Tracce di violenza cinefila. Plagi, remake, omaggi
Alessio Di Rocco & Roberto CurtiChe i gialli italiani abbiano influenzato cineasti delle più disparate parti del globo è risaputo, ma fa comunque una certa impressione osservare come quelli di Sergio Martino abbiano dato vita a filiazioni inattese e spesso sorprendenti, a riprova di una solidità narrativa e stilistica di tutto rispetto.
Nel 1972, ad appena un anno dall’uscita di Lo strano vizio della signora Wardh, il regista turco Mehmet Aslan gira un remake dal titolo Aşka Susayanlar (Seks ve Cinayet), con Meral Zeren nel
ruolo che fu di Edwige Fenech, il baffuto Yıldırım Gencer in quello di Ivan Rassimov e Kadir İnanır
a fare le veci di George Hilton. Per buona parte del film la narrazione ricalca fedelmente quella
dell’archetipo estremizzandone la componente di exploitation, ma al momento di tirare le fila del
racconto sceglie una soluzione meno ardita: al posto dei due uomini che hitchcockianamente si scambiano i delitti, si ricorre al più classico stratagemma del marito in combutta con l’amante. Se
non si prende il film sul serio c’è da divertirsi: il maniaco omicida si muove a grandi balzi, le vittime
vengono seguite in soggettiva e a distanza ravvicinatissima senza che si accorgano di nulla, la colonna sonora mescola brani tratti da film italiani (Città violenta) a hit internazionali (Sealed with a Kiss), in barba ai diritti d’autore.
Ben oltre il tedio è invece l’altro remake, questa volta battente bandiera italiana: La strana storia di Olga O. (1995), prodotto da Remo Angioli e diretto da Antonio Bonifacio. Serena Grandi, nel ruolo eponimo, è tormentata dai fantasmi del passato. Per questa ragione il suo psichiatra (Dobromir Manev) le consiglia di ritornare nella sua città natale, dove si verificano alcuni delitti. Presto, però, si scopre che si tratta di un piano organizzato dallo psichiatra stesso e dal marito di Olga (David Brandon), legati da una relazione omosessuale e determinati ad appropriarsi dei soldi della donna. La sceneggiatura di Daniele Stroppa e Maria Cociani fa acqua, per non parlare della scadente regia.
Anche La coda dello scorpione (1971) vanta epigoni, italiani e non. Ragazza tutta nuda assassinata nel parco (1972), diretto da Alfonso Brescia e scritto da Gianni Martucci insieme all’apolide Peter Skerl (che al personaggio interpretato da Pilar Velázquez assegna il nome di sua figlia Catherine, assassinata da un maniaco omicida nei primi anni Ottanta), riprende l’idea dell’investigatore assassino, ricalcando il personaggio interpretato da George Hilton nel film di Martino. Alla parte finale di La coda dello scorpione si ispira probabilmente il climax di Ore 10: calma piatta, diretto da Phillip Noyce nel 1989 e tratto dal romanzo Dead Calm di Charles Williams, che aveva già tentato di portare sullo schermo Orson Welles alla fine degli anni Sessanta con l’incompiuto The Deep. Nel film Nicole Kidman, sola su una barca in mezzo all’oceano, affronta armata di fiocina lo psicopatico Billy Zane, come aveva fatto Anita Strindberg con George Hilton nella pellicola martiniana. Una similitudine tanto più evidente se si pensa che né il romanzo di Williams, né il copione di Welles prevedevano una siffatta scena.
Ma è dall’Oriente che arriva un vero e proprio remake: Duo ming ke di Chan Tung Man (1973), coproduzione di Thailandia e Hong Kong conosciuta con il titolo anglofono Killer in the Dark. Chang, ricco proprietario di un night, muore in un incidente aereo e la moglie, unica erede, viene assassinata poco dopo. Altre donne fanno la stessa fine, tutte uccise a colpi di rasoio. I sospetti cadono su Kung Ua, fratello della prima vittima, ma Linda, intraprendente giornalista, scopre in una foto un dettaglio rivelatore: Chang non era affatto morto nell’incidente, ma aveva simulato la propria dipartita per sbarazzarsi della consorte fedifraga, uccidendo poi le altre donne per sviare i sospetti su un inesistente maniaco sessuale. Come nel caso del film turco, la prima parte ricalca fedelmente il modello, con l’incidente aereo, l’assassinio dell’apparente protagonista, il particolare rivelatore nascosto in un’istantanea, finanche il ritrovamento di un bottone sul luogo del delitto; poi gli eventi e la soluzione del giallo prendono una diversa piega. Distribuito in Italia nel 1977 con l’assurdo titolo L’emulo di Bruce Lee, venne addirittura bocciato in censura e fu proiettato nelle sale senza le scene erotiche.
