Il cinema anni Ottanta di Carlo ed Enrico Vanzina è un’esperienza narrativa e audiovisiva irreplicabile. L’assioma è incontrovertibile, ma se gli ultimi, irriducibili sostenitori delle teorie sulla semplicità della formula-Vanzina fossero in cerca di prove, queste vengono fornite dalla sequela di “capitoli secondi” che – immediatamente (o quasi) a ruota degli originali vanziniani – l’industria cinematografica italiana immette sul mercato: Sapore di mare 2. Un anno dopo (1983, regia di Bruno Cortini, anche sceneggiatore assieme a Cesare Frugoni); Yuppies 2 (1986, dirige Enrico Oldoini su spartito scritto con Liliana Betti); Sotto il vestito niente II (1988, Dario Piana alla macchina da presa e Sergio Donati a quella per scrivere); Vacanze di Natale ’90 (1990, su copione di Franco Ferrini ed Enrico Oldoini trasformato da quest’ultimo in immagini).
Ad accomunare questi prodotti eterogenei – si spazia dalla pellicola balneare con ambizioni di epopea al comico di gruppo, dal giallo alla commedia delle (e sulle) vacanze invernali – è la perdita di quel je ne sais quoi che contraddistingue i testi dai quali hanno preso le mosse. Di quel tocco in più, cioè, capace di trasformare una tra le tante commedie italiote anni Ottanta in un manifesto generazionale (Sapore di mare, 1983); un film-avanspettacolo in un must imperituro da mandare a memoria per generazioni dapprima a voce, poi tramite i montaggi made in YouTube (Yuppies. I giovani di successo, 1986); un giallo fuori tempo massimo nell’apice del genere nel decennio edonista delle mode e delle modelle, del manierismo depalmiano e della Milano “da bere” (Sotto il vestito niente, 1985); un film-compilation sulle vacanze a Cortina d’Ampezzo nel film-cult per antonomasia (Vacanze di Natale, 1983).
In sintesi, i “capitoli secondi” – cui i fratelli prendono parte soltanto a livello nominale nei soggetti – smarriscono per strada il celebre e mai abbastanza celebrato Vanzina’s touch, quella capacità di rendere unico, e dunque irriproducibile, il film popolare. Gli stessi Vanzina, se glielo si chiedesse, forse non sarebbero in grado di ricreare con facilità l’aria delle loro opere anni Ottanta ed è per questo che la loro filmografia Eighties è così varia e variegata da renderne impossibile una classificazione unitaria. I “capitoli secondi” ufficiali, firmati da Carlo ed Enrico, arrivano non a caso sempre un po’ più in là nel tempo, a bocce ferme, quando giunge l’ora della memoria, della nostalgia, del ritorno uguale eppur diverso ai loro titoli più cari. Ecco allora Vacanze di Natale 2000 nel 1999, Eccezzziunale veramente. Capitolo secondo… me nel 2006, Sotto il vestito niente. L’ultima sfilata nel 2011 e Sapore di te nel 2014, a chiudere cerchi lasciati aperti da sequel “spuri” che del Vanzina’s touch nulla possedevano.
Urge allora comprendere e individuare il senso del tocco vanziniano, chiedersi dove e come sia rintracciabile questa caratteristica capace di porsi come trasversale ai generi, ai filoni, agli interpreti. Due sono, a nostro avviso, le direttrici lungo le quali la peculiarità prende forma e si sviluppa. La prima investe il processo di scrittura, dove i Vanzina collaborano in un continuo percorso di scambio e compenetrazione di idee, emozioni e battute. Le sceneggiature dei loro film – soprattutto anni Ottanta, e soprattutto i quattro titoli ripresi nel futuro prossimo – impattano certamente a livello umoristico, grazie alla creazione di personaggi, dialoghi e slogan che colgono lo spirito del tempo e lo rimasticano mediante una sana e consapevole miscellanea di alto e basso, volgarità dialettali e riferimenti alla cultura d’élite (e già questa caratteristica potrebbe, da sola, giustificare il touch). Tuttavia è nell’ombra nascosta dietro al sorriso che risiede l’unicità vanziniana, in quella malinconia che si insinua sotto la pelle dei protagonisti lungo l’arco narrativo, per fuoriuscire e contagiare lo spettatore in epiloghi agrodolci segnati da quella nostalgia per un tempo vissuto e perduto per sempre che è riflesso, in un certo senso, della stessa nostalgia che spinge i fratelli a tornare spesso sulle orme del loro cinema più sentito, pensato, amato.
