Quando Dino Buzzati ritornò a casa
Marco CimminoLe montagne, Dino: devono essere le montagne. La loro presenza: il loro orizzonte verticale, che assorbe i colori e li restituisce diafani, spiritualizzati. Saranno le montagne. Anche nella rimbombante frenesia della metropoli, anche in quel turbinio di ascensori e posacenere e tram sferraglianti, sapevi che c’erano, che erano là, ad attenderti, come le dita di Dio protese verso un cielo implacabile. Così hai viaggiato, con il corpo e con la mente, per infiniti corridoi, per uffici polverosi, nel ticchettio aritmico della tua Olivetti, cercando di sfuggire a quell’incantesimo infantile, così determinante e terribile: ma loro c’erano, Dino, e ti aspettavano. Hai cercato, è vero, di esorcizzare questo desiderio di bimbo, questo disperato bisogno di misteriosi valloni, di pinnacoli fantasmagorici: l’hai fatto intonacando la tua stanza colorata con la pennellessa del raziocinio, ed affrontando l’abisso con chiodi e piccozza, da uomo. Ma loro vincono sempre: tornano sempre. Hai scritto tante di quelle storie, Dino, e hai tanto disegnato e dipinto: cose lontane come gli orsi in Sicilia, come la vita milanese che hai vissuto senza mai comprenderne fino in fondo la meccanica ordinata e feroce.
Eppure, in ogni storia, in ogni fuga, loro ritornavano ad ossessionarti e addolcirti, in una nostalgia straziante e meravigliosa. È rimasta, in fondo ad ognuna delle migliaia di pagine che hai riempito ordinatamente, in equilibrate e disciplinate righe orizzontali, quell’angoscia, quella lontananza, quell’indicibile malinconia che sono le montagne dell’anima. E la tua montagna non era squillante di vittoria: non esplodeva nel silenzio glorioso di una mattina di sole. Era una montagna deserta d’uomini e di suoni: una montagna che contempla, come una divinità severamente immobile, la miseria degli uomini, mettendoli di fronte all’angustia dei loro confini, alla fragilità delle loro certezze.
Chissà cosa pensavi, Dino, sulla cima della Civetta, gli occhi persi nelle profondità dei fondovalle remoti? Quanto sembrano piccole ed insignificanti le nostre cose quotidiane, i nostri campanili, i municipi, la civiltà umana, dalla cima! La montagna non ci umilia, non vale a mortificarci nel nostro affannarci inutile: ma con la sua sola esistenza ci rammenta quanto sia bassa, limitata e temporanea la nostra condizione. E questo fa di noi degli esiliati da un Eden che non ricordiamo: ci insinua nel cuore una nostalgia incomprensibile. Tu l’hai compresa, Dino? Oppure è per una miracolosa coincidenza che hai trovato le parole esatte per evocarla e definirla?
Ritorna il giovane soldato: non è finito a disfarsi nel sole delle pietraie. Ma un decreto misterioso gli impedisce di fermarsi: gli ha concesso un’ultima breve visita alla vecchia madre, e la ferita cavernosa che gli smangia il fianco, malcelata dal mantello, testimonia la vanità degli affetti, la mostruosa tristezza degli addii. I soldati vanno di vittoria in vittoria, eppure cantano quella loro canzone piena di fatalità e malinconia: nessuno può spiegarne il perché.
Sono le montagne che ti fanno sentire così: le cante degli alpini sono figlie di questo doloroso rimpiangere il focolare. E il re, alla fine, è meglio che muoia, perché il suo sconcio soffrire offende gli orecchi dei sani, anche se lenisce la sofferenza dei malati.
Nulla è vero, nulla è quello che sembra, caro Dino: siamo figurine ritagliate in carta di giornale, e ognuno di noi sa solo il significato di quel che c’è scritto nel proprio ritaglio. Bisognerebbe metterci tutti insieme, in un girotondo fraterno, per conoscere la storia: per sapere se è favola, incubo o maledizione. E invece ci raduniamo nelle città, come formiche frettolose, senza parlarci, senza capirci.
La città è labirintica, pericolosa: prima di andarci a cercare fortuna, il valligiano riceve consigli e moniti. Puoi fare danno anche solo toccando un ferro, un mattone: crolla l’immenso falansterio per un insignificante gesto di curiosità. Per contrappasso, il cittadino è indifeso di fronte agli immensi paesaggi montani: quando cede al sogno non ha le armi per difendersi, e muore giocando, di una freccia immaginaria, scagliata da un archetto fatto per gioco, con un bastoncello, senza muoversi dalla sua panchina, piantata in un belvedere immaginario.
