"L’ultimo treno della notte". L’insostenibile efferatezza dell’essere
Ruggero AdamovitNella trilogia della crudeltà thriller di Aldo Lado, consumata nel primo quinquennio dei favolosi Settanta, l’apertura di L’ultimo treno della notte, in un’immaginaria visione à rebours, rappresenta forse la scena più destabilizzante. A riguardarla, se non fosse per qualche pantalone a zampa che fa capolino tra le pellicce e i pesanti cappelli brulicanti nello Hoher Markt – cuore dei mercatini natalizi di Vienna – si direbbe una scena girata ieri. L’Ankerhur soprassiede imperturbabile, orologio carillon che scandisce da secoli il copioso via vai nel centro città. Le bancarelle traboccano di oggettistica per turisti e riscaldano i passanti con speziati punch bollenti e glühwine. Il Danubio scorre placido, immutabile cornice di una corsa all’oro che si perpetua ogni Natale da decenni. Nel gelido inverno si affastellano, come formiche, migliaia di persone a celebrare il prosaico rituale dello shopping.
Un quadro paesaggistico, visione dall’alto di un rito comune, in un luogo comune, in un tempo astratto. Potrebbe trattarsi di qualsiasi centro cittadino, in qualsiasi anno del nostro o del secolo scorso. Mancano i cellulari e i selfie, certo, mancano la bava alla bocca del black (dark) friday e gli spintoni dei saldi, ma siamo a Natale e siamo tutti più buoni. Forse. E la visione d’insieme di un rito ossessivo e conosciuto tranquillizza, avvicina il pubblico e lo proietta in un quadro idilliaco e uguale nel tempo.
Ma qualcosa non torna. La pur risibile aggressione al babbo natale alcolizzato, da parte dei due balordi/carnefici coprotagonisti del crescendo di efferatezze, suona come un campanello d’allarme. La sensazione di qualcosa che sta arrivando, qualcosa di sinistro e cupo come un gravido suono d’armonica (memorie di western all’italiana, quel che c’era una volta nel west riecheggia nel cuore borghese della Mitteleuropa…). L’attesa nefasta e il tono ansiogeno incominciano a insinuarsi nello spettatore e a scavare al suo interno una nicchia di fastidio e perturbante, dentro le poderose certezze di familiarità costruite nella pax cittadina.
Unheimlich è la parola. Ambigua, malata. Come questo gioiellino di Lado. Come molti vocaboli teutonici, che raccolgono in poche sillabe interi periodi, il tutto e il senso del tutto. E il suo contrario. Terminologia freudiana per indicare una particolare attitudine della paura, un riflesso preciso del suo ampio spettro. Più precisamente, quel senso di inquietudine che si manifesta quando una cosa, una persona o una situazione viene avvertita come familiare ed estranea allo stesso tempo. In italiano, appunto, perturbante.
È lo scarto che provano le due malcapitate ragazze nel momento dell’agnizione, della presa di coscienza, passando dal flirt adolescenziale con i balordi allo stupro selvaggio. È il senso di straniamento che prova lo spettatore immedesimandosi con la signora perbene (impersonale e anonima, come gli haters sui social, lo sguardo impunemente celato da un’elegante veletta di pizzo nero…), ancorandosi a lei come fanno inizialmente le due ragazze, pallidi cigni sulle rive del Danubio, salvo scoprire che la loro àncora di salvezza, la nostra àncora di salvezza, non è che il viatico per l’abisso, una mole di pietra legata al collo che trascina nei più reconditi recessi dell’orrore.