Billo, nel finale di Vacanze di Natale che precede la reprise estiva in Sardegna, dopo i bagordi musicali al Vip Club e quelli sessuali nelle stanze dell’Hotel Cristallo resta solo al bar con un barista che, ironicamente, si chiama Felice: «Com’è che diceva Don Backy? Ancora una volta abbiamo rimasti soli». Felice, con rassegnazione, risponde: «Eh sì, quando partono i clienti c’è sempre un po’ di malinconia, come quando finisce una festa e restano solo i bicchieri da lavare. Guarda là che roba, adesso comincia anche a nevicare…». Billo va alla finestra, il suo volto spento e inespressivo è inquadrato attraverso il vetro su cui si riflettono i fiocchi di neve e le montagne, mentre in sottofondo risuona l’iconica I Like Chopin che ci riporta indietro di qualche mezz’ora: alle feste, al pianobar, al Billo festoso e spudorato. Soltanto in apparenza, però, perché Billo usava sesso e musica per soffocare la solitudine che, in filigrana, lo aveva accompagnato per tutta la durata del film tra amplessi mancati, amare considerazioni allo specchio («Vorrà dire che invece di un bianco Natale, passerò un Natale in bianco. Auguri, Billo») e reminiscenze di una gioventù perduta e vissuta a colpi di Mottarelli.
Gli stessi che Luca Carraro mangiava negli anni Sessanta di Sapore di mare, il cui pre-finale – di nuovo posto a chiusura della storia al tempo presente, appena prima del flashforward sul futuro anni Ottanta – ci lascia ancora più attoniti e melanconici. La voce narrante racconta la caducità e la brevitas delle emozioni estive, destinate a scontrarsi con la realtà del ritorno a casa, alla quotidianità, ai tradimenti (degli altri, ma anche dei propri desideri), con l’arrivo delle prime arie autunnali: «Poi, improvvisamente, l’estate svaniva. Da ponente arrivavano grandi nuvole grigie cariche di pioggia, e gli odori acri della pineta si tramutavano in folate di vento freddo». Luca parte con la fidanzata di città abbandonando Marina alla verità, alle ultime ore in quel di Forte dei Marmi, alle lacrime spacciate per gocce di pioggia. Le risate cessano di colpo e le maschere cadono: i clown, in fondo, sono creature tristi, e così sono le sceneggiature dei migliori film di Carlo ed Enrico Vanzina, scrittori clowneschi tanto nel dare gioia per l’istante effimero, quanto nel ricordarsi sempre del dolore che alla gioia fedelmente si accompagna. Senza la malinconia, opere come Vacanze di Natale non sarebbero ciò che sono. Sarebbero cinepanettoni, semmai, come lo sono i capitoli di Enrico Oldoini e Neri Parenti che, dal 1990 in poi, hanno popolato le sale d’Italia inducendo i più a un’erronea sovrapposizione di immaginari tra il capostipite vanziniano e i superficiali seguiti, appiattiti sull’accumulo di battut(acc)e e risate grevi a una dimensione. Anche Sotto il vestito niente, se non sfociasse nel più straziante dei melodrammi amorosi – con quel suicidio finale al ralenti su vetri (e sogni) infranti – sarebbe un giallo come tanti, sebbene connotato con maestrìa e ammantato di una patina haute couture capace di elevarlo a compendio di costume e tendenza.
Ma il Vanzina’s touch non si esaurisce in sede di sceneggiatura, visto e considerato come l’aspetto visivo e registico, nel cinema dei fratelli, sia da considerarsi la naturale estensione di quello narrativo, il giusto e coerente compimento di quanto scritto (come visto nel caso del primo piano su Billo alla finestra).
La regia di Carlo non è invisibile, come spesso si è ripetuto con accezione talvolta positiva (invisibile come a dire in sottrazione), talvolta negativa (invisibile come a dire inesistente). Piuttosto, la regia di Carlo è funzionale, al sevizio di quanto scritto assieme a Enrico. Le inquadrature vanziniane riflettono le tendenze, gli immaginari, le forme del contesto in cui sono immerse e di cui sono imbevute: ora citazioniste (il campionario spazia dal cinema classico a quello coevo alle riprese), ora patinate alla maniera delle riviste e delle tv private, ora invece corpose e dettagliate al fine di racchiudere un mondo in un quadro (basti pensare all’apertura dei regali natalizi in casa Covelli in Vacanze di Natale o al raduno nel Milan Club di Eccezzziunale… veramente [1982]), possiedono una spiccata propensione descrittiva sapendosi trasformare, all’occorrenza, in potenti strumenti per l’elaborazione di icone. Il tocco vanziniano, infatti, si distingue anche e soprattutto per la sua capacità di trasformare in simboli gli elementi minimi di un particolare momento storico, sociale, antropologico.
