Recensione: P. W. Bridgman, «Come stanno le cose»

Andrea Scarabelli
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Recensione: P. W. Bridgman, «Come stanno le cose»

È grande merito delle edizioni Odradek l’aver messo a disposizione quello che fu l’ultimo testo licenziato dal fisico americano Percy Williams Bridgman (1881-1961) e che può, per molti versi, considerarsi come il suo testamento epistemologico. Insegnante ad Harvard a partire dal 1910, premio Nobel per la fisica nel 1946, antimilitarista convinto – nel 1955 firmò, assieme ad Albert Einstein e Bertrand Russell, una lettera-manifesto diretta ai potenti della terra per scoraggiare l’utilizzo degli armamenti atomici –, le sue riflessioni sono volte ad una revisione totale del metodo scientifico, a partire dai suoi momenti costitutivi, come l’esperimento e la verifica. Sebbene chi ancora discetta di “oggettività a tutti i costi” paia ignorarlo, qualsiasi verità non è mai sciolta dal contesto che l’ha prodotta – è sempre la mia verità. Da qui l’appello provocatorio ad usare sempre la prima persona, anche laddove si abbia a discorrere di verità “oggettive”. E questo perché ogni scienza “creativa” – e dunque anche quella detta “positiva” – è una faccenda che prima di essere pubblica è privata. L’esercizio della verità è di carattere individuale, la verità viene prodotta, non cercata e trovata. Rinunciamo a concepire il mondo come oggettivo, “cosale”, e iniziamo a percepirlo come una serie di attività, ci dice Bridgman. Ebbene, questa nuova immagine, non statica e conclusa una volta per tutte ma dinamica e aperta alle più differenti interpretazioni, conduce alla fatidica domanda: se il mondo non è una cosa in sé ma un’attività, chi svolge questa attività? Per rispondere, il riferimento all’Io è fondamentale (e, si badi, non si tratta di un inno al solipsismo, in quanto l’individuo di cui ci parla il fisico non è mai chiuso in se stesso ma sempre sbilanciato verso la relazione). Il mondo è una mia attività, è il prodotto della mia relazione con le cose. Questo lavoro di “archeologia”, mirato a sterrare le radici dei saperi e capire da quale humus traggano nutrimento – per usare quella celebre metafora cartesiana che fu molto cara a Martin Heidegger – è ciò che ci consente, in primo luogo, di capire come davvero stanno le cose; in secundis, dove abbiamo sbagliato. Una considerazione, questa ultima, che non si arresta al piano scientifico-epistemologico ma si estende naturalmente al dominio sociale, ridisegnando i rapporti tra individuo e società. Proprio quel nominalismo di cui Bridgman si fa alfiere, che valorizza le diversità e le peculiarità individuali senza eclissarle all’ombra degli assoluti, è in grado di spezzare le coercizioni, strumenti congeniti della società stessa. Forse è proprio laddove lo strapotere del Leviatano si fa più pressante che emerge la sovranità individuale, inviolabile da parte di qualsivoglia disposizione coercitiva, la quale, “fosse anche di 175.000.000 di persone, è impotente di fronte al mio atteggiamento personale. L’accettazione personale non può essere imposta […]. Un atteggiamento privato può covare sotto la cenere molto a lungo, per poi divampare in una fiammata inaspettata quando i tempi sono maturi. Ogni controllo coercitivo di un uomo sull’altro è soggetto a questo rischio. Gli atteggiamenti personali possono essere modificati dall’educazione, non dalla coercizione” (p. 216). Una disposizione particolarmente utile, per attraversare l’inverno politico che stiamo vivendo, attraversandone indenni le fascinazioni e le chimere. Percy Williams Bridgman, Come stanno le cose (The way things are), a cura di M. Marcheselli, presentazione di E. von Glasersfeld, postfazione di F. Accame, Odradek edizioni, Roma 2012, pp. 288, € 30,00.

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