiama nella stanza di regia. Scappano tutti, rimaniamo solo io, lui e suo fratello Antonio. Pupi mi si mette vicino e mi dice: «Sai che sta per cambiarti la vita? Sai che adesso sta per iniziare la tua carriera?». Io resto letteralmente ammutolito. Lui mi guarda e fa: «Abbracciami». E mentre ci abbracciamo mi dice: «Faremo un gran film». Ero arrivato lì da tre ore, dalla firma del contratto erano passati venti minuti. E stavo per girare un film con Pupi Avati.
Cosa lo ha attratto di te?
Una botta di empatia. Lui ha sentito la mia tristezza, il mio dolore, la mia rabbia, il mio rancore. Li ha avvertiti tutti. Mi guardava, mi accarezzava, mi abbracciava. È uno molto fisico. Non a tutti piace, ma a me ispirava molto questa figura paterna.
La prima scena?
È quella del consiglio di amministrazione, quando leggo la lettera a mio padre. Pupi la riscrive per adattarla a me. Si mette accanto alla macchina da presa. Nessun regista lo fa più. Sono tutti davanti al monitor. Lui il monitor non ce l’ha. Si mette lì di fianco e mi dice: «Parla con me». Perché lui sente, vive e respira come senti, vivi e respiri tu. Lui ti dirige con i gesti mentre stai parlando, come fa un direttore d’orchestra. Viene lì e ti muove mentre parli. Ma non è invasivo, non ti disturba. Pupi sa esattamente cosa chiederti perché ha capito esattamente cosa puoi dare. È chirurgico e lieve al tempo stesso: ti senti plastilina nelle sue mani, pura poesia. A lui ti affidi completamente. Ti dice: «Questo ruolo l’ho scritto per te». Non era vero, ma lo è diventato.
Com’è sul set?
Crea un rapporto incredibile con l’attore. Non si mette al tuo livello, ma ti porta al suo. Non ti mette mai in soggezione. Senti la sua cultura sconfinata, ma non senti la distanza. Si mangia tutti insieme, attorno allo stesso tavolo. Non si parla del film, ma di tutto il resto. È il collante sul set fra le varie generazioni. Un grande motivatore. Ma sa anche essere cattivo. Come un buon padre che ti accoglie ma ti sbatte anche contro il muro, se serve. Poi sa entrare nel tuo profondo. Per esempio sapeva della mia ossessione per il David di Donatello. Devi sapere che da quando ero bambino, tutte le notti prima di addormentarmi, ancora oggi, io riscrivo il mio discorso di ringraziamento per il David. Pupi lo viene a sapere e mi dice: «Sai, io son sessant’anni che riscrivo quello per gli Oscar…». Quando ero triste mi diceva: «Vai in studio a guardare i David, tanto prima o poi lo vinci». E quando sono stato candidato al David la prima persona che ho chiamato è stato Pupi. E lui piangeva al telefono.
Come dirige la recitazione?
Spiega tutto a tutti, quaderno alla mano. Ogni dettaglio della scena. Pupi ha una scrittura molto diretta. Fa dire ai suoi personaggi delle cose che direbbero davvero. Si dice sempre che ti porti verso una recitazione sussurrata, ed è la verità: del resto quando parli con la gente nella vita di tutti i giorni mica urli, non parli con la voce impostata. È tutto sussurrato, tutto molto piccolo.
Lascia spazio all’improvvisazione?
No, è tutto scritto, ma non serve toccare nemmeno una parola della sceneggiatura, perché Pupi scrive molto bene, rispettando una grammatica molto forte e tradizionale. Tutto ciò che è superfluo lo epura. Ha una grande capacità di maneggiare la semplicità, che porta l’attore a essere subito dentro la storia. Una volta mi ha detto: «Bravi tutti a fare il cinema con i dolly. Metti la macchina da presa attaccata all’attore e poi vediamo cosa ottieni». Ecco perché è così bravo con gli attori.
Mi è capitato spesso di pensare che Pupi dovrebbe insegnare direzione d’attori. Ma poi mi rispondo che no, non sarebbe possibile. Non si insegna quella roba. Perché tu così ci nasci. Se mi tieni la mano e mi chiedi come stai, che problema ho, fermando le riprese perché mi vedi triste sul set, quella roba tu non puoi insegnarla.
