Il Brutto e i Belli

Marina Alberghini
Charles Bukowski – Tutti dicevano che era un bastardo n. 11/2016
Il Brutto e i Belli

Se dobbiamo dare credito alla descrizione fatta dal poeta Harold Norse, Charles Bukowski non era certo una bellezza: «Era deforme, grosso, gobbo, con una faccia devastata, butterata, i denti guasti macchiati di nicotina, gli occhi verdi pieni di dolore. I capelli di un castano scialbo sembravano appiccicati a un cranio abnorme: i fianchi più larghi delle spalle, le mani piccole, mollicce e grottesche. Una trippona da birra gli ricascava sulla cintura. Portava una camicia bianca, calzoni con le borse, un vestito di una misura sbagliata, del genere di quelli che i detenuti ricevono al rilascio. E lui sembrava uno di loro». D’altronde, basta dare un’occhiata alle sue foto… chiunque avesse avuto quella faccia si sarebbe chiuso in se stesso e al mondo. Chiunque… non uno come lui. L’impresa era quasi impossibile, perché la vita fin da subito lo aveva schedato: dal nonno accattone e ubriacone che sbarcava il lunario suonando il violino per strada alla madre succube del padre, anche lui ubriacone, la cui attività genitoriale consisteva in urla e manrovesci. Un bruto che il figlio avrebbe definito «un bastardo crudele con i denti marci».

Hank reagisce: intanto cambia nome; da Heinrich, modificato poi in Henry, come vogliono i suoi, se ne crea uno tutto suo, Hank. Dirà: «Henry mi ha stancato perché i miei genitori mi chiamavano solo per farmi fare qualche commissione o per picchiarmi. Charles è OK solo sulla pagina scritta. È un gran pasticcio. Così dico alla gente di chiamarmi Hank. Il bravo, vecchio, Hank».

Hank ha l’asso nella manica, oltre a un’enorme fiducia in se stesso. E l’asso sono molti amici ideali, amici veri, anche se non li ha mai incontrati: uno di questi è Céline. È dall’autore del Voyage au bout de la nuit che gli verrà la forza di credere in se stesso, nonostante tutto.

Certo, sa bene che per la libertà si deve pagare un prezzo, ma sa anche che quel prezzo tornerà indietro, arricchendoti. Nei momenti di crisi dirà a se stesso: «Ricordati le vecchie pellacce che si sono battute così bene: / Hemingway, Céline, Dostoevskij, Hamsun / Se pensi che loro non impazzirono / Nelle loro stanzette / Proprio come ti succede ora / Senza donne / Senza mangiare / Senza speranze / Allora non sei ancora pronto / Bevi altra birra / C’è tempo / E anche se non c’è / Va bene / Lo stesso». Oltre a Céline, il vino sarà uno dei suoi rifugi per tutta la vita. «Mi aiuterà per tanto tempo» dirà, descrivendo l’inizio del suo amore con il rosso. Poi verrà la scrittura. Peccato che il padre butterà i suoi fogli dalla finestra e lui risponderà prendendolo a pugni. Già allora Charles non era proprio una mammoletta…

Sarà dopo questo episodio che se ne andrà di casa, dapprima trasferendosi in una lurida camera di una pensione-bordello di tagliagole filippini, tirando avanti con mille espedienti, spesso pagato in bevute: non è raro che si svegli ubriaco sulle panchine del parco. Poi arriverà il carcere per renitenza alla leva.

In seguito vive nella e della strada, New Orleans, Saint Louis, Filadelfia, gli basta essere solo, con donne di accatto usa e getta che non badano alla sua faccia ma alla sua virilità potente, e una pinta di birra o vino. Lo sorregge una forza: «La tua vita è la tua vita. Non lasciare che le batoste la sbattano nella cantina dell’arrendevolezza […]. Da qualche parte c’è luce. Forse non sarà una gran luce ma la vince sulle tenebre. Stai in guardia. Gli dèi ti offriranno delle occasioni. Riconoscile, afferrale. Non puoi sconfiggere la morte, ma puoi sconfiggere la morte in vita, qualche volta. E più impari a farlo di frequente, più luce ci sarà […]. Tu sei meraviglioso, gli dèi aspettano di compiacersi in te».

