Poesie scelte
Howard Phillips LovecraftL’antica via
Nessuna mano venne a trattenermi
la notte che trovai l’antica via
sulla collina, e volli rivedere
i campi sempre vivi nel ricordo.
L’albero, il muro: ben li conoscevo,
i tetti ed i frutteti ritornavano
in modo familiare alla mia mente,
come da un tempo ancora non remoto.
Sapevo quali ombre avrebbe steso
la tarda luna prossima a levarsi
di Zaman’s Hill dietro le spalle, e come
di lì a tre ore tutta la vallata
alla sua luce si sarebbe aperta.
Quando il sentiero prese a inerpicarsi
e parve terminare contro il cielo,
non temetti ciò che m’aspettava
oltre il profilo netto della cresta.
Spedito camminai, mentre la notte
nella fosforescenza impallidiva,
e il muro e il sommo delle fattorie
erano ultraterreni nel chiarore.
Una pietra miliare conosciuta –
«Due miglia a Dunwich»: dopo dieci passi
sapevo che avrei visto comparire
in lontananza i tetti e il campanile…
Nessuna mano venne a trattenermi
la notte in cui trovai l’antica via.
Oltrepassai la cresta del sentiero
ed ecco spalancarsi alla mia vista
una valle di morti e di dannati:
e già su Zaman’s Hill s’era levata
tenue una falce di maligna luna
che illuminava il muschio ed il rovame
avvinti a mura cupe e diroccate.
Vagavano nei campi i fuochi fatui,
ed esalata da paludi infette
una nebbia smentiva ogni pensiero
che avessi conosciuto mai quel luogo.
E da quella visione di follìa
capii l’insussistenza del passato –
e che non mi trovavo sul sentiero
che discendeva nella valle morta.
C’era nebbia tutt’intorno – e a me davanti
la Galassia infinita e le sue stelle…
nessuna mano venne a trattenermi
la notte che trovai l’antica via.
Composta nel dicembre del 1929, The ancient track venne scritta subito prima della famosa serie di sonetti dal titolo collettivo Fungi from Yuggoth. Venne pubblicata sul numero di marzo 1930 del mensile «Weird Tales». L’ispirazione sembra risalire a una nota del Commonplace book, il libro d’appunti nel quale Lovecraft annotava i propri pensieri estemporanei e fugaci, non datata ma precedente il 1919, che dice: «Il narratore cammina su di un sentiero di campagna che gli è poco familiare, e perviene a una regione strana e irreale». È la stessa intuizione espressa anche nell’incipit del racconto The Dunwich horror, e non è un caso che, in tutta l’opera di Lovecraft, oltre che nella storia in questione, la sinistra cittadina sia nominata soltanto in questa lirica. Al trentaseiesimo verso ho tradotto con «fuochi fatui» il termine originale fox-fire, letteralmente «fuoco di volpe». In una nota del Commonplace book datata 1925, Lovecraft c’informa: «Nel New England, la fosforescenza del legno che marcisce viene chiamata fox-fire». L’immagine del solitario viandante che, con inconfessato timore, s’incammina per sentieri ignoti e paurosi in una notte simbolicamente sempre più oscura è persistente nell’immaginario lovecraftiano. Lo scrittore vi dedica anche una delle prime liriche della sua maturità, The rutted road, scritta all’inizio del 1917, che qui traduco col titolo La via carraia.
La via carraia
Cala la nebbia livida d’autunno
la sua gelida notte distendendo;
rabbrividisce il corvo mentre vola;
la Via Carraia snoda il suo cammino
tra solitari pascoli: ai suoi bordi
nudi si levan gli olmi contro il cielo.
I fondi solchi incisi dalle ruote
muti puntano avanti, sul terreno
che si dilata fino alla Visione,
e svegliano pensieri dal profondo
(un desiderio ch’è quasi un timore)
al cui prospetto cede Fantasia.
L’ombra che scende rapida mi spinge
ad affrettarmi lungo i solchi antichi
che come me già tanti hanno calcato;
un grillo mi deride col suo canto…
Non so, ma questa via mi fa paura,
e vorrei risparmiarmi di seguirla.
Ma su di essa, col suo carro a buoi,
già quante volte il rustico ignorante
ha transitato, senza mutar strada:
ed io, che valgo più d’uno zappatore,
dovrei tirare l’alba scarpinando
su una via laterale, con più luce?
Con occhi incerti sondo la brughiera
che sempre più si va facendo scura;
chissà, forse laggiù dietro quel colle
si celan meraviglie insospettate:
ma non mi fa deviar la Via Carraia,
e mi sospinge verso il mio Destino.
Perciò, pur riluttante, fra quei tronchi
che si levano alti devo andare,
nella mistica notte procedendo;
viaggio spedito, fra i cespugli stenti…
ma lì, davanti a me, dopo la curva,
che cosa attende il mio sguardo turbato?
