Dellamorte, dellamore e di altre facezie. Da Dylan Dog a Francesco Dellamorte, da Sclavi a Soavi
Andrea ScarabelliNatale 1991. Tilde Corsi entra in una libreria, per i consueti regali. E non può fare a meno di notare decine di copie impilate di un libro, uscito quell’anno per Camunia, intitolato Dellamorte Dellamore. La copertina e le tavole interne sono di Angelo Stano, l’autore è Tiziano Sclavi. In copertina legge: «Il romanzo da cui è nato Dylan Dog» (che ha esordito cinque anni prima). La Corsi ne compra una copia per suo figlio, che se lo porta a scuola, lasciandolo in biblioteca. Altri ragazzi sono attratti da quel romanzo, che leggono e rileggono. Ne nasce un piccolo caso, con conseguente levata di scudi da parte degli altri genitori e convocazione di Tilde Corsi da parte della preside. È da questa lavata di capo che alla futura produttrice viene in mente di portare al cinema il libro di Sclavi. Contatta allora Gianni Romoli e Michele Soavi (che avevano già collaborato in La setta), i quali leggono i dodici episodi delle avventure di Francesco Dellamorte – Dellamore è il cognome di sua madre –, becchino di Buffalora, paesino situato tra Milano e Pavia (nella geografia reale si trova invece in provincia di Brescia). Ogni episodio è introdotto dai versi di Sclavi e, appunto, dalle illustrazioni di Stano.
Trasporre sul grande schermo un libro del genere, tuttavia, non è impresa semplice: i racconti sono slegati tra loro (nella realizzazione dell’omonimo film, nel 1994, ne verrà usata meno della metà), e occorre dunque reinventarsi la trama: cosa che Soavi e Romoli faranno, dando vita a una pellicola che nel corso dei decenni diventerà un piccolo cult tra gli amanti del genere, nonché tra i fan di Dylan Dog. Che ovviamente non hanno mancato di sottolineare le numerosissime differenze tra l’investigatore di Craven Road e il protagonista del film di Soavi. L’uno è ottimista e sognatore, l’altro cinico e “nero”. Sennonché il romanzo di Sclavi è stato scritto nel 1983, tre anni prima del battesimo editoriale di Dylan. Francesco Dellamorte, semmai, è un prototipo, un antenato del personaggio. A unire le due narrazioni vi sono però altri elementi, dal tema della diversità a quello del femminile, dall’analisi spietata del potere alla condanna dei luoghi comuni, da un certo humor nero (comunque assai stemperato nell’investigatore dell’incubo) fino alla presenza di Rupert Everett come Francesco Dellamorte. Com’è noto, Dylan Dog è stato modellato sulle fattezze dell’attore: sembra che a Sclavi l’idea sia venuta in seguito alla visione di Another Country. La scelta (1984). Il cerchio si chiude, insomma, nel momento in cui a Everett viene chiesto di recitare nell’adattamento di un libro sulla cui copertina figura un personaggio ispirato proprio a lui! I pezzi sono tutti schierati, insomma. Rimane solo il problema della trama – che Soavi risolve attraverso una full immersion nell’universo dylaniano, da cui trae ispirazione per costruire la narrazione.
In men che non si dica il regista si mette al lavoro, dopo aver acquisito i diritti del romanzo. L’editoriale del secondo Almanacco della Paura (1992) ci tiene al corrente degli sviluppi: «Michele Soavi ha pronta la sceneggiatura (bellissima!) di Dellamorte Dellamore, tratto dall’omonimo bestseller sclaviano. Sembra che il film presenterà effetti speciali (di Sergio Stivaletti) mai tentati prima in Italia». La notorietà del fumetto, intanto, cresce esponenzialmente, stupendo gli stessi autori, che sul terzo Almanacco (1993) l’attribuiscono anche «al successo di Dellamorte Dellamore, il romanzo di Sclavi, edito da Camunia».
