"Io e mia sorella". Ridere per non piangere, sopravvivere alla famiglia
Ilaria FloreanoSe chi, oggi, si impegna a difendere la “famiglia tradizionale” volesse sostenere la propria tesi con un film, troverebbe in Io e mia sorella un valido alleato: perché chi altri potrebbe sopportare le bizze di una sorella bigama, con figlio a carico, sessualmente allegra, irascibile, incostante, facile allo sputo e al vilipendio di autorità, se non un fratello?
Il film di Carlo Verdone con co-protagonista Ornella Muti – che lo girò mentre era incinta – incassò quasi 9 milioni di lire conquistando l’ottavo posto al box office della stagione 1987-1988, ma ancora adesso rappresenta uno dei lavori più felici del suo autore, che vi si sbizzarrì sia per ambientazioni (da Spoleto a Brighton, passando per Budapest), sia per intuizioni narrative e registiche.
Il primo movimento di macchina, solenne in avanti, ci introduce a un teatro dove il mite clarinettista Carlo Piergentili sta partecipando insieme alla moglie violoncellista Serena alle prove generali di un concerto. Tutto va bene finché Carlo non riceve una chiamata che lo conduce, attraverso l’elegante passaggio della musica classica dal piano diegetico a quello extra-diegetico, al capezzale della madre morente, i cui ultimi pensieri – «L’hai trovata tua sorella? Stalle vicino. Promettimelo» – ricevono una risposta secca – «Non si sa nemmeno dove sta, ’sta stronza» – ma certamente influenzeranno ciò che accadrà.
È bastata una manciata di minuti per definire due interi universi di senso: la tranquilla vita casalinga in una cittadina polverosa del fratello; la screanzata sarabanda esistenziale in giro per il mondo della sorella.
In questa fase della sua carriera Verdone ha già trovato la quadratura del cerchio tanto della sua comicità peculiare quanto del suo modo di girare e, sempre nei primi minuti, strappa una risata sillabando al telefono un cognome greco cui è destinato un telegramma molto triste, e a rappresentare il passaggio della genitrice da «gravissima» a «deceduta» restando immobile con la macchina da presa sul corridoio vuoto in cui il suo personaggio cammina, prima tornando alla e poi provenendo dalla stanza in cui è avvenuta la cosa più spaventosa di tutte (modalità tra le più raffinate mai viste in una commedia italiana anni Ottanta).
Poi arriva Silvia come una folata di vento dai lunghi capelli che spariglia le carte, trasportata da una piccola utilitaria scalcagnata che la deposita sulla grande piazza di Spoleto dove si è appena concluso il funerale della mamma. Carlo stringe forte Silvia, che si dispera per non essere arrivata prima e poi chiede agli intervenuti se hanno gettoni per fare una telefonata. Di nuovo Verdone dosa con equilibrio una scena dal perfetto british humour: mentre Silvia con i suoi gettoni va a una cabina e comincia a urlare nella cornetta, Carlo deve sedare gli animi di parenti e conoscenti i quali, dopo aver offerto le più sentite condoglianze (pronunciate in sequenza a comporre il bigino del bravo ospite di esequie – con i complimenti di Pasquale Festa Campanile e del suo Povero Piero), cominciano a sbuffare lamentandosi. Di nuovo in una singola sequenza Verdone condensa le coordinate della sua traiettoria drammaturgica: Silvia che non si ricorda del vecchio zio, che se ne frega delle circostanze, che ha casini da risolvere, Carlo che la aspetta, la asseconda, la protegge – per non parlare del primo scambio di battute tra cognate, siglato da un bacio gelido.