L’ultimo treno della notte è doppio, ambiguo, sporco e laido. Seduce lo spettatore con giochi ammiccanti di sguardi, lo fa sentire a casa con una entrée fatta di compere, famiglie, fanciulle e signore ammòdo. Caratterizza subito il male come scontro di classe: i proletari sudici e drogati da una parte e le candide benestanti dall’altra, la tranquilla borghesia del pater familias (un luciferino Enrico Maria Salerno), il cenone di Natale con un raffinatissimo parterre di illustri ospiti e pomposissimi discorsi vacui. Poi fa a pezzi lucidamente questa caratterizzazione, questa generalizzazione, attraverso la magistrale figura della suddetta signora perbene, una Macha Méril oggettivamente in stato di grazia, algida nella sua perfidia, aggraziata e sublime come l’abisso di Auerbach, che attrae e atterrisce nel medesimo istante. Attrae i due balordi, su cui ha gioco facile sin dall’inizio. Attrae le ragazze, colombe nelle grinfie di un’aquila reale. Attrae il padre moraleggiante, anestetizzandolo nel finale affinché il cerchio non si chiuda, non si compia la vendetta, gli dèi non siano pienamente soddisfatti. È chi osserva, il Dio. Che Macha attira come un viscido guardone, a godersi lo spettacolo ansimando sulla fredda vetrina dello scompartimento, mentre si consuma l’orrore nell’ultimo vagone. Lo spettatore che guarda, si masturba e scappa, con il senso di colpa cristiano di chi ha commesso peccato. Che spia dalle vetrate la festa dei ricchi consumarsi vorticosa in un parossismo orgiastico e in parallelismo formalmente agghiacciante con la deflorazione della bella Laura D’Angelo. Per poi tornare a casa senza colpo ferire dalla famiglia e dal figlioletto: «Papà ti ha preso un regalo». Non prima di aver denunciato il tutto, sempre anonimamente, da una cabina telefonica, per lavarsi la coscienza.
È un gioco di sguardi, L’ultimo treno della notte. Nel suo esiziale nichilismo, nella sua caustica rabbia che resta dentro, schiumante, nel suo essere senza speranza. Un gioco di pulsioni e di sguardi: eros e thànatos. Il riflesso della lama, la mano che affonda e la luce che si spegne nella cuccetta, mentre si allarga sul volto della signora perbene, sotto la lente deformante del regista, l’espressione orgasmica del piacere. È il piacere dello sguardo. È il potere dello sguardo. Alla fine vince chi guarda e non è guardato. Vince chi si astrae dal gioco e guadagna una comfort zone, una posizione privilegiata da cui godersi impunito lo spettacolo. Chi passa all’azione muore. Come le due ragazze ansiose di assaggiare la vita. Come i due balordi che trascendono il comandamento sottinteso del film, guardare ma non toccare. Come la famiglia borghese, che fino a quando si tiene a distanza, giudicando con sguardo altezzoso, vince facile, ma ritrovatasi a contatto con l’orrore perde la testa. Vince la signora perbene, gran burattinaia e dea ex machina di tutta la storia. E vince su tutti il laido guardone, cui è dato il privilegio di toccare – un assaggio proibito – ma che passa e tace e torna placidamente alle proprie faccende quotidiane, dopo essersi fugacemente calato nella melma più fetida.
Una riflessione di una modernità sconvolgente. Sguardi. Schermi. Protezioni. Tele-visioni e internet. Esperienze mediate. Come guardare ogni sera il telegiornale con i morti e le stragi a tavola, in famiglia, pensando nell’immanente al prossimo boccone da infornare prima di andare a letto felici.
CAST & CREDITS
Regia: Aldo Lado; soggetto: Roberto Infascelli, Ettore Sanzò; sceneggiatura: Aldo Lado, Renato Izzo; fotografia: Gábor Pogány; scenografia: Franco Bottari; costumi: Franco Bottari; montaggio: Alberto Gallitti; musiche: Ennio Morricone; interpreti: Flavio Bucci (Blackie), Gianfranco De Grassi (Curly), Macha Méril (la signora sul treno), Laura D’Angelo (Lisa Stradi), Irene Miracle (Margareth Hoffenbach), Enrico Maria Salerno (Giulio Stradi), Marina Berti (Laura Stradi), Franco Fabrizi (il guardone); produzione: European Incorporation, Rewind Film; origine: Italia, 1975; durata: 91’; home video: dvd CineKult, Blu-ray Koch Media (import Germania); colonna sonora: Cinevox-Delta.