Son territori più felici quelli
che con forza m’invitano a raggiungerli?
M’ha approntato il Destino i più bei doni?
Che m’aspetta davanti, per accogliere
la mia anima stanca e disillusa?
Che c’è laggiù che temo di sapere?
Anche questa lirica, come la precedente, è palese metafora dell’esistenza umana, che per Lovecraft – assediato dalla povertà, dalla ricorrente cattiva salute e dal senso d’inadeguatezza nei confronti del mondo comune – fu un cammino doloroso verso una meta ultima che, malgrado il suo conclamato razionalismo materialista, nel fondo dell’animo temeva. Come unica evasione troviamo la fantasia, che peraltro suggeriva anch’essa visioni inquietanti, come quella della lirica Nemesis, del 1917.
Nemesis
Oltre le cupe soglie del sopore
vigilate dai ghoul,
oltre i notturni abissi della luna,
ho vissuto esistenze senza numero,
ho sondato ogni cosa col mio sguardo;
e grido disperato ad ogni aurora perché divento folle dal terrore.
Ruotavo con la Terra al suo mattino,
quando il cielo era un turbine di fiamma;
ho visto il cosmo oscuro spalancarsi
là dove neri mondi vagan senza scopo,
vagano nell’orrore inavvertiti, senza fama né nome né coscienza.
Ho aleggiato su mari sconfinati,
sotto sinistri cieli grigio-piombo
lacerati da folgori improvvise,
fra tuoni come grida di terrore,
con gemiti di dèmoni invisibili emersi dalle acque di smeraldo.
Come un daino ho sostato sotto gli archi
delle grandi foreste primordiali,
ove s’avverte la Presenza Immonda
in luoghi dagli spettri anche evitati,
e alla Cosa che Avvinghia son sfuggito, a Colei che sogghigna dietro i rami.
Sui monti crivellati di caverne
che si levano squallidi dal piano
ho bevuto acque infette dalle rane,
che filtran dagli stagni e dagli scoli;
ed in fonti sulfuree maledette ho visto cose che non oso dire.
Ho visto un gran palazzo cinto d’edera,
nelle sue sale vuote sono entrato,
dove la luna alta sulle valli
proietta strane ombre sulle mura:
apparenze deformi ed intrecciate, il cui ricordo non oso richiamare.
Ho spiato dubbioso nelle case,
da giardini in rovina circondate,
di un villaggio maledetto cinto
da un lugubre terreno sepolcrale:
e dai lunghi filari d’urne bianche ho ascoltato venire voci arcane.
Ho sostato fra tombe di millenni,
ho volato su vette di terrore
là dove infuria l’Erebo fumante,
dove s’ergono picchi desolati;
e in regni dove il sole del deserto consuma ciò che mai può rallegrare.
Ero già vecchio quando i Faraoni
ascesero sul trono presso il Nilo;
ero vecchio nell’epoca lontana
in cui io solo davo corpo al male,
ed innocente aveva sede l’Uomo nell’isola felice dell’Antartide.
Oh, grande fu la colpa del mio spirito,
e atroce è la vendetta del destino.
Né la pietà del Cielo può placarmi,
né il sepolcro può darmi alcun riposo:
da ere interminate per me battono le ali d’un dolore sconfinato.
Oltre le cupe soglie del sopore
vigilate dai ghoul,
oltre i notturni abissi della luna,
ho vissuto esistenze senza numero,
ho sondato ogni cosa col mio sguardo:
e grido disperato ad ogni aurora perché divento folle dal terrore.
In una lettera all’amico Rheinhart Kleiner dell’8 novembre 1917, Lovecraft racconta che Nemesis, frutto di un collage di suoi sogni, è stata scritta «nelle sinistre prime ore d’una cupa mattina del giorno dopo Ognissanti, il che potrebbe dar conto del tono e dell’atmosfera. Presenta il concetto, accettabile per la mente ortodossa, che gli incubi costituiscano la punizione inflitta all’anima per colpe commesse in una precedente incarnazione – forse milioni d’anni prima!». L’accenno alla reincarnazione, fatto per celia, è stato preso sul serio dalla schiera di quanti da tempo sostengono che Lovecraft fosse un vero “adepto” delle arti occulte, e nelle sue opere avesse adombrato “segreti” improfanabili. Su una sciocchezza del genere sono state scritte decine di libri.
In altre liriche, segnate dalla stessa ispirazione, Lovecraft impiegò un “taglio” più narrativo, tanto da dar luogo a un vero mini-racconto. Un esempio è The outpost, del novembre 1929, qui tradotto come L’avamposto.
L’avamposto
Quando il vespro rinfresca la corrente
del fiume limaccioso
e l’ombra s’impossessa della giungla,
il palazzo reale di Zimbabwe
sfolgora di lanterne
per un Re che ha paura di sognare.