Il resto del film sarà tutto un saliscendi di emozioni all’inseguimento della donna infantile, egoista, istintiva fino alla crudeltà, che si affeziona a gattini spauriti e disattende ogni regola della buona convivenza, risolvendo i conflitti chiedendo se può mangiare la frittata. Sempre in fuga, incerta tra desiderio di farsi guidare («Ditemi voi quello che devo fare!») e volontà di ribellione («La vita è mia e non accetto consigli da nessuno, chiaro?»), in balia di uomini che vogliono decidere per lei e che lei poi abbandona senza tante spiegazioni. Un personaggio tutt’altro che facile da sbozzare e interpretare, a rischio com’è di risultare caricaturale e antipatico: ma la Muti colpisce nel segno aiutata, come capita spesso ai co-protagonisti di Verdone, da quei momenti di pausa dal vortice della comicità in cui vengono rivelate fragilità e paure, insomma le crepe di ogni buon pagliaccio. In questo caso, la nostalgia verso un figlio abbandonato e il timore più atroce: «Che se ne fa di una madre così?».
Viaggiare fino a Budapest per riprendersi il piccolo Zoltan – perché «se tu non ti senti madre, io mi sento molto zio» – diventa l’occasione per un’avventura «oltre cortina» che regala scene memorabili, tra cui quella del rapimento del bambino dall’orfanotrofio è un piccolo cult (Carlo che, facendo piedino sotto il tavolo atteggiandosi a mandrillo, cade con la sedia all’indietro; Carlo che segnala alla sorella di aver compiuto la missione con un accendino e dà fuoco alla tenda, «Oddio mo’ s’alimenta!»; Carlo che consegna a sua sorella una bambina e al secondo tentativo sentenzia: «Se non è questo, adottalo»). Se la parentesi finale a Brighton sembra soprattutto l’occasione per dichiarare l’anglofilia di Verdone e mettere in scena un dialogo malinconico dissolvendolo nel vento che batte le scogliere bianche di Cornovaglia, la scelta dell’Ungheria, nel 1987, è più significativa, dando lo spunto per battute («Ma chi deve parla’, Gorbachev?») e situazioni che restituiscono il sapore del tempo e mostrano la sensibilità allo Zeitgeist del regista: l’“educatrice” dell’istituto in cui è stato parcheggiato Zoltan, rumena, che rimpiange il suo «amore italiano» e si getta nelle braccia di Carlo con la segreta speranza di poterlo raggiungere in Italia, il matrimonio-lampo di Silvia con il campione di tuffi dell’Est che rievoca una pratica all’epoca frequente e dalle conseguenze pericolose, come tre anni dopo avrebbe raccontato anche Occhio alla perestrojka…
Nel marasma di amanti, litigi, riconciliazioni resta un fatto: l’ultima parola pronunciata nel film è «Papà». La dice Zoltan per chiamare Carlo: cioè il fratello che, nonostante non fosse “giusto”, ha sempre aiutato sua sorella, ha «continuato a volerle bene», fino a farsi mandare a quel paese dalla moglie e incassare con un sorriso anche l’ultima assurdità di Silvia (che commenta la scelta della cognata con un «dovevi aspettartelo, mica è facile vivere con te Carlo»); cioè lo zio la cui imitazione del coniglietto prima ha spaventato il bambino e qualche mese dopo è diventato il suo gioco preferito (bella pinza di sceneggiatura, un po’ come quella magistrale “del french toast” di Dustin Hoffman in Kramer contro Kramer [1979]).
Zoltan dice «papà» e Carlo istintivamente si gira, perché sì, è lui il papà. Perché sì, la famiglia è il sangue, ma soprattutto è un esserci e un restare. Nonostante tutto.
CAST & CREDITS
Regia: Carlo Verdone; soggetto: Leonardo Benvenuti, Piero De Bernardi, Carlo Verdone; sceneggiatura: Leonardo Benvenuti, Piero De Bernardi, Carlo Verdone; fotografia: Danilo Desideri; scenografia: Emilio Baldelli; costumi: Luca Sabatelli; montaggio: Antonio Siciliano; musiche: Fabio Liberatori; interpreti: Carlo Verdone (Carlo Piergentili), Ornella Muti (Silvia Piergentili), Elena Sofia Ricci (Serena), Mariangela Giordano (Nadia), Galeazzo Benti (avvocato Sironi), Tomas Arana (Gábor), Veronica Lazar (giudice dei minori); produzione: Mario e Vittorio Cecchi Gori per C.G. Silver Film; origine: Italia, 1987; durata: 111’; home video: dvd CG Entertainment, Blu-ray inedito; colonna sonora: inedita.