Il sangue dei vinti. Il rosso e il nero (e il giallo). Dieci anni dopo il film rimosso
Rocco Moccagatta«Ed è più duro professare idee sbagliate che non averne»
(Giorgio Soavi, Un banco di nebbia)
Titolo complicato e difficile nella filmografia di qualunque regista, l’adattamento dell’omonimo saggio di Giampaolo Pansa per il cinema e per la fiction televisiva (l’una non si dà senza l’altra, secondo una pratica molto comune nelle produzioni Rai Fiction del decennio scorso, come dimostrano anche titoli quali I vicerè di Roberto Faenza, del 2007, e Sanguepazzo di Marco Tullio Giordana, dell’anno successivo) è sembrato a molti particolarmente incongruo in quella di Michele Soavi. Che non è sicuramente un regista politico o da cinema d’impegno civile, d’accordo. Eppure già tra i ritornanti di Dellamorte Dellamore (1994) – guarda caso, altri morti che non ne volevano sapere di restare tali… – s’intravedeva qualche graffio satirico verso l’imbelle classe politica di Buffalora; e poi, con una buona dose di coraggio, in Arrivederci amore, ciao (2006), che prendeva l’abbrivio dalle pagine del romanzo di Massimo Carlotto, l’ex terrorista rosso pentito Giorgio Pellegrini si accasava in una para-Casa delle Libertà, perfetta per offrire una finta rispettabilità ai suoi sogni nero pece di riscatto e di scalata sociale. Ancora, oltre il cinema, guardando alle numerose incursioni del regista nella fiction da prime time, soprattutto insieme alla Taodue di Pietro Valsecchi, è evidente che egli si sia esercitato su un tentativo (spesso brillante) di “generificare” storie e vicende recuperate dalla storia (criminale) o dalla cronaca italiane, dalla banda della Uno bianca a Nassiriya, dichiarandosene in più occasioni orgoglioso e soddisfatto. Soprattutto, la storia privata e familiare di Soavi sembra uscita proprio da Il sangue dei vinti di Pansa, dedicato – è appena il caso di ricordarlo – alle pagine più oscure della Resistenza, soprattutto a quella lunga serie di vendette e uccisioni consumate alla fine della Liberazione ai danni di ex fascisti, simpatizzanti, persino civili innocenti: il padre scrittore Giorgio, che militò brevemente, e con molta confusione, nelle fila della Repubblica di Salò, e la madre, ebrea e antifascista, rendono tangibile una lacerazione che dev’essere appartenuta non a pochi in quel periodo oscuro e tumultuoso tra l’8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945. Oltretutto, Un banco di nebbia, il bel romanzo autobiografico che Soavi padre scrive in seguito per raccontare quello smarrimento e quella confusione (a se stesso prima che al lettore, pare di poter dire leggendolo oggi, in tempi molto più lontani), a sua volta libro osteggiato e ostracizzato da una certa intellighenzia letteraria fin dalla pubblicazione nel 1955, è sicuramente tenuto presente da Soavi figlio nell’adattare Il sangue dei vinti. Anzi, il banco di nebbia nel quale, secondo i partigiani, ha vissuto il protagonista del romanzo negli ultimi anni, sotto il regime fascista, pare la condizione esistenziale propria del protagonista di Il sangue dei vinti fiction e film. Infatti, Franco Dogliani, poliziotto fedele allo Stato italiano, ossessionato da un caso irrisolto di omicidio avvenuto a Roma prima dell’8 settembre, tenta di restare al di fuori delle ultime vicende convulse del nazifascismo, perfino dopo il ritorno nel natìo Piemonte insanguinato dalla guerra di Liberazione, sospeso, anche e soprattutto nella sua innocenza naïve, tra gli antipodi politici dei suoi due fratelli, Ettore e Lucia, l’uno ex fascista rapito dagli ideali resistenziali, l’altra giovane sposa ingenua trasformata in efferata repubblichina. È soprattutto questa la parte che Soavi può costruire come più immediatamente vicina al romanzo paterno, non tanto nelle vicende quanto piuttosto nelle atmosfere, attraverso la ricerca di una radicale decolorazione fotografica (con il fidato DOP Giovanni Mammolotti, al suo fianco da quasi vent’anni, tra cinema e tv) che è anche metaforica, quasi a impastare tutto in immagini (s)morte, senza vita, neutre, dove persino il sangue è nero e non rosso e un generale senso di disfacimento – dei corpi, dei luoghi – s’impadronisce di ogni cosa. Poi, si sa, Soavi entra nel progetto in uno stadio avanzato, quando esiste già una sceneggiatura (di Massimo Sebastiani e Dardano Sacchetti, soprattutto il secondo non proprio il nome che ci si potrebbe aspettare per un’operazione di questo tipo, ma, paradossalmente, molto vicino a gusti e passioni del regista) e di Il sangue