Lo stile dell’attesa nel «Deserto dei Tartari»
Mario Bernardi GuardiIn ogni attesa – in ogni attesa che “importa” e “comporta” uno stile – c’è una sospensione del tempo ordinario. Tutto è fermo, ma nascostamente vibra. “Stiamo” in una sorta di concentrazione elettrica, come centometristi che aspettano il segnale per scattare. Il cuore, lo spirito, i muscoli sono in tensione. L’attenzione è massima. Nell’evento – quanto manca? – ogni secondo è un secolo: sveleremo agli altri chi siamo, quanto valiamo. Ci riveleremo a noi stessi in ciò che è più significativo. Tutto avrà una densità esemplare. L’agire è il modo d’essere. E viceversa. Si esiste – per sempre – nel bel gesto di cui l’Io è stato protagonista e come protagonista si è visto. Uno specchio che contiene le immagini così come si sono “svolte”, fino all’ultima, sigillo di un percorso. L’evento sigilla l’attesa, ne è il contrassegno d’onore.
E se l’attesa è stata lunga e snervante, ha dilapidato i nostri giorni nello scorrere monotono di ore sempre uguali, se si è accesa, talvolta, d’improvvisi lampi che si sono rivelati fugaci bagliori; se l’attesa ci ha visti invecchiare e infiacchire nel vuoto vorace di regolamenti assurdi; se l’attesa, protratta oltre ogni limite di umana – eroica? – sopportazione, sta per concludersi con uno scacco mortificante, mentre l’“evento” non ci tocca, ci viene strappato di dosso, ci ignora, ci irride: allora, che fare? Il tempo ha bruciato giovinezza ed entusiasmi, abbiamo appeso i nostri residui sogni a ogni minima prospettiva di un cambiamento che non c’è stato, e quel che ci resta è solo ciò che rimane di un corpo malato, di uno spirito esausto. E ora? Senza un “dopo”, possibile o meravigliosamente impossibile, ma “coltivato” con ostinata volontà/voluttà (le bandiere della gloria in battaglia che insistono a sventolare), come vivere la smisurata, brevissima atrocità della morte sospesa sul nostro capo?
Comunque il caso – il fato? – abbia giocato con noi, dovremo essere all’altezza della situazione. Mortificati dal destino, ci inventeremo anche noi un gioco estremo, cruciale. Altrimenti, a che vale l’attesa? Il valore non doveva forse essere premiato? Ebbene, lo sarà.
Alla Fortezza Bastiani, testardamente arroccata nel Deserto a difesa dei confini dell’Impero, finalmente, dopo un tempo incommensurabile, arriveranno i Tartari, e ci sarà la battaglia, e baldi uomini d’armi daranno prova del loro valore, e bandiere dal colore del ghiaccio e del fuoco garriranno al vento. Da tutto questo è escluso Giovanni Drogo, che pure ha atteso per anni il “momento della verità”. Come tanti, che prima di lui erano arrivati al solitario presidio – caserma, monastero e reggia: sono questi i tratti con cui Dino Buzzati ne disegna il profilo – e altri giunti dopo di lui, Giovanni è stato catturato da una sorta di malìa. Quella Fortezza sprigiona un fascino austero e scontroso, un suo ruvido incanto: tanti uomini, ligi al dovere e ai rituali di una solenne immobilità, aspettano. Lo scontro con i Tartari. Ce n’è già stato uno, in un’immemorabile lontananza; da anni, però, nel Deserto regnano vasti silenzi e ogni piccolissimo evento è un suono che per qualche attimo si amplifica ma poi tace, risucchiato via da un inconfessabile sentimento di inutilità; eppure non si può, non si deve abbassare la guardia, perché i Tartari possono sferrare un nuovo attacco quando meno ce lo aspettiamo.
Giovanni ha fatto sua quella consegna. Al pari di altri, si è illuso, la delusione lo ha come dissanguato, sfinito. Eppure… Eppure, è noto, la Speranza è l’ultima dea ad abbandonare il luminoso Olimpo degli immortali e l’oscura Terra dove i migliori aspirano alla consolazione della “bella morte”. Quella che dà un senso alla vita. Ripagando le estenuanti attese.
I Tartari, confusa massa feroce e proteiforme sbocciata da un fondo di mai obliata barbarie (i nemici dell’Impero e dell’Ordine), si rovesceranno improvvisi sulla Fortezza quando Drogo non sarà più in grado di offrire il proprio braccio per difenderla e colpire. Il caso deciderà così. Ma, come dirà lo scrittore argentino Jorge Luis Borges, il caso è – ed ha – una causa segreta. E a Drogo, cui saranno sottratti combattimenti e vittoriose insegne, riserva un’altra gloria. Strana e silenziosa, come quella che è toccata al suo amico Pietro Angustina – anche lui condannato ad inutili attese – morto sotto una tempesta di neve.
Il nobile Angustina. Da ricordare sempre. In piedi, fedele alla consegna, impavido, impegnato in una missione per tracciare linee di confine tra le montagne del deserto dei Tartari e quell’oltre che, se non è una minaccia oggi, domani potrebbe costituire un serio pericolo. Avvolto dalla neve e dalla notte, Angustina è morto, senza cedere alla malattia – una tosse stizzosa che gli sconquassa il petto – e alla stanchezza. Ha compiuto, fino in fondo, il proprio dovere.
