"Gallo cedrone". Feroci, di nome e di fatto

Pedro Armocida
Carlo Verdone n. 12/2019

Armando Feroci. Da qui, dal nome e cognome del protagonista, conviene partire per cercare di capire l’intera operazione di Carlo Verdone, che in Gallo cedrone (1998) sembra ritornare al passato della messa in scena dei suoi caratteri peculiari. L’apparenza inganna, così come il gruppo di scrittura che torna a essere quello classico – Leonardo Benvenuti, Piero De Bernardi, naturalmente lo stesso Verdone qui, però, con l’aggiunta di Pasquale Plastino – ma compone una sceneggiatura tra le più cattive (feroci?) di tutto il suo cinema. Naturalmente il gioco di parole non può essere casuale.
Siamo nel 1998 ma Gallo cedrone non è interessato a intercettare la contemporaneità, appena evocata solo in una strepitosa battuta all’inizio del film – «Anvedi che bel sito, te c’hanno mai cliccato sopra?» – e in una alla fine quando il politico candidato alle amministrative nella Capitale parla di «questione morale». Armando è invece il tipico personaggio verdoniano, che a bordo di una spider non è più in cerca di brividi oltrecortina – come in Un sacco bello (1980) nell’episodio del coatto Enzo, che in 36 ore dall’Eur fantastica di arrivare a Cracovia con l’amico di Martucci appena rimediato – ma è diventato un molestatore seriale di giovani donne approcciate verbalmente con la decappottabile rigorosamente in movimento e sempre da dietro. E fino a qui siamo in territori già esplorati e ampiamente riconosciuti dagli spettatori abituali di Verdone, che iniziano a entrare subito in empatia con un personaggio apparso solo e in cerca di compagnia.
A favorire l’immedesimazione ci pensa anche l’assunto iniziale che lo vuole volontario della Croce Rossa in Africa, ostaggio di un gruppo di islamici integralisti che lo condanna a morte. I mass media si interessano al caso e iniziano a chiedere di lui e del suo passato a tutti quelli che l’hanno conosciuto. Parte da qui un’interessantissima struttura a flashback che lega direttamente il film a uno dei capolavori di Steno, Un americano a Roma (1954), ritraendo anche una serie di facce da “romani de Roma” che rimane impressa quasi come se si trattasse di un documentario antropologico. Con una ricerca spasmodica della risata piuttosto singolare che, però, è il modo di puntellare l’architrave su cui si regge tutta la commedia.
Commedia che appena si allontana dai flashback delle sequenze di Armando in auto («Anvedi che bel panettone, quando lo scartamo?»; «Te posso offri’ ‘na bibita, con questa arsura?», «Sì, per dartela in faccia!», «Selvatica eh?»; «Perché non te ne vai affanculo?», «Perché m’hai flashato!»; «Non c’hai più benzina ma c’hai un bel serbatoio, a bella puledra!»), inizia a mostrare dapprima il suo lato agrodolce (memorabile tutto l’episodio di quando Verdone lavora come agente immobiliare, sfoggiando una grande prova di attore) per passare subito dopo alla definitiva conferma non della tragicità – perché così ci troveremmo ancora nel territorio conosciuto dell’empatia – ma propriamente della meschinità di un personaggio alla fine veramente difficile da salvare (anche quando la sua mitomania – vuol far credere di essere il figlio di Elvis Presley – dovrebbe rendere lo spettatore più indulgente).
