A Lullaby to the Sorrowful Mystery. La lanterna magica del sogno della Storia
Giona A. NazzaroCome raccontare il sogno di un popolo e di una nazione? Come mettere in inquadrature, separate da tagli di montaggio e giunture, le ellissi e le amnesie del tempo? Con From What Is Before (2014), il cui titolo rimanda inequivocabilmente a un qualcosa che è accaduto prima, ossia prima che il nostro sguardo incontrasse lo schermo, il regista evoca il cortocircuito inevitabile che si dà fra il presente dello schermo, l’atto stesso del guardare (con i propri occhi), e il passato, presunto, di un Paese le cui onde d’urto e cerchi concentrici continuano a riverberare nel rapporto che lo sguardo intreccia con esso una volta che è, letteralmente, immaginato, ossia messo per immagini, e richiamato in vita attraverso il sortilegio del cinema.
(Proveniente) da ciò che era prima, quindi, come un messaggero che si ritrova nel tempo presente per evocare le ombre del passato al fine di riportare alla luce, e ricomporre, un occhio composto (molteplice) in grado di guardare anche attraverso la filigrana delle cose, della memoria, della storia, della scrittura.
Nessun cineasta contemporaneo si è assunto con la medesima determinazione di Lav Diaz il compito di raccontare un intero Paese e la sua storia, negata dalle progressive ondate coloniali e dal successivo rapporto, umiliante, con gli Stati Uniti. Il suo è un lavoro che tenta di conferire forma a una nazione e di conseguenza riscrivere la sua immagine per evocare, ed è questa l’utopia, quasi rosselliniana, un popolo che non esiste ancora il quale, però, potrebbe, da ciò che era prima trovare una possibilità ulteriore, addirittura rinnovata. La nenia per il mistero doloroso evidenzia dunque che quanto scorre davanti ai nostri occhi è postumo, è già accaduto; un altro (mondo, ancora) da ciò che era prima.
I fatti rievocati da Lav Diaz si collocano intorno al 1897. José Rizal, guida della rivoluzione antispagnola, è morto. Autore di Noli me tangere e El filibusterismo, condannato a morte per quest’ultimo libro – del quale il film di Diaz è anche una sorta di adattamento parziale e sui generis – il nome di Rizal è il luogo-narrazione del film di Lav Diaz. Altri ribelli antispagnoli come Andrés Bonifacio hanno condiviso la sorte della loro guida. Anche la rivolta di Katipunan, società segreta fondata proprio da Andrés Bonifacio nel 1892, dopo l’esilio comminato a Rizal a causa dei suoi scritti, è stata annegata nel sangue. Intorno a questo grumo luttuoso di assenze e speranze infrante gravita disperato Simoun, il cui odio lo induce a fingersi amico degli spagnoli nella speranza di convincerli a violenze contro i suoi compatrioti suscitando così la loro rivolta. Gli altri protagonisti, Basilio, Isagani e il coro delle donne, fedeli e traditrici pentite, si inoltrano invece nella giungla per ritrovare i corpi di coloro che hanno sognato la rivoluzione e non ci sono più.
La prima immagine chiarisce esattamente il senso dell’operazione di Lav Diaz. Una camera oscura. Un corpo chino su dei fogli, intento a scrivere. La scena primaria del pensiero che sta per incarnarsi nel movimento del cinema attraverso l’atto della scrittura, inevitabilmente memoriale.
Cullati da una nenia indirizzata a un mistero doloroso, lo sguardo s’inoltra nelle viscere non tanto della storia quanto delle sue stratificazioni e degli oblii progressivi. Si sprofonda dolcemente in un altrove nel quale la realtà si smaterializza, perdendo i propri contorni e permettendo così la sua invasione.
Evocando il sogno delle origini dei Lumière, come contraltare a una memoria che si trova fra la scrittura, la parola orale e un pensiero per immagini ancora da venire, Lav Diaz introduce un riflesso ulteriore all’interno della struttura del suo film, tanto compatta quanto apparentemente dilata temporalmente. Da notare, inoltre, che il cinema arriva nelle Filippine il primo gennaio del 1897, ossia solo due giorni dopo l’esecuzione di José Rizal, che era un oftalmologo e non avrebbe mai visto il cinema.
