Italia, ieri: la compilation. Gli anni Ottanta e il glamour casereccio dei Vanzina Bros.
Emanuele SacchiForse sembra meno irriverente se pensiamo che America oggi (1993) è titolo che pertiene più ai distributori italiani che a Robert Altman, ma risulta difficile battezzare altrimenti una riflessione sul cinema dei Vanzina negli anni Ottanta. Perché è allora, a torto o a ragione, che Carlo ed Enrico provano a indossare i panni di chi racconta la società in cui vive attraverso uno studio della coralità di personaggi e stereotipi che certo aspira, con malcelata goffaggine e sfrontata audacia, al modello altmaniano.
Inevitabile partire da Via Montenapoleone (1987), una tra le pagine più ambiziose del corpus vanziniano. Specie nella versione lunga per la tv, che rasenta le tre ore, i fratelli provano a sussumere il mondo dell’alta borghesia del capoluogo lombardo, ruotando attorno alla sua principale arteria della moda e vivendo di intrecci e interscambi tra simili che rasentano l’incestuoso. Nel valzer delle coppie e della promiscuità, infatti, trovano posto ben due figure materne improntate alla possessività nei confronti dei rispettivi figli: la Francesca di Marisa Berenson e la madre di Guido, a cui dà vita Valentina Cortese. Personaggi quasi speculari, che con il loro abbraccio mortale spingono l’edipica prole verso la confusione sessuale o l’aborrita omosessualità («Soffrirà di meno da ignorante che da frocio»). Nonostante il Guido di Luca Barbareschi voglia rappresentare il coraggioso sdoganamento di un tema ancora tabù nell’arretrata Italia di quel decennio, la sua personalità repressa e cosparsa di vergogna riflette le generalizzazioni della peggiore omofobia, con tanto di inevitabile amore per l’opera lirica. Come se i Vanzina fossero più preoccupati di ribadire a ogni passo la loro estraneità rispetto al mondo gay che di empatizzare realmente con esso. Ma qualunque sia il punto di vista vanziniano nei confronti della borghesia milanese, sia esso di critica o di appartenenza, di fatto ciò che emerge è la natura profondamente conservatrice di questa classe sociale, con lucida preveggenza verso le sue peggiori derive.
L’irraggiungibilità della top model
La seconda metà del decennio edonista rappresenta una fase di mutazione irreversibile per l’immaginario sessuale dell’italiano medio. La strategia delle emittenti private di Silvio Berlusconi ha predisposto le menti, attraverso anni di Drive In, a un erotismo “all’amatriciana” a colpi di Carmen Russo e Tinì Cansino. La continuità con gli anni di Edwige Fenech porta al prorompente ritorno della maggiorata, a una sottile restaurazione della rivista che passa pure dalle famigerate Littorine di Antonio Ricci. È su questo tipo di humus che i Vanzina tentano di compiere una svolta.
Dopo essere stati i primi a cavalcare la tendenza con la Edwige Fenech protagonista di Vacanze in America (1984), da Sotto il vestito niente (1985, con Renée Simonsen) in avanti – ma a dirla tutta già da Mystère (1983), con Carole Bouquet – affidano sempre più spesso a una top model il ruolo di protagonista. Non importa se il grado di espressività e il talento nella recitazione rasentano lo zero assoluto: l’idea è quella di affermare un nuovo standard estetico, sulla scia delle Cindy Crawford e Stephanie Seymour che cominciano a dominare le riviste patinate. Messe da parte le maggiorate della porta accanto di Drive In, è il momento di bellezze algide e irraggiungibili, perfette nella loro flessuosa eleganza e totalmente inverosimili per i ruoli che vengono loro assegnati. Renée Simonsen e Carol Alt nei panni di fotografe e casalinghe – oppure, la seconda, in quelli di Marina Ripa di Meana in I miei primi 40 anni (1987) – annientano ogni tentativo di sospensione dell’incredulità. Ma ai Vanzina questo non importa. Anzi, la sensazione di artificiosità non fa che ribadire la distanza tra spettatore e finzione, sottolineando l’alterità delle bellezze suddette rispetto al nostro quotidiano.
Quel che prima era culto per il divismo cinematografico, ora diviene idolatria per le irraggiungibili mannequins delle sfilate di moda o degli spot pubblicitari. In parallelo, anche la tv di Berlusconi si adegua, attraverso il fascino glamour di programmi (s)cult come Nonsolomoda. Lo spettatore non si reca al cinema per vedere il film su Marina Ripa di Meana, quindi, ma per vedere Carol Alt, che assurge in breve tempo a sintesi della bellezza tra i confini italici. In questo senso rivedere a distanza di trent’anni le opere del periodo “top model” dei Vanzina, fase che si protrae fino al nadir costituito su ogni fronte da Miliardi (1991), racconta molto dell’Italia in cui viviamo e del progressivo spostamento del nostro sogno proibito.