L’episodio delle riprese che ti è rimasto più addosso?
Stiamo girando una scena in cui Luca Zingaretti e Maurizio Battista vengono a prendermi. Una scena faticosissima, sotto il sole, tutta in steady “a precedere”. L’operatore, Stefano Salemme, cammina a ritroso davanti a me. Marco Rachini, il capo-elettricista, cerca di indirizzare la luce con il polistirolo. Pupi gira la prima, poi la seconda. È un po’ titubante, ma lui non fa mai più di tre ciak. Decide di fare il terzo. Poi chiede: «Com’è?»; «Mi sembra buona», dice Salemme; «Ma… buona-buona?»; «Mah, io ne farei un’altra», confessa Stefano, «perché ho avuto un problema di sfocatura su Nicola: la prossima viene perfetta». Pupi si guarda intorno. Poi si rivolge a me e mi dice: «Quindi la dobbiamo rifare per te… Chiedi a Marco se la vuol fare. È mezzogiorno, è sudato fradicio, io non gliela faccio fare un’altra scena, perché è molto stanco. Chiediglielo tu, se la fa per te la giriamo». Io mi sento schiacciato dal peso della responsabilità, ma a salvarmi arriva la voce di Rachini: «Ma che, stai a scherzà Pupi? A’ famo subito. Pe’ Nicola questo e altro». E la scena viene perfetta.
Qualche settimana dopo, negli ultimi giorni delle riprese, siamo a cena a Bologna. Pupi mi prende in disparte e mi dice: «Tu non sai quanto sia importante quello che è successo lì sotto il sole. Vuol dire che sei stato bravo. Ma non come attore: come uomo». Ecco, Pupi Avati, prima di lavorare con l’attore, lavora con l’uomo.
La lezione di Pupi che porti con te? Umanamente e tecnicamente…
Umanamente, l’approccio al set. Disponibilità, sorriso. Pupi ama questo mestiere in maniera viscerale, con il concetto del “divertirsi come un bambino”. Lui dice che ci sono due categorie di attori. Quelli che “Oggi devo portare il book da Avati, ma a cosa serve, tanto prende sempre gli stessi…” e quelli che “Oggi vado da Avati e lo dico a tutti…”, che quando arrivano gli danno il book come se fosse una cosa sacra: come fai a non dargli tre pose? Ecco, quando non sono stato così ho perso. Che non è questione di umiltà. È di più, è proattività.
Tecnicamente Pupi mi ha “trovato” la voce, me l’ha spostata sui bassi. Sapeva dove ce l’avevo e me l’ha tirata fuori. E poi mi ha insegnato a non urlare, a sussurrare, a non spingere la recitazione. Mi ha insegnato che le parole sono importanti fino a un certo punto, che è importante il feedback emotivo. Il concetto di un cinema che si trasmette con le emozioni prima che con le battute. E questo in Easy. Un viaggio facile facile di Andrea Magnani (2017, il film che gli è valso la candidatura al David, ndr) è manifesto. Sii diretto emotivamente, piuttosto che con le parole. Una lezione che serve anche nella vita. A volte ho visto registi in azione e mi sono chiesto: «Ma questo Pupi l’avrebbe fatto?». Ecco, se la risposta era «No» di solito il film faceva schifo.
E questa cosa del “club”?
È frutto del suo lavoro di squadra. Con lui si rema tutti nella stessa direzione, da quando comincia a scrivere a quando il film è uscito. Nessuno va fuori dalla squadra finché il film è in sala. E anche oltre. Io vado a cena da Diego Abatantuono perché ho fatto un film con Pupi. Vedo Micaela Ramazzotti, lei mi abbraccia e mi dice: «Nicola!». Non c’eravamo mai visti prima, ma abbiamo fatto un film con Pupi. Siamo tutti suoi debitori in maniera feroce. Io a Pupi devo tutto. Senza lui e Antonio non sarei niente. Forse mi sarei suicidato. Perché volevo fare solo questo lavoro e lo faccio grazie a loro. Grazie a Pupi, che mi ha preso mentre stavo seduto su una panchina. E non sapeva nemmeno che avessi studiato per fare l’attore.