Fra quanta gente ha il mondo, lui soltanto,
nella palude infetta
da cui persino la serpe sta lontano
ha osato penetrare, e procedendo
verso il sole al tramonto
nell’immensa savana s’è addentrato.
Nessuno sguardo prima v’era giunto
dal giorno che agli umani
furon concessi gli occhi per vedere –
ma lì, mentre il fulgore del tramonto
si trasformava in notte,
gli apparve il Santuario degli Antichi.
All’orizzonte, scorse strane torri
che s’alzavan dal piano,
e muraglie e bastioni tutt’intorno
a cupole remote che infettavano
il deserto terreno
come funghi lebbrosi dopo l’acqua.
Una luna maligna strisciò in cielo
illuminando luoghi
in cui la vita non può aver ricetto;
e fece illividire in lontananza
una volta e una rocca
senza finestre a dall’aspetto torvo.
E quel Re coraggioso che fanciullo
senza tema correva
tra ruderi ancestrali irti di rovi,
tremò nel cuore a quel che vide: certo
che quella morta bolgia
all’uomo mai non fosse appartenuta.
Forme inumane viste solo a mezzo
e per metà intuite,
metà concrete e per metà di fumo,
filtravano da abissi senza stelle
spalancati nel cielo
in quelle mura squallide e impestate.
E da quel territorio di follìa
tornavano all’abisso
in un nero fermento amorfe schiere
stringendo negli artigli le macerie
dei sogni umani e delle
cose che l’uomo aveva conosciuto.
Gli antichi Pescatori dell’Altrove…
Non raccontano forse gli sciamani
di come abbian trovato i vecchi mondi
e traggano da essi ogni bottino
strappandone la preda
che suscita la loro brama immonda?
Da celati avamposti spaventosi
allungano lo sguardo
su milioni di mondi nello spazio;
ogni razza vivente li aborrisce,
ed intatti s’avvolgono
nella loro perpetua solitudine.
Madido di sudore, il temerario
strisciando tornò indietro
alla palude invisa anche ai serpenti,
e prima del ritorno dell’aurora
era di nuovo a casa
in salvo nel palazzo che dormiva.
Prender la via nessun l’aveva scorto
né ritornare all’alba,
né sulla carne aveva segno alcuno
di quanto aveva visto nelle tenebre
del luogo maledetto.
Ma dal suo sonno ogni pace è svanita.
Quando il vespro rinfresca la corrente
del fiume limaccioso
e l’ombra s’impossessa della giungla
il palazzo reale di Zimbabwe
sfolgora di lanterne
per un Re che ha paura di sognare.
Dei misteriosi Pescatori avidi dei sogni umani Lovecraft tornò a parlare nel racconto The winged death, scritto per conto di Hazel Heald: «I negri del luogo non vogliono saperne di avvicinarsi alla zona… La giungla è pestilenziale, ribolle di miasmi. Tutti i laghi sono d’acqua putrida. Ad un certo punto abbiamo trovato rovine ciclopiche… Dicono che quei monumenti megalitici siano più antichi dell’uomo e costituiscano una base o avamposto dei “Pescatori dell’Altrove” (chissà che vuol dire) e delle divinità spaventose Tsadogwa e Clulu. Pare abbiano ancora un influsso maligno…».
Un analogo taglio “narrativo” ha la lirica The messenger, la cui origine è abbastanza singolare. Nel 1929, al giornalista B. K. Hart, titolare di una rubrica sul «Providence Journal», capitò di leggere uno dei più noti racconti di Lovecraft, The call of Cthulhu. Scoprì che il protagonista del racconto abitava nello stesso palazzo (un edificio storico di Providence) in cui aveva abitato anche lui. Nella sua rubrica del 30 novembre, fece finta di prendersela con lo scrittore, che conosceva, e lanciò un’oscura minaccia: «Non mi darò pace finché, dopo aver fatto lega con mostri e ghoul, non avrò fatto incarnare almeno un grosso e minaccioso spettro, mandandolo a compiere la mia vendetta davanti alla sua stessa porta… E lo farò ululare orribilmente ogni mattina, alle tre in punto, con annesso scuotimento di catene». Che altro poteva fare Lovecraft se non scrivere, quella stessa notte alle tre, la sua poesia in risposta? Hart ne fu divertito, e pubblicò la lirica nella rubrica del 3 dicembre 1929. La traduciamo col titolo Il messaggero.
Il messaggero
Quella notte alle tre sarebbe giunta
(così m’aveva detto)
la Cosa immonda che nel cimitero
sulla collina aveva la dimora;
ma seduto davanti al mio camino,
d’un bel fuoco di quercia nel chiarore,
mi ripetevo con finta sicurezza
che quella era soltanto una sciocchezza.
