Melancholia. Perché Malinconia?
Lav Diaz n. 3/2017di Roberto Silvestri
«La mia cazzo di chiesa non è il Partito ma il Cinema». Lapidario, Diaz. Cinema del buon gusto, del cattivo gusto? No. Macchina del tempo che guarisce dai traumi di un passato mal metabolizzato dall’inconscio collettivo. Nel 2008, quando Lav Diaz nel mezzo del cammin, a cinquant’anni, scrive, monta, dirige, musica e gira come operatore il suo film più politico, strano e amato, il trittico di 450 minuti di Melancholia, Manila chiude con l’amnistia un processo di riconciliazione nazionale. Ne sono traccia i 150 minuti quasi finali: il flashback di caccia ai partigiani nella giungla. Scene che, non fosse per la tecnica monacale del one shot che Diaz si impone, e per il bianco e nero squillante, si raccorderebbero a Che. Guerriglia, girato negli stessi mesi da Soderbergh sulla fine del sogno boliviano.
Lav Diaz, che non è filippino ma malayan, un indio non colonizzabile, ha perduto nella guerra di guerriglia di Mindanao – la grande isola a sud del Paese dove è nato e ha vissuto – molti compagni di lotta, universitari massacrati dall’esercito o dagli squadroni della morte, con i cadaveri fatti sparire nel nulla. Tra le vittime anche suo zio, un militare ucciso dai guerriglieri.
Lui ha scelto altrimenti. Figlio di un insegnante socialista radicale (e cinefilo) ma pacifista drastico, ha preferito alla critica delle armi le armi della critica e all’urlo effimero di battaglia forme audiovisive sovversive permanenti e germoglianti. Come musicista e cineasta. Come chitarrista della band post-punk The Brockas, dal nome del cineasta Lino Brocka, il maestro che convertì la sua furia poetica nel guerreggiar schermico. E suoni alla Glenn Branca penetrano sia nella sostanza conoscitiva del film, come sovrimpressioni sonore e rabbia congelata, sia nella formulazione di immagine, dando requie all’ansia dei primi piani mancanti. E come regista di 27 film dal 1998 a oggi, molti, come questo, proibiti in patria, ma che girano il mondo dei festival e delle televisioni adulte.
Forse perché, come direbbe il filosofo francese Rancière1 di chi dà visibilità a un insieme di metamorfosi che producono dissenso, Lav Diaz costruisce geometrie combattenti, scene che non sono né documentarie né fiction in senso classico. Ma «creano un tessuto sensibile comune» di qualcosa che non può essere percepito come si percepisce una storia o un reportage giornalistico.
È un film sull’emancipazione come liberazione da una costrizione, ma anche come liberazione dalla propria incapacità, impossibilità, debolezza.
E l’arte serve proprio a far tessuto comune, a rompere il baratro che c’è tra chi sa e chi non sa, tra l’artista e la cosiddetta folla bakya, che si compiace della propria volgarità. La malinconia è in questo saturnino (Diaz è capricorno) smarrirsi nello spazio, girarci intorno per ricostruire i ricordi di un luogo, da flâneur della storia, da iperclandestino. Così abbiamo in tableaux il fluire del tempo, la mappa della propria vita: i caffè; le panchine sul fiume nero che restituisce l’anima dei morti nei riflessi in forma di fiammelle, quando la telecamera vacilla e vibra come commossa o ubriaca; il geroglifico della ricerca delle tombe; la casa-prove degli amici teatranti; l’ufficio dove si indigna l’autore del saggio La vera storia del cinema filippino; le stanze di albergo e di bordello conosciute in una sola notte di sesso puro; i ristoranti, i covi, i crocicchi fertili…
Leggersi all’indietro è fare una profezia. «Rievocare ogni fatto del passato fa crollare il tempo» scriveva Sontag di Benjamin (saturnino, del cancro). Come lui Diaz non descrive la memoria, ma la condensa in forme spaziali, in strutture premonitorie. Nel realismo senza sponde e pieno di pioggia di questo modo di fare cinema contro, la storia si dissolve sullo sfondo, nello sconsolato, apatico, indeciso, lento, accidioso, degenerato dipanarsi della cronaca del mondo.
