Vexata quaestio: l’ultima parola. "La casa dalle finestre che ridono" e "Solamente nero"
Alessio Di Rocco & Stefano Raffaele«Io La casa dalle finestre che ridono non l’avevo visto. È probabile che l’avesse visto Domenico Malan, l’autore del soggetto, ma io no»: risponde così Antonio Bido quando gli domandiamo delle analogie tra il suo film, Solamente nero (1978), e quello di Pupi Avati, di due anni precedente. La domanda è lecita giacché, tra le due pellicole, i punti di contatto a livello narrativo sono tanti e tali che difficilmente ci si può appellare alla mera casualità. Ambedue i film si aprono su una scena delittuosa; il protagonista di entrambi si chiama Stefano ed è interpretato dallo stesso attore (Lino Capolicchio); l’omertà e il quadro che nasconde la soluzione dell’intrigo sono altri elementi comuni. Il prete assassino, presente sia nel film di Avati che in quello di Bido, si era già visto in diversi gialli del periodo, da Non si sevizia un paperino di Lucio Fulci (1972) a Sette orchidee macchiate di rosso di Umberto Lenzi (1972) e Chi l’ha vista morire? di Aldo Lado (1972). Anche le ambientazioni sono simili. Bido sceglie di collocare la storia a Murano e Venezia, location di un altro giallo apprezzato dal regista: quel A Venezia… un dicembre rosso shocking di Nicolas Roeg (1973) dal quale Solamente nero recupera alcune atmosfere e l’attore Massimo Serato. Avati gira il suo film nella zona del delta del Po, precisamente a Comacchio.
Ma se le somiglianze narrative sono evidenti, i presupposti e l’approccio degli autori sono diversi, quasi agli antipodi.
Il soggetto di La casa dalle finestre che ridono viene scritto da Pupi e Antonio Avati all’inizio degli anni Settanta, appena dopo la realizzazione di Thomas… gli indemoniati (1969). A quella storia, che mescola la favola nera al giallo, si interessa il produttore Alfredo Cuomo, titolare della Intelefilm. Cuomo vola in America in cerca di finanziatori, ma non trova nessuno interessato al progetto. Non sentendosela di rischiare in proprio, si tira indietro. Il copione finisce in un cassetto fino al 1976, quando i fratelli Avati, per riprendersi dal disastro economico di Bordella – per lo più dovuto al sequestro del film da parte della magistratura – decidono di produrre La casa dalle finestre che ridono in totale autonomia, ma in condizioni di massima ristrettezza economica. Il budget limitato fa sì che il regista rinunci a ogni orpello o divagazione e perfino le singole inquadrature appaiono ragionate e perfettamente adattate alla logica del racconto. Nel riprendere l’accoltellamento del giovane nel prologo (Paolo Gramignano, non accreditato), Avati usa il ralenti e una fotografia virata. L’immagine scorre più lentamente mano a mano che le coltellate vengono inferte, come lentamente la vita scorre via da quel corpo martoriato. L’ultima inquadratura è un fermo immagine che rimanda al dipinto del martirio di San Sebastiano. Lo spettatore, a questo punto del film, non può vedere e non sa ancora che alla scena assiste un pittore intento a ritrarre quella morte atroce, ma tutto nella sequenza – dal colore artefatto al fermo immagine finale – rimanda alla pittura. In un’altra scena compare una donna misteriosa intenta a cogliere fiori al crepuscolo: Avati la inquadra con una luce identica a quella vista nel prologo; e quando nella chiesa, sotto il dipinto di Buono Legnani, compaiono gli stessi fiori che abbiamo visto raccogliere, capiamo che la donna, il dipinto e l’immagine di morte iniziale sono collegati tra loro. Tutto questo Avati ce lo racconta con tre sole inquadrature. Anche i delitti o le sequenze di tensione sono mostrati con pragmatismo, utilizzando una sintassi basata sul campo/controcampo. Difficilmente, anche nelle sequenze più elaborate, viene superato il tetto dei venti tagli di montaggio. Nella defenestrazione di Antonio (Giulio Pizzirani) se ne contano 19; nella scoperta dell’immagine delle due donne nascoste nel dipinto, 20; la morte di Francesca (Francesca Marciano) e quella di Lidio (Pietro Brambilla) si compongono rispettivamente di 14 e 23 tagli di montaggio. Quest’ultima, tecnicamente più complessa, include una soggettiva con incorporato un pianosequenza. Poco prima del finale, quando il protagonista riceve la telefonata che lo farà cadere in trappola, Avati inserisce una panoramica circolare: anche questa è funzionale, perché ci avvisa che di lì a breve i fili della vicenda verranno riannodati e si tornerà al punto di partenza.