dei vinti si parla da tempo come della bestia nera della fiction di Stato, già rifiutata da altri colleghi (Carlo Carlei, Maurizio Zaccaro, Giacomo Battiato, persino Alberto Negrin i nomi che affiorano). Almeno dal 2005, da quando ne ha acquistato i diritti per la sua Media One il produttore-marchese Alessandro Fracassi – una filmografia notevole e in attesa di uno studio senza pregiudizi, molto eighties, tra i Vanzina e Deodato, e molta tv stracult, come il mitico Il segreto del Sahara (1988) – e le ha trovato posto nell’offerta Rai Fiction di Agostino Saccà, in una micidiale combine che rischia di stritolarla tra le attese libidinose del centrodestra pronto a sventolarla come una bandiera di rivendicazione politica e la diffidenza del centrosinistra già sulle barricate per dichiararne le falsità storiche e ideologiche. Come sia finita è noto: l’imbarazzo del mondo Rai (nel frattempo entrato in una fase post-Saccà) a maneggiare Il sangue dei vinti; tutti, destra, sinistra e centro, scontenti e rancorosi (ma Pansa si diceva, all’epoca, soddisfatto); cascami spiacevoli per tutti; una coatta partecipazione della versione cinematografica alla Festa del Cinema di Roma del 2008 come evento speciale, tra la farsa e la tragedia; stroncature feroci ovunque, fino all’uscita in sala (pressoché invisibile) nella tarda primavera del 2009, quasi più come atto dovuto, e, poi, una veloce messa in onda a dicembre 2009, fuori periodo di garanzia. Infine, l’oblio: Il sangue dei vinti esiste in dvd nella versione uscita in sala da 117 minuti, ma non è disponibile, neppure su RaiPlay, nella versione televisiva di due puntate di 100 minuti circa ciascuna. Anzi, resta, a distanza di tempo, l’imbarazzo generale a riparlarne più serenamente, e in questo, si può dire, il film si apparenta all’altro titolo impronunciabile e (con)dannato della filmografia di Soavi, quel Il sangue degli angeli (di nuovo il sangue, ma condito da omosessualità e incesto) che egli non girò mai, per paura o per eccessiva cautela, a partire dalla sceneggiatura di Luigi Spagnol, un vero e proprio buco nero dai bagliori sinistri e inquietanti, non meno infetto e contagioso.
Alla fine, più che per i temi e le questioni, con tutto il bagaglio di accuse di rinfocolare il revisionismo storico e di voler sporcare la memoria della Resistenza e, di contro, di intenzioni pelose di una parte politica che vedeva la possibilità di restituire onore e dignità non solo ai propri caduti ma anche ai loro ideali, probabilmente Il sangue dei vinti indigna e respinge per altre ragioni. Innanzitutto perché Soavi, che si dichiara antifascista e di sinistra in ogni occasione, non accetta più di tanto le regole d’ingaggio imposte (d)alla materia, ma preferisce trattarla come un racconto di genere, interessato solo fino a un certo punto alla verosimiglianza storica e alla precisione della ricostruzione d’epoca. A dire la verità, oltre il war movie e il combat film più volte dichiarati dal regista nelle sue intenzioni, non sempre sostenuti dalle possibilità economiche del budget (a partire dal bombardamento di San Lorenzo del 1943 risolto con materiali d’epoca, malamente colorizzati), c’è una netta predilezione per il giallo e per l’horror che da sempre impregnano i suoi film. Il giallo, addirittura, preesiste all’ingresso di Soavi ed è, anzi, la soluzione escogitata dagli sceneggiatori per trasformare in materia narrativa il testo di partenza, più vicino al saggio di ricostruzione storica, anche se resta uno degli elementi più problematici da gestire nella complessa e articolata architettura narrativa che lavora su tre epoche (il presente degli anni Settanta, il 1943 e il 1945), con continui via vai spesso farraginosi, resi ulteriormente confusi nella versione ridotta per la sala. L’horror, invece, è con ogni probabilità portato in dote proprio da Soavi, anche come chiave di interpretazione e di scrittura visiva obiettivamente suggestiva. Fin dall’inizio, poi, visto che quella palla da demolizione che a poco a poco si fa strada attraverso un muro, inquadrata da un interno chiuso immerso nelle tenebre, denuncia un gusto più alla Poe che alla Fenoglio e deve molto a certe suggestioni del cinema horror precedente del regista. E l’affannosa ricerca che Dogliani fa della sorella nel campo d’internamento dopo la fine delle ostilità, risolta in un complicato e labirintico piano sequenza tra gabbie e larve umane, di nuovo rima più con certe situazioni da horror epidemiologico che con il romanzo storico auspicato dalla committenza.