I protagonisti del film sono gli spettri degli amici scomparsi di Diaz e gli zombie sopravvissuti, come i tre ex combattenti Alberta, Julian e Rina, che hanno perso i compagni sul fronte e adesso cercano disperatamente di elaborare il lutto, di metabolizzare la sconfitta politica, di rientrare in società trasformando la malinconia in una risorsa invece che in un handicap paralizzante. Per questo si sottopongono a un complicato training performativo, a una terapia “teatrale” e psicanalitica, a un bizzarro gioco di ruolo, assumendo, per superare i loro shock, nomi e personalità differenti e delocalizzandosi in città sconosciute. La deriva, mai vista in faccia con tale asciuttezza, è alta volontà di lavoro, nichilismo fertile. Il cinema non è la prosecuzione da adulti dei serissimi e concentrati giochi di bambini, come diceva Truffaut? E qui di bambini che giocano ce ne sono di piccoli e di grandi, sempre ai bordi dell’immagine, dove si rischia di sparire.
Nella prima parte di questo ironico quartetto dialettico-maoista (critica, autocritica, trasformazione, più appendice: ma la trasformazione è, surrealisticamente, un flashback), ambientata nella nordica Sagada, vedremo Alberta, traumatizzata dalla perdita di Renato, il suo amore guerrigliero, che nella vita è diventata una dirigente scolastica frustrata e combattiva, oltre che mamma adottiva di una ragazza orfana di una coppia di altri comunisti uccisi, una ventenne che risponde alla perdita dei genitori con l’isolamento e l’auto-punizione masochista nella prostituzione. Ed ecco che Alberta si traveste così da prostituta e adesca clienti nei bar e nelle strade buie con risultati asimmetrici. Rina, la più sconvolta e inguaribile, sull’orlo dell’abisso, si veste da suora cattolica e chiede l’elemosina ai passanti per i bimbi affamati. Julian, che ha elaborato questa terapia d’urto, e ne controlla l’applicazione stretta, sogna la moglie perduta che canta spettrale malinconiche melodie. Se nella vita è un serissimo editore, qui fa il (finto) pappa che organizza veri incontri porno “live” per guardoni. Cambiano i nomi. I tre fingono di non conoscersi, ma interagiscono tra loro e con la bella Salgado. Qualcuno rischia di riconoscerli…
Risorgere a vita altra è possibile se si supera unalto quoziente di difficoltà, come vivere senza suolo, nell’ombra, da esuli erranti, trattando le proprie idee ed esperienze come rovine nel tempo. Corteggiando la natura ecco che il paesaggio attraversato a piedi produrrà estasi. Le cose compaiono in lontananza e avanzano aleatoriamente….
Note
1 Rancière Jacques, Dissenso, emancipazione, estetica, intervista raccolta e tradotta da Ilaria Bussoni e Fabrizio Ferraro in occasione del Festival del Cinema Ritrovato, Cineteca di Bologna, 2015.
CAST AND CREDITS
Titolo originale: Melancholia; regia: Lav Diaz; sceneggiatura: Lav Diaz; fotografia: Lav Diaz; scenografia: Dante Perez; montaggio: Lav Diaz; interpreti: Angeli Bayani (Alberta Munoz/Jenine), Perry Dizon (Julian Tomas/mezzano), Roeder (Renato Munoz), Dante Perez (ribelle 1), Raul Arellano (ribelle 2), Malaya (Rina Abad/suora), Irma Adlawan (spiritista/negoziante), Cookie Chua (Patricia/cantante kundiman); origine: Filippine, 2008; durata: 450’; premi: Premio Orizzonti alla 65ma Mostra del cinema di Venezia (2008).