Ma questa capacità investe anche, se non soprattutto, i luoghi, che nella filmografia anni Ottanta dei fratelli assurgono a co-protagonisti grazie a battute capaci di immortalarli nell’immaginario collettivo («Via della Spiga-Hotel Cristallo di Cortina: 2 ore, 54 minuti e 27 secondi. Alboreto is nothing») o, più spesso, grazie a inquadrature in grado di fissarli in relazione a una condizione sociale o dell’animo specifica.
Nel primo caso sarebbe utile mappare, per esempio, la topografia dello yuppismo impaginata in Yuppies e Via Montenapoleone: da piazza San Babila al “quadrilatero della moda”, dai locali notturni (Nepenta in primis) ai bar del centro fino alle immancabili trasferte a Cortina d’Ampezzo come meta esclusiva dei nuovi e rampanti (finti) ricchi, ogni luogo è restituito tramite le brevi, incisive pennellate di una macchina da presa attenta al dettaglio glamour, alla connotazione fashion, alla potenzialità iconica da trasformare in dato di fatto.
Nel secondo caso, quello emotivo, è in Sotto il vestito niente che risiedono gli indicatori più rilevanti. In particolare, la sequenza dell’inseguimento notturno ai danni della terrorizzata modella Carrie Blynn sfrutta Milano come veicolo di un terrore raggelante, monumentale, opprimente. Il punto macchina dall’alto scelto da Vanzina per inquadrare il personaggio è emblematico: la prospettiva verticale schiaccia la donna, condannandola a morte certa ben prima che il killer la infilzi nella sua stanza all’Hotel Scala. E per enfatizzare maggiormente la resa prospettica, dunque simbolica, il regista colloca la macchina da presa sul tetto di un palazzo adiacente la statua di Alessandro Manzoni in piazza San Fedele. L’elemento scultoreo, immobile, assume la valenza di contrappunto prospettico: è più grande e più in alto rispetto a Carrie, ma comunque più in basso rispetto a un punto di vista esterno che in questo modo si fa demiurgico, ancora più impersonale, soverchiante e terrifico. Il sapiente utilizzo della macchina da presa su spazi restituiti con occhio dechirichiano e insieme argentiano (la scena citata avvicina sensibilmente Sotto il vestito niente alle sequenze di Profondo rosso [1975] girate in piazza CNL a Torino) rende la Milano del giallo vanziniano un elemento archetipico, un indicatore di genere potente tanto quanto la storia o il sangue, se non di più.
Non di sole battute, slogan o situazioni, dunque, vive il Vanzina’s touch, inconfondibile marchio drammaturgico-estetico nonché sigillo di garanzia a tutela di un patrimonio artistico, in questo senso autoriale.
Sulla base di quanto analizzato, risulteranno allora di lapalissiana immediatezza le differenze tra gli originali e i “capitoli secondi”, che hanno tentato (spesso invano) di cavalcare l’onda dei successi vanziniani anni Ottanta credendo che potesse bastare la riproposizione di un cast (Yuppies 2), di una location (Sapore di mare 2), di un aria vacanziera (Vacanze di Natale ’90 e successivi) o di un titolo ammiccante (Sotto il vestito niente II) per sedimentarsi nell’immaginario spettatoriale. Il risultato, prevedibile, è stato l’oblio, in alcuni casi immediato e in altri sulla media o lunga distanza. Perché il cinema popolare richiede un’arte, insieme all’artigianato, talvolta più sofisticata e difficile rispetto a quella sottesa al cinema considerato propriamente “d’autore”.
Diventare cantori indimenticabili e inimitabili di un’intera epoca con qualche battuta o inquadratura fulminante, senza potere ricorrere a secondi e terzi gradi di strutturazione e codifica del segno filmico, era impresa per pochi. Soprattutto negli anni Ottanta, quando superficie e superficialità erano considerati sinonimi, e un cinema come quello dei fratelli Vanzina faceva gridare al reato contro la settima arte.