Ed è proprio il rapporto serrato fra le diverse unità di luogo e il tempo della visione, necessario anche nelle sue ripetizioni volute, nel suo riavvolgersi e ridistendersi – quasi a evocare la non linearità di un pensiero che si oppone all’immagine dominante della storia come racconto sequenziale di avvenimenti eccezionali – a permettere al film di trasformarsi progressivamente in un’evocazione di fantasmi, emanazioni provenienti da ciò che era prima.
In questo suo perdersi e ritrovarsi nella giungla, filmata quasi sempre nei medesimi punti, come se il mondo stesso fosse inevitabilmente collassato in un eterno presente di una storia che non riesce mai a farsi, attraversata da personaggi che si muovono a fatica in essa, avanzando lentamente, Lav Diaz è come se immaginasse il controcampo di From What Is Before, dislocandolo però temporalmente. Come se si ritornasse sempre a ciò che da prima è (già) terminato. Proiettando così, paradossalmente, il futuro in un passato bloccato nella speranza di rimetterlo in movimento. E riattivare, così, la possibilità di raccontare ancora. E trovare, finalmente, l’immagine nuova della donna e dell’uomo filippino.
«Guarda nello specchio, Isagani», risponde lo zio sulla spiaggia alle imploranti e indignate domande del nipote. «Guarda al tuo riflesso. Seziona ogni fibra del tuo respiro. Ogni tocco del vento in voi e nelle profondità della vostra anima» e, prima di allontanarsi, «Correggete i nostri errori».
Un momento quasi rosselliniano, nel suo dichiarato valore pedagogico, cui segue l’ultima immersione nella giungla, con l’apparizione dello spirito ornato dal teschio equino che si avvicina quasi a volere superare la barriera dello schermo che lo separa da noi, prima che la zattera con le donne prenda il fiume e una voce fuori campo dichiari «Per 30 giorni ho cercato le spoglie dell’uomo che ha dato avvio alla rivoluzione filippina. Nessuna traccia. Nessuna risposta. Nulla può reggere il confronto con gli abissi del dubbio. Nulla regge il confronto con gli abissi dell’orrore. Nulla regge il confronto con gli abissi del lutto. Ciò che ho visto è la crudeltà dell’uomo sull’uomo. Ciò che ho visto è la complessità dell’anima umana. Ciò che ho visto è l’oscurità dell’anima umana. Ciò che ho visto è una nazione cercare la propria anima».
Quello di Lav Diaz è dunque un periplo nelle profondità amniotiche della storia delle Filippine. Il corpo della rivoluzione non lo si vede né lo si trova. E il film s’interrompe come se il nastro sul quale è stato inciso, registrato, impressionato, s’interrompesse all’improvviso. Il cinema non è la storia e non può sostituirsi alle domande di Isagani eppure è lì, nella giungla, come una possibilità, alla stregua delle immagini di Straub e Huillet nei boschi di Buti.
CAST AND CREDITS
Titolo originale: Hele sa hiwagang hapis; regia: Lav Diaz; sceneggiatura: Lav Diaz; fotografia: Larry Manda; scenografia: Popo Diaz; montaggio: Lav Diaz; interpreti: Piolo Pascual (Simoun), John Lloyd Cruz (Isagani), Hazel Orencio (Oryang/Gregoria De Jesus), Alessandra de Rossi (Cesaria Belarmino), Bernardo Bernardo (Lalake/tikbalang), Joel Saracho (Mang Karyo), Susan Africa (Aling Hule), Cherie Gil (Babae/tikbalang), Angel Aquino (Androgynous/tikbalang), Sid Lucero (Basilio), Ronnie Lazaro (Sebastian Caneo); origine: Filippine, 2016; durata: 485’; premi: Premio Bauer alla Berlinale 2016.