Macchine da hit (parade)
La sagacia del marketing vanziniano raggiunge l’apice senza dubbio nell’accompagnamento musicale ai film, fin da Vacanze di Natale (1983), curiosamente privo di una versione discografica della sua colonna sonora, ma destinato a diventare il jukebox imperituro di una generazione. Sunshine Reggae, Moonlight Shadow, I Like Chopin sono successi discografici già prima che il film esca nelle sale, ma a un anno di distanza dalla sua distribuzione si cristallizzano in una vera e propria mitologia. Quella consapevolezza iconica, che caratterizza così felicemente il procedere per slogan e battute a effetto di Vacanze di Natale, ben si sposa con brani destinati a incollarsi nella memoria a breve e lungo termine.
Le scelte future dei Vanzina Bros. saranno sempre meno attente al lato qualitativo (di pari passo con l’evoluzione delle hit parade?), ma altrettanto infallibili nell’individuare il potenziale della più accattivante tra le hit del momento. Per colpire nel segno, i brani trainanti che contraddistinguono una produzione Vanzina devono essere chiassosi, di facile presa. Anche nel “periodo top model” la colonna sonora svolge un ruolo centrale: ha luogo qui, più che mai, quella mescolanza di glamour e casereccio, di voglia di Beverly Hills e realtà da tovaglia a scacchi. I successi musicali, infatti, che appartengono a tutti e uniscono tutti, aiutano ad annullare la distanza tra un mondo “inaccessibile” e del tutto irrealistico e quello reale con cui si confronta quotidianamente lo spettatore. Anche quando l’universo ritratto è quello di una minoranza di privilegiati, come in Via Montenapoleone, ecco che la colonna sonora riporta alla normalità delle musicassette in voga. Per sedurre Margherita/Carol Alt il playboy Roberto non sceglie certo gli Smiths, i Cure o i Talk Talk, ma la prosaica One More Night di Phil Collins, reperibile in ogni cestone di autogrill. E così, per immortalare una sfilata di moda, niente di meglio che l’ovvietà di Slave to Love di Bryan Ferry, fresca di utilizzo in 9 settimane e ½ (1986, una delle opere centrali nel discorso estetico vanziniano).
Abbassare il target per agevolare il transfert, così da lasciar credere che la conquista di Carol Alt sia potenzialmente alla portata di tutti. In sostanza, la mentalità yuppie e reaganiana del Michael J. Fox di metà anni Ottanta (Il segreto del mio successo, 1987) portata all’ennesima potenza, mentre il debito pubblico aumenta a dismisura e la Milano da bere impazza.
Per un nuovo cinema italiano?
Nell’incertezza e nell’ambiguità tra esito e intento si giocano le ambizioni e le fortune di un cinema che, con ogni probabilità, aspirava a ricoprire un ruolo totalmente diverso da quello che ha finito per occupare nei libri di storia: i Vanzina come campioni di incassi e portavoce del trash all’italiana, coadiuvanti del persuasore occulto Silvio Berlusconi nel risveglio di un animo destrorso italico, e via ingiuriando. Ma è sempre stato così? Di certo il giro di boa di metà anni Ottanta porta con sé una nuova consapevolezza nei fratelli: la volontà, in mancanza di uno stile e di uno sguardo cinematografico, di costruire una propria Weltanschauung sullo studio etico dell’Italia anni Ottanta. Con lo sguardo fisso a quel che avviene oltreoceano, dove Reagan sceglie di avvalersi con forza del potere persuasivo del cinematografo per imporre un neodivismo che unisca i muscoli di Sylvester Stallone alle gambe di Kim Basinger.
Carlo ed Enrico sembravano pronti a scrivere una pagina di rilievo del cinema italiano, forse addirittura a fare da apripista per una nuova età dell’oro, fotografando una realtà contraddittoria, ambigua, provando a modellarla con generose iniezioni di glamour. La critica, però, si è fatta bloccare dalle ingenuità stilistiche e dalla sensazione di ridicolo involontario soverchiante. I Vanzina, allora, sono rimasti un fenomeno prettamente commerciale, una moda “effimera”, proprio come quel mondo superficiale che intendevano – complicità a parte – mettere alla berlina.