Scrivere è la liberazione – scrivere per sé, non per gli altri, come d’altronde fanno tutti i grandi scrittori. Lo dirà chiaro come in un manifesto: «Se devi startene lì a / scrivere e riscrivere, / non farlo. / […] Se stai cercando di scrivere come qualcun altro, / lascia perdere. // Se devi aspettare che ti esca come un ruggito, / allora aspetta pazientemente. / Se non ti esce mai come un ruggito, / fai qualcos’altro. / […] Non essere come tutte quelle migliaia di / persone che si definiscono scrittori, / non essere monotono o noioso e / pretenzioso, non farti consumare dall’autocompiacimento // […] non aggiungerti a loro / non farlo / a meno che non ti esca / dall’anima come un razzo, / a meno che lo star fermo / non ti porti alla follia o / al suicidio o all’omicidio, / non farlo / a meno che il sole dentro di te stia / bruciandoti le viscere, / non farlo. / quando sarà veramente il momento, / e se sei predestinato, / si farà da sé e continuerà finché tu morirai o morirà in te. // Non c’è altro modo / e non c’è mai stato». E dunque scriverà, Charles. Con lo pseudonimo di Henry Chinaski, suo alter ego, regalerà al mondo sei romanzi, centinaia di racconti, migliaia di poesie, per un totale di oltre sessanta libri. Va dritto al cuore di ciò che descrive, il sottobosco umano, svelandolo senza mezzi termini con uno stile spiazzante e a tratti straordinariamente divertente e comico, dallo humour macabro. Nelle poesie, specie le ultime, svela il suo vero io, fatto di profonda tenerezza per i deboli, bontà e sensibilità.

Pazzo di libertà, farà ciò che vuole, senza curarsi dei giudizi altrui, sia letterari che morali. La sua vita è all’insegna del “colossale”, fatta di bevute colossali, scopate colossali, scazzottate colossali. Ma quando scrive deve essere solo: la macchina da scrivere, la musica classica e i gatti. Queste creature silenziose e senza sorriso sono sempre a fianco degli artisti, specialmente dei cosiddetti “maledetti”, come Bukowski, che per i benpensanti era una specie di diavolo. Talvolta resta senza scrivere per ore, anche per un giorno intero. Ma deve rimanere solo. Solo, perché «la voce umana / Ha il difetto di ricordarmi / la razza umana / e una delle ultime cose cui voglio pensare / e una delle prime da cui voglio fuggire / quando ascolto musica classica è / la razza / umana. / È con lo scopo di dimenticarla / Che io scrivo».

Quando scrive, quell’uomo quasi mostruoso, dall’infanzia straziata e battuto dalla vita, diviene un dio greco, alto e splendente su tutti e tutto. Se non scrive per una settimana, dirà, «mi ammalo, non riesco più a camminare, mi gira la testa, vomito, non mi alzo dal letto». Con i giornalisti e i colleghi è spiazzante: «Io non sono in un mondo comune. Io ho la mia pazzia. Io vivo in un’altra dimensione e non ho tempo per le cose che non hanno un’anima». Niente cenacoli, per lui gli scrittori sono quasi tutti noiosi, banali e autoreferenziali. Meglio due chiacchiere con uno sconosciuto incontrato per strada.