Era stata soltanto, mi dicevo,
una vana minaccia
una facezia pronunziata a vuoto
da chi certo ignorava l’esistenza
del Segno degli Antichi, concepito
nella notte dei tempi e che poteva
le forme spaventose scatenare
che son use le tenebre infestare.
Non aveva di certo detto il vero
ma ugualmente accesi
d’una seconda lampada la luce,
mentre dal letto del Seekonk uscivano
le stelle del Leone, e un campanile
le tre batteva con rintocchi lenti;
nel caminetto nel frattempo il fuoco
s’andava assottigliando a poco a poco.
E poi s’udì alla porta quel raspare…
e la folle realtà
mi venne come fiamma a consumare!
La poesia appena riportata contiene due note, vergate dallo stesso Lovecraft. Nella prima, relativa al cimitero del terzo verso della prima strofa, può leggersi: «L’antico cimitero di St. John, dove le radici degli alberi vetusti s’avvinghiano a lapidi e altari che risalgono fino al 1723. Si trova sulla ripida collina situata a cinque isolati da Barnes Street n. 10. È del tutto nascosto alle strade frequentate dal pubblico dal quadrilatero formato dall’antica chiesa e dagli edifici diocesani. In tutti gli Stati Uniti non esiste una più antica e pittoresca necropoli. È il prototipo dell’ambientazione del mio racconto The statement of Randolph Carter». La seconda, invece, collocata dopo il «letto del Seekonk», al quarto verso dell’ultima strofa, recita: «Il fiume che segna il confine esterno della provincia di Providence. Sulle sue rive coperte di boschi, e immutate, sin dall’infanzia mi reco spesso a passeggiare».
Acrostico in memoria di Poe
Eterne si distendono le ombre
Di secoli remoti, in preda ai sogni;
Grandi olmi si levan fra le lapidi
Alti su un mondo di sapienze antiche.
Riemergon le memorie del passato:
Anche le foglie morte ne sussurrano,
Le vanità d’un tempo ricordando.
Là s’aggira un fantasma solitario
Attorno ai marmi conosciuti in vita;
Nessuno sguardo lo discerne, eppure
Piove dal tempo il suo lamento antico.
Ormai soltanto i maghi sanno scorgere
Entro i sepolcri l’ombra d’Edgar Poe.
Il 5 agosto 1936 Lovecraft portò due amici, Adolphe de Castro e Robert H. Barlow, a visitare l’antico cimitero di St. John, che abbiamo già conosciuto ne Il messaggero. Lì, ispirati dall’indubbia suggestività del luogo, decisero di scrivere ciascuno un acrostico dedicato ad Edgar Allan Poe. Ho tradotto quello di Lovecraft, che si dilettava spesso nel comporre liriche in omaggio a “colleghi” nel mondo del fantastico. Di seguito, altri due esempi, dedicati al pittore Virgil Finlay e allo scrittore Clark Ashton Smith.
A Virgil Finlay
In abissi insondabili martellano
le forme della notte, avide, odiose,
d’infule singolari coronate;
ali di buio palpitano in voli
Nel vuoto sconfinato senza sole,
da un orbe a un altro.
Nessuno ardisce il nome pronunziare
del cosmo da cui vengono, o fermare
lo sguardo fisso su quei volti amorfi,
o le formule arcane proferire
che con forza suprema le trarrebbero
dagl’inferni del caos.
Eppure sulla pagina d’un libro
il nostro sguardo sbigottito trova
orride forme che lo sguardo umano
non dovrebbe vedere; brevi lampi
delle entità blasfeme la cui effigie
sparge morte e follìa per l’infinito.
Che pittore è mai questo che s’inoltra,
solo, nei neri abissi e ne rivela
gli sconfinati orrori?
A Klarkash-Ton, signore di Averoigne
Annerita dal tempo, un’alta torre
contro un banco di nubi profilata;
alla sua base preme la foresta,
che da nessun sentiero è attraversata.
Un oscuro silenzio, il muschio e il verde
serrano grigie lastre di granito
rovesciate sul suolo, che s’ergevano
in gran cerchi di pietra.
Non s’ode un passo, non s’avverte il canto
d’un uccello soltanto che risvegli
in quella cattedrale spaventosa
la sempiterna notte: anche se spesso
l’aria pesante trema per il frullo
d’un paio d’ali e nella notte splende
una pallida luce.
In quella rocca, solo ed in disparte,
vive colui che con le mani forgia
idoli spaventosi che raggelano
il mondo col terrore; le cui rune
in toni di paura ci disvelano
quali cose s’annidino in agguato
al di là degli abissi delle stelle:
d’Averoigne il tenebroso Sire –
le cui finestre sono spalancate
su miniere di sogni la cui vista
nessuno sguardo umano può patire!