Il film di Soavi esce nel 1994. Quell’anno viene dato alle stampe il numero di DD intitolato La donna che uccide il passato. In esso l’investigatore, intento a dissotterrare una bara, esclama: «Se mi vedesse il mio amico Dellamorte… Penserebbe che voglio rubargli il mestiere». Mentre nove anni dopo, in Il compagno di scuola, dirà di un becchino: «È un lavoro come un altro, dopotutto… su un mio amico italiano hanno anche fatto un film!». Dylan Dog e Francesco Dellamorte sono amici. Si sono conosciuti alla fine del terzo speciale di Dylan Dog, Orrore nero, uscito nel luglio 1989. Il loro incontro è avvenuto a Buffalora, «da qualche parte in Italia. Conta circa tremila anime. Quando avrà finito di contarle, morirà…». La presentazione dell’alter ego di DD – che apre anche il film di Soavi – è sclaviana come non mai: «Mi chiamo Francesco Dellamorte. Nome buffo, vero? Ho anche pensato di farmelo cambiare all’anagrafe: Andrea Dellamorte sarebbe molto meglio, per esempio». Lavora nel cimitero come tuttofare, anche se la sua è un’attività particolare: non impedisce alle persone di entrare, ma di uscire. A sette giorni dalla morte, infatti, per ragioni ignote (inizialmente, l’idea di Soavi era attribuire la colpa alla mandragola che infesta il cimitero) molti degli ospiti del cimitero di Buffalora hanno la cattiva abitudine di visitare un’ultima volta il mondo dei vivi. Forse è l’avanguardia di un’epidemia che si estenderà su scala globale. Ma a lui non importa: per quanto ne sa, il mondo esterno nemmeno esiste. Scacco matto al principio di realtà. Il nostro colleziona necrologi e le sue uniche letture sono gli elenchi telefonici, da cui depenna i defunti. È accompagnato da un freak, Gnaghi, che non sa parlare ma si esprime solo tramite dei buffi «gna». «Segni particolari: tutti». Dileggiato dalla meglio gioventù di Buffalora, Francesco non se ne cura troppo: ha addirittura messo in giro la voce di essere impotente, per aumentare un distacco che è vocazione e destino. «Non si è mai abbastanza diversi» dice a Gnaghi nel film (salvo poi aggiungere: «Anche se tu sei un caso a parte»). Dietro la patina di normalità del piccolo paese si squaderna insomma un inferno d’indifferenza (tematica dylaniana par excellence). Basti pensare al sindaco, che quando perde sua figlia è preoccupato solo dalla campagna elettorale. Dopo esser morto e “ritornato”, semidecomposto, riesce solo a esclamare: «Io sono il tuo sindaco», prima di prendersi una pallottola.
Come Dylan con il vascello, anche Francesco si dedica da anni alla costruzione di un diorama che non riesce a concludere. È un teschio che «glows in the dark». Sennonché, nella variante cinematografica, a un certo punto il teschio viene concluso da Gnaghi (che si affretta a smontarlo prima che torni il suo amico), così come in Orrore nero a completare il vascello è un giovanissimo amico di Dylan. E l’Old Boy lo guarda sbigottito: gli toccherà disfarlo… Costruire quel vascello è infatti suo compito, un compito che forse non ha ancora intuito, ma che lo attende. Dellamorte si cimenta anche con l’amore, perdendo la testa per una sorta di entità disincarnata – nel film chiamata semplicemente Lei – che, analogamente al romanzo di Sclavi, si reincarna in tre donne. Rispettivamente una vedova (morsa dal marito defunto e dunque “ritornante”), una segretaria e una studentessa. Tre fasi della vita che si concludono in altrettanti disastri emotivi. Secondo Gianni Romoli, Francesco è «innamorato dell’idea dell’amore, più che di una donna specifica in sé» (come Dylan Dog, tra l’altro, che dietro alle varie donne che frequenta insegue un archetipo). Non che sia alieno all’amore, anzi: se a un certo punto comincia a uccidere i vivi, che tanto tornerebbero comunque post mortem, nondimeno seppellisce insieme due giovani amanti, affinché possano riposare assieme per l’eternità. «In fondo, sono un sentimentale» chiosa disincantato.
«Tra morti viventi e vivi morenti, siamo tutti uguali»: è questa la sapienza tragica del soaviano Dellamorte, guardiano di un limbo sospeso tra aldiqua e aldilà, da cui, a un certo punto, prova a fuggire. Se il libro di Sclavi si chiude con la vittoria definitiva dei ritornanti, Orrore nero vede la riunione dei due protagonisti, assieme ai rispettivi assistenti. In mezzo a loro, Sora Morte in tutto il suo splendore. Nella geniale conclusione del film, invece, un esasperato Francesco sbraita a una statua della Nera Signora parole tratte direttamente da Orrore nero: «Siamo uguali, tu e io. Uccidiamo per indifferenza, qualche volta per amore. Mai per odio». Decide di lasciare Buffalora, ma percorso un tratto di strada deve inchiodare, di fronte a un abisso senza fine. Lo aveva sempre sospettato: fuori dal limbo non c’è niente. Comincia a nevicare: strano, è primavera inoltrata… Sull’orlo dell’abisso, per la prima volta Gnaghi gli parla: «Mi riporti a casa, per favore?». Francesco può solo rispondere: «Gna». È come se vascello e teschio fossero stati conclusi. Sul ciglio del nulla si affaccia la vera vita. Che però cede il passo ai titoli di coda, in cui vediamo la stessa scena racchiusa in una palla di cristallo, che qualcuno ha capovolto, inondando i nostri due amici di neve artificiale. Chissà a chi appartiene la mano che ha orchestrato le loro vite, i loro destini tra morte, amore e altre facezie… Gna.