Riguardo a Il tuo vizio è una stanza chiusa e solo io ne ho la chiave (1972), è ben nota l’analogia tra la scena in cui Anita Strindberg scopre che il consorte scrittore (Luigi Pistilli) ha battuto a macchina più e più volte la frase «uccidere e murare in cantina» e il celeberrimo momento di Shining di Stanley Kubrick (1980) in cui Wendy Torrance scopre sulla scrivania del marito Jack una risma di fogli su cui è impressa un’unica frase: «All work and no play makes Jack a dull boy» (nella versione italiana «Il mattino ha l’oro in bocca»). Plagio o coincidenza? È invece azzardata la tesi1 secondo la quale il copione di Ernesto Gastaldi avrebbe ispirato Aaron Sorkin e Scott Frank per Malice. Il sospetto (1993), sempre con la Kidman.
Un discorso a parte merita I corpi presentano tracce di violenza carnale, del 1973. Distribuito negli Usa da Joseph Brenner l’anno successivo con il titolo Torso, il film sarà una delle opere fondanti dello slasher statunitense: se la prima parte si riallaccia allo schema argentiano con un maniaco mascherato che ammazza belle ragazze, nella seconda l’azione si concentra nella villa isolata fuori Perugia dove Jane (Suzy Kendall), nascosta al piano superiore all’insaputa dell’assassino, è testimone delle mutilazioni perpetrate da quest’ultimo nei confronti delle sue amiche. Il crescendo di suspense che ne consegue introduce una delle situazioni archetipiche dello slasher, ossia la lotta tra l’ultima sopravvissuta (la cosiddetta final girl) e il maniaco omicida di turno, cui la prima cerca di sfuggire con l’astuzia.
Il film di Martino è stato omaggiato anche in tempi recenti: il violentissimo Alta tensione di Alexandre Aja (2003) lo rifà quasi alla lettera nelle sequenze in cui Marie (Cécile De France), per scampare al camionista assassino (Philippe Nahon) che ha sterminato la famiglia che la ospita, risistema la stanza da letto in cui dorme in modo da rimuovere ogni traccia della propria presenza e assiste – non vista – all’omicidio della madre dell’amica.
Lasciano invece interdetti le esternazioni di Eli Roth, il quale si spinge a dichiarare:
«Ma ciò che è così grandioso in Torso è la fantastica sottotrama lesbica. Contiene un sacco di cose “anni ’70” davvero grandi. Ma è anche uno di quei film i cui primi 45 minuti sono abbastanza incomprensibili. Per dirla come Tarantino, “sembra quasi che il film ti sfidi a continuare a guardarlo”. Cioè, quello che vedi è divertente, ed è evidente l’influenza di Torso – il ragazzo che interpretava il dottore, Luc Merenda, l’ho voluto come detective in Hostel: Part II. Era in pensione, ma per me ha fatto un’eccezione. E ci sono le scene in piazza, comincia in una scuola italiana… insomma, Torso ha avuto un’influenza enorme su Hostel: Part II…»2
Al di là dell’impalpabilità della suddetta filiazione, l’approccio ludico al film di Martino, liquidato come un’incomprensibile ma divertente stranezza anni Settanta, è la riprova di un baratro culturale difficile da colmare. Un altro esempio, complementare a quello di Roth, è quello della coppia di registi franco-belgi Hélène Cattet e Bruno Forzani, che in Amer (2009) e Lacrime di sangue (2013) omaggiano il giallo italiano in generale e Martino in particolare, vuoi con appropriazioni dirette (le musiche composte da Bruno Nicolai per Tutti i colori del buio [1972] imperversano nel secondo film), vuoi con un’aderenza formale pedissequa, che ricalca le soluzioni stilistiche degli originali. Un accanimento che ricorda quello dell’assassino di I corpi presentano tracce di violenza carnale, votato ad appropriarsi con la forza di una bellezza che gli è impossibile possedere. I corpi martoriati, qui, sono quelli di alcuni dei più bei gialli degli anni Settanta. E l’assassino è un cinema cinefilo-necrofilo infecondo, che desidera ciò che non riesce a essere.
Note
1 Antonio Tentori, Quando ci copiano gli americani, in Antonio Tentori, Luigi Cozzi, Guida al cinema horror made in Italy, Profondo Rosso, Roma 2007, p. 530.
2 Keith Phipps, “24 Hours of Horror with Eli Roth”, A.V. Club.com, 24 ottobre 2007, www.avclub.com/article/24-hours-of-horror-with-eli-roth-2066. Traduzione italiana a cura della redazione.