Per questa via, certo, raccontare l’assedio della casa di famiglia dei Dogliani da parte di un gruppo di vendicativi partigiani che sembrano zombie (e difatti ai malcapitati anziani genitori, interpretati da Philippe Leroy e Giovanna Ralli, non resta che suicidarsi con un colpo di fucile alla testa piuttosto che caderne vittime) e mettere in scena le efferatezze delle SS capeggiate da un tetro e funereo Stefano Dionisi quasi come se si fosse in un macaroni war film sono entrambe soluzioni possibili, anche se, ovviamente, con diverse conseguenze e strascichi nella ricezione del film. A fronte degli equilibrismi verbali nei dialoghi, improntati a un’esasperante ricerca di compromesso tra gli opposti, che non scontenti né l’una parte né l’altra, Soavi regista mette al bando pudori e timidezze, gira con grezza brutalità e non si risparmia nulla. Tra cavalli bianchi che corrono in mezzo al fumo e alle rovine, una mappa dell’Italia fatta a brandelli da una mitragliata e un fotografo di guerra che si chiama Caronte, non c’è spazio per le mezze misure. Ovvio che lasci frastornato e deluso il suo pubblico, di qualunque colore politico questo sia: la giovane repubblichina che apre il fuoco sui partigiani festanti, nella consapevolezza disperata della fine, non è tanto occasione di un giudizio di condanna (o di esaltazione, come vorrebbero alcuni), quanto piuttosto pretesto per un (bel) pezzo di cinema thriller, che oltretutto fa quasi il verso al film nel film di Bastardi senza gloria (2009)… Persino quando tocca quello che, a dire suo più che degli sceneggiatori, è il tema di fondo di Il sangue dei vinti, cioè il diritto a rivendicare una giusta sepoltura per i morti di entrambe le parti, anche senza invocare alibi che ne giustifichino le ragioni e avanzare richieste di pacificazione, Soavi lo fa ancora una volta in maniera dissennata e sopra le righe: l’Antigone in cui recita l’attrice di regime Anna Spada (Barbora Bobulova), al centro dell’intrigo giallo (nella versione cinematografica collocata sui titoli di coda, ma intravista prima in un flashback), potrebbe essere un plausibilissimo spettacolo allestito dalla compagnia teatrale protagonista di Deliria (1987) ed è, oltretutto, ben poco verosimile come prodotto di quel momento storico, a partire dall’articolazione stratificata di citazioni e immaginari che apparecchia (Brecht, Watchmen, il Visconti di La caduta degli dei [1969], Grosz, tutti frullati insieme). E non basta, nel finale, mostrare Dogliani ormai vecchio, negli anni Settanta, che ritrova il luogo della sepoltura della sorella militante di Salò, segnato da un piccolo nontiscordardimé fioritovi sopra, per poter riacciuffare la pancia del pubblico.
In conclusione, Il sangue dei vinti – di sicuro nella versione cinematografica, con qualche attenuante per quella televisiva, anche se sarebbe auspicabile poterla finalmente rivedere – non riesce a essere, per lo spettatore, prima ancora che per le parti politiche in conflitto, un adattamento plausibile e riconoscibile del bestseller di Pansa. Forse è un bene, ma neppure ne può prescindere, ché la trama gialla – le gemelle, una fascista e una schierata coi partigiani, lo scambio delle identità – alla quale si affida per costruire una storia avvincente resta una soluzione dai piedi d’argilla, presto scalzata dal melò familiare di guerra, con tutte le sue programmaticità nella messa in scena della contrapposizione delle fazioni. In questo, e non tanto nelle (presunte) colpe delle quali si sarebbe macchiato secondo tanta critica (revisionismo, mancato rispetto della storia patria, svarioni storiografici, ecc.), risiede, dieci anni dopo, il fascino sinistro e malsano di un film fallito più per l’indecisione di fondo su che cosa farlo diventare che per il timore di sbagliare davvero.
CAST & CREDITS
Regia: Michele Soavi; soggetto: Giampaolo Pansa (romanzo Il sangue dei vinti); sceneggiatura: Dardano Sacchetti, Massimo Sebastiani; fotografia: Giovanni Mammolotti; scenografie: Andrea Crisanti; costumi: Sergio Ballo; montaggio: Anna Rosa Napoli; musiche: Carlo Siliotto; interpreti: Michele Placido (Franco Dogliani), Barbora Bobulova (Anna Spada/Costantina), Alessandro Preziosi (Ettore Dogliani), Alina Nedelea (Lucia Dogliani); Philippe Leroy (Umberto Dogliani); Giovanna Ralli (Giulia Dogliani), Stefano Dionisi (Kurt), Massimo Poggio (Vincenzo Nardi), Ana Caterina Morariu (Elisa); produzione: Media One Entertainment, Rai Fiction; origine: Italia, 2008; durata: 110’; home video: dvd 01 Distribution, Blu-ray inedito; colonna sonora: inedita.