Un ufficiale deve dare l’esempio. Ma quale esempio può dare Drogo, vecchio e stanco, costretto ad andarsene dalla Fortezza perché ormai rappresenta solo un “peso”? A nulla vale che chieda un’“attenzione” per tutti gli anni che gli sono stati portati via e implori, quasi come una grazia, di poter restare ancora. Già, ma per fare cosa? Un uomo prossimo alla fine può guidare a degli obiettivi o, almeno, consigliare?
Drogo deve andare via. Sta male: una carrozza verrà a prenderlo. «Gli amici prima di tutto» gli sibila addosso il tenente colonnello Simeoni, con tutta la malignità di chi vuol fare una provvista personale di gloria, escludendo il commilitone, che ha condiviso con lui aspettative sempre più disilluse. E tuttavia Simeoni deve fare ipocrita mostra di esser preoccupato per la salute di Giovanni e dunque di aver preso i giusti provvedimenti, tanto dal punto di vista militare, quanto da quello amicale. Drogo ha ben chiaro quanto questa esibita premura costituisca una mistificante trappola. Ma come reagire? Con lo sdegno, con l’ira che prorompe perché ci si vede beffati – oltretutto, il “nemico” non ha apparentemente nulla da farsi perdonare: non sta forse dandosi da fare per assicurare ogni assistenza al povero infermo? – o cercando quella “comprensione” che, poi, sarebbe la vera forma della compassione?
Ma non è possibile restare, chiedendo solidarietà (non abbiamo forse vissuto tutti le stesse attese? E, ora che si verifica l’evento, vuoi mandarmi via?), quando dall’altra parte c’è la rocciosa insensibilità di chi non ti vuole tra i piedi. E non tanto perché tu sia malato – e lo sei “davvero” – quanto per non renderti partecipe di un appuntamento a lungo atteso che è una ragione di vita. La ragione di una vita.
Drogo parte quando dappertutto è un gran fervore nell’attesa dell’attacco. Se ne va, dopo trent’anni: «Nessuno, in mezzo al gran trambusto della Fortezza, dove già arrivavano i primi scaglioni di rinforzi, fece molta attenzione a un ufficiale magro, dal volto smunto e giallastro, che scendeva lentamente le scale, si avviava all’andito d’ingresso e usciva fuori dove era ferma la carrozza». Un congedo amaro: pochi vengono a salutarlo. «Va comodo il vecchietto» pensano molti giovani soldati dai volti arrossati per la fatica. Forse, però, provano anche un senso di pena, vedendolo così malandato.
Ma Drogo non fa pena. E – lo abbiamo detto – gli spetta un premio. La motivazione potrebbe recitare All’eroica attesa, Allo stile o Alla dignità della sconfitta. Valgono tutte come onori al merito. Bene, ecco come si muore nella solitudine di una locanda. Senza nessuno che ti stia accanto, con pochi bei ricordi nel confuso archivio della memoria. È una battaglia ben più dura di quella che un tempo sperava. Non ci sono l’aria libera, i furori della mischia, un corpo bello e sano: «Nulla è più difficile che morire in un paese estraneo e ignoto, sul generico letto di una locanda, vecchi e imbruttiti, senza lasciare nessuno al mondo».
Coraggio, Drogo. Va’ da soldato incontro alla tua morte, attendila, è ormai prossima. Fa’ che la tua esistenza finisca bene. Il “caso” ha voluto per te questa “causa”. Non armi sfavillanti alla luce del sole, né cuori tumultuanti o vessilli che spumeggiano. E Drogo sa – Buzzati lo sapeva bene – che non è retorica “militarista”: non sono molti gli uomini che, se si presenta l’occasione, sanno essere eroi. Ancor meno quelli che riescono a trasformare la sconfitta in occasione di vittoria, proponendosi come eroi paradossali.
«Lo stile è l’impronta di ciò che si è su ciò che si fa» recita una bella massima dello scrittore mitteleuropeo Franz Blei. Bene, Buzzati fa morire con stile il suo Drogo, che riempie una vita e una morte nella camera di una locanda. Intendiamoci: non gli risparmia pensieri inquieti e inquietanti. Perché nella provvisoria sospensione dei dolori fisici, di fronte a un meraviglioso tramonto, con l’aria che profuma, mentre dal piano di sotto giungono suoni e canti, ci si può tornare a illudere sulla “bellezza” della vita. E immaginare che sia bello morire “così”. Ma, da un momento all’altro, potrebbero ripresentarsi dolori e tormenti, in un disastrato paesaggio di attese nuovamente tradite.
No, non pensarci, Drogo: «Il più è stato fatto, non ti possono più defraudare». Sii fedele a te stesso, aspetta. Ecco: «La camera si è riempita di buio, solo con una grande fatica si può distinguere il biancore del letto, e tutto il resto è nero. Fra poco dovrebbe levarsi la luna. Farà in tempo, Drogo, a vederla o dovrà andarsene prima? La porta della camera palpita con uno scricchiolio leggero. Forse è un soffio di vento, un semplice risucchio d’aria di queste inquiete notti di primavera. Forse è invece lei che è entrata, con passo silenzioso, e adesso sta avvicinandosi alla poltrona di Drogo. Facendosi forza, Giovanni raddrizza un po’ il busto, si assesta con una mano il colletto dell’uniforme, dà ancora uno sguardo fuori dalla finestra, una brevissima occhiata, per l’ultima sua porzione di stelle. Poi, nel buio, benché nessuno lo veda, sorride».