Lo so, l’ho capito, Dino: anch’io, come te, vivo questa doppia vita, tra asfalto e Dolomiti, e sono orfano di molti padri. Per questo percepisco il tuo sconcerto, il tuo smarrimento voluttuoso davanti al segreto delle forre e delle cenge, senza comprenderlo, senza riuscire a dare un nome al disordine che mi sento anch’io nel petto, quando, dopo chilometri di modernità e sicurezza, mi compare davanti l’improvviso orizzonte delle creste, tinto del grigioviola crepuscolare: e vorrei piangere, trattenuto solo da una convenzionale virilità.
La verità, forse, è che non si ritorna mai: l’esilio è interminabile. Ci si rifugia nell’arte, l’unico emolliente per il tormento della solitudine. Anche tu l’hai fatto, Dino: con grande sensibilità, ironia, originalità. Ma, ti chiedo: è bastato? Nei rimandi ingannevoli della tua arte, hai trovato la pace? Oppure, perfino nella gloria solitaria di Coppi, argonauta dello Stelvio, hai sentito quel brivido che è la morte prima di morire? Forse lassù, ai piedi di Punta Spiriti e dei colossi ghiacciati dell’Ortles e dello Zebrù, anche Coppi, nello sfolgorare del trionfo, percepì la vanità del trionfare sul nulla che siamo. Proprio per questo, forse, hai sentito fratello e sodale quell’uomo solo al comando: non per il comando, ma perché assolutamente, disperatamente, solo. Così, i Morzi, i ricci crescenti e l’insonnia angosciante nella notte metropolitana non sono stati che mimetismo: hai raccontato di paure che non avevi per evitare di parlare dell’unica vera paura, buia e vorticante.
Scusa, Dino: a forza di scrivere di altri, finisco anch’io per commettere l’errore marchiano che rimprovero ai peggiori, attribuendo al prossimo quello che in realtà è solo roba mia, razzumaglia individuale, insomma. Eppure, leggendo e rileggendo i tuoi racconti, dovendo trovare un motivo comune, un ritornello, un filo, mi è impossibile non volgere la mente alla tua grande casa rossa, all’odore di resina che impregna i sentieri in basso e a quello di neve che aleggia, in alto, tra le rocce purificate nella luce del calcare. E tutto il piacere, tutta la gioia e la libertà, così come ogni malinconia, ogni debolezza, ogni immedicabile dolore, mi rimandano alle montagne, a quelle montagne.
Dunque, in fondo, per mettere insieme quattro righe sulla tua gigantesca fantasia creativa, sul genio che ci hai donato quasi sussurrando, non mi occorre riandare alla lettura dei tuoi libri, alla visione dei tuoi quadri: per venirti a cercare, la cultura non mi occorre o non mi basta. So dove trovarti: seduto, da solo, su un sasso scomodo e frastagliato, che sorge erratico da un pascolo che confina con la parete scabra di dolomia chiara o in cima ad un ghiaione consumato dalle nevi di mille slavine.
So di poterti trovare là con gli occhi socchiusi, a proteggerli dalla luce metallica del sole: quel che non so e non saprò fino all’ultimo, purtroppo, è la coda colorata dei tuoi pensieri. Cosa pensi, Dino, appollaiato su quel sasso, così distante dalle nostre esistenze scialbe e banali, sideralmente estraneo al nostro presente malessere? Pensi, finalmente, di essere tornato? Che era proprio così che volevi finisse, dopo tanto navigare estenuante e pieno di tristezza: su di un bel sasso, ai piedi della montagna? Non ci sono risposte, lo so: continuerai a seguire il sogno, per l’eternità, roccia tra le rocce, filo d’erba tra fili d’erba.
Io, adesso, devo tornare a valle: alla città, alla velocità, al rumore. Non posso rimanere a guardare con te, in silenzio, il margine sfocato del deserto, nella fatamorgana del mezzogiorno: ho casa, lavoro, famiglia, non posso ancora rinunciare alla realtà.
Ma tornerò, Dino: quando smetterò di correre e sudare dietro alla coda di un asino che corre sempre troppo veloce, tornerò quassù, ed aspetteremo insieme che passi il Gran Convoglio, giocando a tresette con Planetta. Grazie di avermi indicato dove comincia il sentiero.