Commissione omicidio. "Il gatto dagli occhi di giada" tra sceneggiatura e film

Claudio Bartolini
Antonio Bido n. 11/2019
Commissione omicidio.

 

I retroscena produttivi di Il gatto dagli occhi di giada (1977), girato nel 1976 da Antonio Bido, sono cosa relativamente nota. Mario e Pietro Bregni – vertici della P.A.C., che finanzia e distribuisce il film – impongono al debuttante regista, inizialmente autore della sceneggiatura insieme al solo Vittorio Schiraldi, una revisione del copione per mano dei “loro” Roberto Natale e Aldo Serio. Il fine di questa intrusione è mitigare l’approccio autoriale e personale di Bido a beneficio di una confezione più vendibile. Più argentiana. Perciò la seconda versione di Commissione omicidio– titolo dichiaratamente provvisorio dello script e destinato a mutare nella furb(esc)a onomastica animalesca finale – presenta una struttura che confina il segmento padovano nelle ultime 50 pagine (nel film l’autore riuscirà a dilatarlo a 30 minuti, equivalenti a un terzo della durata totale) sulle 209 complessive, lasciando ampio spazio alla parte urbana secondo i dettami ormai codificati del thriller italiano.In sede di riprese, poi, al regista saranno imposti piccoli e (in)significanti inserti – su tutti, il close-up con gli occhi del gatto prima di alcuni delitti – del tutto immotivati ai fini drammaturgici, ma tremendamente utili alla confezione pubblicitaria. Ma questa è una storia successiva.

Confrontando minuziosamente la suddetta seconda scrittura e l’opera filmica, la prova schiacciante della manomissione targata P.A.C. salta all’occhio a pagina 83 ed è macroscopica. Il copione è giunto alla scena 40. Nel bel mezzo della descrizione di una stanza, un’annotazione a penna blu irrompe tra due paragrafi dattiloscritti e recita: «Si nota una statuetta: un gatto orientale». Inutile dilungarsi oltre sulla valenza di un simile animale nel contesto del giallo-thrille coevo. Tuttavia, nonostante questo bric-à-brac imposto e posticcio, il copione non perde in vigore e mantiene gran parte della carica eversiva inizialmente riversata su carta da Bido e Schiraldi.

Archiviata la querellesugli interventi esterni, è interessante valutare le principali discrepanze nell’ambito di un complessivo rapporto di fedeltà del girato allo scritto. Innanzitutto l’incipit della sceneggiatura non è quello del film, che prende le mosse nella farmacia – dove avviene il primo delitto – ben prima che il protagonista Lukas (Corrado Pani) entri in scena. Le prime 15 pagine – corrispondenti a 10 scene – dettagliano invece il rapporto da ex fidanzati di Lukas e Mara (Paola Tedesco) che, sul treno notturno da Chiasso a Roma, si reincontrano, consumano un rapporto sessuale nella di lei cabina e si rinfacciano i reciproci torti, riallacciando infine il loro rapporto. L’elisione di questo segmento narrativo dalle riprese – che tornerà nel 1978, in forma diversa, come prologo del successivo Solamente nero(titolo della sceneggiatura di Bido, Marisa Andalò e Domenico Malan: E dietro l’angolo, il male; titolo di lavorazione: E dietro l’angolo il terrore), dove i protagonisti si conosceranno sul convoglio diretto a Venezia – fa parte di un più vasto discorso sulla psicologia sentimentale dell’opera, molto presente su pagina (dove i due tornano ripetutamente – e seriamente – a parlare della loro storia, in scene che non si traducono in film come la 22, ambientata in un piano bar) e nella versione in pellicola liquidata con poche, ironiche battute pronunciate da un gigionesco Lukas e da una Mara molto ridimensionata. Entrambi i protagonisti, in definitiva, vengono indagati in relazione al caso d’omicidi in cui si trovano coinvolti, mentre la loro relazione è data per scontata immediatamente dopo il primo rendez vous nei camerini del cabaret. E proprio durante la sequenza al cabaret scorrono i titoli di testa su schermo – su carta vengono posti ben prima, nel corso del menzionato viaggio in treno – dopo che si è compiuto il primo delitto, dettagliato dalla macchina da presa ben più che da quella per scrivere che, a dirla tutta, lo risolve piuttosto sbrigativamente.