Così come è difficile stabilire se Verdone e i suoi amici sceneggiatori abbiamo voluto costruire il personaggio di un italiano medio. Perché, a ben vedere, Armando Feroci risulta essere veramente un personaggio sui generis, che difficilmente può rappresentare dei caratteri precipui dell’arcitaliano così ben rappresentati in passato e nei film futuri. Siamo piuttosto nel campo della rappresentazione di un carattere che anticipa un certo individualismo dilagante. Tutto quello che fa, Feroci lo fa per sé, per i suoi interessi, i suoi gusti contingenti. Da qui prende forma tutta la seconda parte del film, scegliendo di soffermarsi sulla storia più di capriccio che d’amore che porta Armando a rubare Martina Saviotti, la moglie non vedente –interpretata da una perfetta Regina Orioli – al fratello Franco (Paolo Triestino, sempre strepitoso). «So’ el brother», così si annuncia nella casa con studio annesso del ricco fratello dentista dove arriva con la nuova capigliatura «paglia e fieno che se fa a Miami». È soprattutto in questa entrata nella casa borghese che Feroci dà il peggio di sé, mortificando il fratello fino a fargli credere che il papà – buonanima – «c’aveva le chiappe chiacchierate». Per poi interessarsi alla bella moglie cieca (anche su questo non risparmia le battute: «Avevo pensato che era cecoslovacca, della Repubblica Ceca, che era una Ceca de Praga») che sorprende la mattina dormendo e siccome lui, novello gallo cedrone, quando vede una femmina da dietro non resiste, le si corica accanto fingendo di essere il marito, fino a quando non si sente in lontananza il rumore di un trapano da dentista e lei – ma lo spettatore già lo sapeva – capisce trattarsi del cognato e, per nulla sorpresa, lo invita a continuare.
La sequenza, particolarmente scabrosa, non tanto per quello che mostra ma per la situazione che crea, è abbastanza atipica nel cinema di Verdone. Anche per questo motivo Gallo cedrone può essere letto come un film cerniera, di passaggio tra un prima e un dopo, abbastanza netto nella filmografia del regista e attore romano. Non ritroveremo più un personaggio scritto in maniera così cattiva come questo Armando Feroci che riporta Martina, dopo averla usata anche facendola esercitare come spogliarellista («Tu non sarai mai troia perché c’hai una classe innata, porca mignotta è così»), nella gabbia, dorata certo ma pur sempre una prigione, del fratello. E non saranno certo le insistenze da slapstick – la donna di servizio colpita in testa, lui investito da Martina che prova a guidare “alla cieca” – a far dimenticare l’amarezza di un personaggio profondamente egoista.
In questo senso la conclusione è emblematica perché, per farsi davvero e fino in fondo gli affari suoi, Armando Feroci decide di buttarsi in politica e si candida alle amministrative a Roma. Verdone, insieme agli sceneggiatori, anticipa il nuovo populismo che solo qualche anno dopo Antonio Albanese rappresenterà in maniera ancora più compiuta con il personaggio del politico calabrese corrotto e depravato Cetto La Qualunque. Così, quando Feroci farà il celebre discorso sul Tevere, un fiume che oramai «nun ce serve» e che sarebbe meglio trasformare in una lingua d’asfalto a tre corsie per azzerare il traffico, anche noi, per un momento, quasi ci crediamo: «Signori, se scóre! Finalmente se scóre a Roma!». Un sogno! Così come vorremmo credere alla frase finale che ribalta Dante: «Con me si va nella città ridente, con me si va nell’eterno splendore».
Più di vent’anni dopo la situazione non è affatto cambiata. Ma Verdone già lo sapeva.

 

CAST & CREDITS

Regia: Carlo Verdone; soggetto: Leonardo Benvenuti, Piero De Bernardi, Pasquale Plastino, Carlo Verdone; sceneggiatura: Leonardo Benvenuti, Piero De Bernardi, Pasquale Plastino, Carlo Verdone; fotografia: Danilo Desideri; scenografia: Maurizio Marchitelli; costumi: Tatiana Romanoff; montaggio: Antonio Siciliano; musiche: Fabio Liberatori; interpreti: Carlo Verdone (Armando Feroci), Regina Orioli (Martina Saviotti), Paolo Triestino (Franco Feroci), Ines Nobili (Marcella Feroci), Enrica Rosso (Egle), Maria Luisa Busi (se stessa); produzione: Vittorio Cecchi Gori e Rita Rusic per Cecchi Gori Group Tiger Cinematografica; origine: Italia, 1998; durata: 94’; home video: dvd CG Entertainment, Blu-ray inedito; colonna sonora: Delabel.

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