Solamente nero nasce da premesse diametralmente opposte. Forte degli oltre 2 miliardi incassati da Il gatto dagli occhi di giada (1977), Antonio Bido ottiene dalla P.A.C. massima libertà creativa e ne approfitta per realizzare un’opera più vicina alle sue volontà d’autore, che guarda più al cinema di Alfred Hitchcock o Marco Bellocchio che a quello di Dario Argento (anche se i riferimenti al maestro italiano del brivido non mancano, dalle soggettive ai dettagli sulle mani guantate). E usa Solamente nero per sperimentare sul linguaggio filmico, anche facendosi prendere la mano. Il prologo è stato spesso paragonato a quello avatiano, ma la similitudine è solo apparente. La sequenza viene realizzata con un procedimento tecnico complesso: lo strangolamento della giovane ragazza è girato a 8 fotogrammi al secondo, così da ottenere una ripresa velocizzata. Tale ripresa è poi rallentata in truka (post-produzione) e dalla pellicola sono espunti alcuni fotogrammi per ottenere un effetto a scatti. Questi artifici visivi documentano il background di un autore che si è fatto le ossa sperimentando con le riprese in Super 8 e che ben conosce la materia, ma lo sforzo tecnico non appare bilanciato da una reale esigenza narrativa.
Da ammiratore del cinema di Hitchcock, Bido racconta che nel concepire la scena dell’uccisione di Giovanni Bozzi in Il gatto dagli occhi di giada (1977) si era prefissato di inserire almeno due tagli di montaggio in più di quanti ne aveva usati il regista inglese nella celebre scena della doccia di Psyco (1960): finirà per metterne 31. In Solamente nero è evidente il tentativo di rilanciare ulteriormente, mettendosi quasi in rapporto dialettico con i maestri. Lo strangolamento della medium (Alina Simoni) a inizio film, cui assiste il prete (Craig Hill) dalla finestra, è ripreso da ogni angolazione possibile. Dei 38 stacchi che compongono la sequenza dell’uccisione del conte Andreani (Massimo Serato), ben cinque sono riservati al volto inerme di una statua di gesso; qui la sintassi cinematografica incorpora tutti gli stilemi linguistici del giallo italiano: soggettive, dettagli, carrellate avanti e indietro, zoom. Esemplare, per capire l’entusiasmo e l’approccio quasi ludico del regista nel concepire le scene di tensione, è la sequenza ambientata nella chiesa, quando al prete cade addosso un crocifisso di gesso a cui qualcuno aveva allentato (o tagliato) la corda che lo teneva eretto. Qui Bido usa lo zoom all’indietro, a schiacciare il personaggio, per dare allo spettatore un senso di minaccia, e scompone la sequenza in ben 49 stacchi, per lo più primi piani di statue e immagini sacre presenti nella chiesa. Ma non sempre la complessità tecnica paga e, a rivedere il film oggi, appaiono molto più efficaci le sequenze dove il virtuosismo è più controllato, come l’uccisione della matrigna di Sandra o del dottor Aloisi, quest’ultima parzialmente ridotta rispetto a come era stata concepita inizialmente a causa di un fermo nella produzione dovuto al sequestro di Aldo Moro, avvenuto proprio il giorno delle riprese di quella scena.
Al di là del lato tecnico, nei due film è differente anche l’uso del commento sonoro. In La casa dalle finestre che ridono Avati mantiene la colonna sonora di Amedeo Tommasi a un livello costante, dando alle sequenze una cadenza quasi ipnotica. All’opposto, in Solamente nero Bido adatta la musica di Stelvio Cipriani al crescendo delle scene e, per ottenere sonorità più violente, ricorre perfino all’aiuto dei Goblin, che si prestano all’operazione pur senza figurare ufficialmente. In questo il regista ha un approccio molto simile a quello di Dario Argento.
Curiosità: la sceneggiatura di La casa dalle finestre che ridono in origine presentava un inizio differente, in cui Stefano arriva in paese in treno e nel vagone incontra per la prima volta Francesca. Apparentemente questo si presenta come un ulteriore punto di contatto con Solamente nero, dato che il film ha praticamente un inizio identico con Stefania Casini al posto di Francesca Marciano. Ma la somiglianza è in questo caso del tutto casuale e involontaria: come ha scoperto Claudio Bartolini, Bido aveva scritto un attacco in treno già per Il gatto degli occhi di giada, ma vi rinunciò in fase di riprese.