Le successive scene di suspense, al contrario, trovano matematica aderenza a un copione che le descrive con puntiglio: nel caso dell’intrusione del killer a casa di Mara, su pagina trovano spazio indicazioni di regia («CAM. CARR. indietro», «CAM. CARR. IN SOGGETTIVA») e montaggio («STACCO») che vengono poi messe in pratica da Bido e Maurizio Tedesco; l’omicidio Messori viene addirittura descritto nei minimi dettagli di messa in quadro («La CAMERA CARRELLA ora lungo il corridoio con SOGGETTIVA di qualcuno che procede cautamente», si legge a pagina 76), con uno stile di scrittura già intriso di thrilling. L’assassinio di Bozzi, invece, in sceneggiatura è risolto con una semplice e breve descrizione, mentre in pellicola viene architettato da Bido con un complesso e mirabile lavoro sull’alternanza dei punti macchina mediante forsennati tagli di montaggio ammiccanti alla doccia di Psyco di Alfred Hitchcock (1960). Da notare, riguardo questa sequenza, che il copione (p. 159) indica la Toscadi Giacomo Puccinicome opera da accompagnare al delitto in vece del Dies Irae di Giuseppe Verdi, scelto in un secondo momento «per via del suo più forte impatto» (dichiarazione di Bido). In alcuni casi, dunque, l’autore intuisce l’esigenza di costruire la tensione e il delitto tramite invenzioni registiche da congegnare in sede di riprese, mentre in altri dimostra di avere già del tutto in testa l’idea finale d’impaginato.

Sorvolando rapidamente su alcune differenze di poco conto – la scena 46 (p. 97) con flashback sul tentato omicidio di Mara eliminata in quanto didascalica; la scena 67 (p. 134) con doccia della protagonista, sostituita da una versione più pudica e vestita in camera da letto – è necessario invece soffermarsi sull’epilogo, dal cui confronto sinottico emergono due considerazioni. La prima riguarda la dinamica degli eventi che conduce Lukas e Mara nello studio del giudice (Giuseppe Addobbati): nello script Mara e il latitante Ferrante (Franco Citti) vengono descritti nel loro precipitarsi verso quel luogo – interrotto da un’aggressione che mette fuori gioco il secondo e quasi annega la prima, salvata in extremis da una mano misteriosa che, poi, si rivela proprio quella del giudice – al quale giunge poi Lukas che, stupito, trova la compagna tra le grinfie del presunto colpevole, prima che anche il reale killer Carlo (Paolo Malco) faccia il suo ingresso nella stanza; nel film, Lukas arriva al cospetto del giudice ben prima di Mara, che vi irrompe trascinata da Carlo. Mentre il lettore si allinea con il punto di vista di Mara, lo spettatore segue quello di Lukas e si regala per qualche attimo un serrato ed emozionante confronto finale tra i due veri poli emotivi dell’opera. È probabile che si sia optato per quest’ultima soluzione al fine di costruire una maggiore tensione drammaturgica, con tanto di colpo di scena spiazzante sull’identità di Carlo.

La seconda considerazione è invece di carattere morale: se su pagina il giudice uccide il figlio Carlo mentre questi sta per avventarsi su di lui per strappargli di mano la pistola “e fare giustizia”, in pellicola gli spara a sangue freddo, marchiando a fuoco la propria terminale presa di posizione riguardo la colpevolezza della sua prole e, di conseguenza, di se stesso. Le differenti modalità del successivo suicidio del personaggio (nel copione si spara quando Lukas e Mara sono ormai nel cortile, nel film lo fa sotto i loro occhi) non fanno che rimarcare questa drammatica presa di coscienza, nella quale i protagonisti – e lo spettatore – hanno valore testimoniale.

Nonostante le intromissioni della P.A.C. e le parziali rivisitazioni imposte a un lavoro altrimenti ben più personale, Bido riesce insomma a condurre in porto un thriller dotato di grande solidità e di rivoli autoriali, condensati soprattutto nel frammento padovano. In esso, lo sceneggiatore dissemina suggestioni scritte («Alcune vecchiette sgranocchiano pasticcini; sembrano fantasmi di un tempo che fu…», p. 172) e filmate, capaci di sospendere ogni argentianismo da thriller urbano a beneficio di una dimensione rurale che inquieta per sottrazione e rarefazione d’atmosfera. In un simile contesto, risulta quasi inevitabile l’ultima modifica sullo spartito di Commissione omicidio: Lukas, straniato e privato dei punti di riferimento, secondo il copione dovrebbe esplorare Padova a bordo della propria auto, oppure salire ai piani alti degli edifici in ascensore; niente di tutto questo avviene su schermo, dove il protagonista percorre la città veneta soltanto a piedi, del tutto in balìa delle sue suggestioni. Anche questo è essere autori.

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