Il suo progetto di vita è semplice: «La maggior parte della gente si è persa tutto, i bei dipinti, i bei libri, le grandi sinfonie classiche. […] E quelli che credono in un dio preconfezionato sono gli unici che stanno facendo esperienze terrificanti. Le loro menti sono infarcite del pattume di migliaia di anni. Accettano l’indottrinamento. Affrontiamo i fattori della vita come sono. Se veniamo presi a calci in culo non concludiamo che sia la volontà di Dio. O se facciamo qualcosa di eccezionale non diamo credito all’Altissimo. […] La felicità e il significato profondo della vita non sono delle costanti, ma credo che qualche volta possiamo avere entrambi se riusciamo a fare quello che vogliamo fare realmente, quello che ci piace veramente, invece di seguire regole preconfezionate. […] Quelli che si inchinano dinanzi a strade false e falsi Dei raccolgono solo la confusione e l’orrore di vite sprecate».

Con le donne è sbrigativo fino alla brutalità e fobico di legami, finché cade nella trappola nel ’57, con Barbara Frye, una poetessa che non aveva mai incontrato prima. Ma finisce presto con un divorzio. Il giorno che, alle sette del mattino, gli bussano alla porta, portando i documenti del divorzio, torna a letto, si fa la moglie per l’ultima volta e se ne va, sbattendo la porta. Di nuovo libero.

Libero fino a un certo punto, perché si deve pur mangiare, e lo farà con un impiego alle Poste che durerà un decennio. In quegli anni, da una compagna del momento, Frances Smith, ha anche una figlia, Marina Louise, ma a un certo punto Frances si prende della vecchia sdentata ed è liquidata come le altre. Non tutte allontanò, e possiamo dire che il suo vero grande amore fu Jane Cooney Baker, una piccoletta bruna dal viso piccante. Jane era affetta da crisi maniaco-compulsive che la portavano a bere in quantità smisurata: morì a cinquantun anni, lasciandolo distrutto.

Bukowski è impiegato alle Poste. Proprio quando sta per arrendersi, arriva il suo salvatore: John Martin gli offre cento dollari al mese per tutta la vita, purché scriva per lui e lasci il lavoro di archivista. Ha quarantanove anni. Medita. E decide. Ha solo due alternative: «Restare all’ufficio postale e impazzire… o andarmene e giocare a fare lo scrittore e morire di fame. Decisi di morire di fame».

Il resto è Storia. Appare sempre più come un bevitore, erotomane assatanato, provocatore, clown, sboccato, un Dioniso/Diogene, mentre dal suo scrivere a volte escono frasi profonde e importanti: in silenzio, sta operando una rivoluzione nella poesia americana. Porta la letteratura nei luoghi out, trasgressivi, tra puttane d’accatto, giocatori, bordelli, bar, manicomi, camere in affitto, e negli squallidi ambienti alla Hopper, con uno stile fatto di ironia brutale, menefreghismo, frasi spezzate come coltelli, che come coltelli spesso vanno a fondo. Los Angeles sarà il suo sfondo e il suo soggetto preferito.

Inutile dire che verrà emarginato da un certo pubblico, che lo considererà un rozzo pornografo con venature da delinquente. Se ne fregherà altamente.

Questi atteggiamenti brutali, che certamente sono una forma di difesa, faranno da schermo a una profonda sensibilità, che si rivelerà nelle ultime poesie, e che gli farà perfino sentire che giardini e case sono esseri viventi, tanto che nella poesia Sicurezza sentirà piangere la casa dei vicini, banali e indifferenti. «La casa è triste / per la gente che ci vive / dentro / e lo sono anch’io / io e lei ci guardiamo…»

Anche a lui, come a Paul Klee, Céline, Lewis Carroll e molti altri, chiederanno il segreto della scrittura. La risposta sarà la stessa: «Quando mi siedo alla macchina da scrivere non ho idea di cosa scriverò. […] Mi piace che il lavoro arrivi per caso dietro il mio orecchio sinistro. Mi sono accorto di trovarmi in una specie di trance quando scrivo». Le sue poesie, invece, avranno cadenze cooptate dalle Fughe di Bach.

Hank non sopporta il successo, meno che mai quello tributatogli dai mass media. Quando è invitato a parlare, non si sa mai cosa succederà, e spesso fa anche paura. Nessuno conosce la sua fobia del pubblico: «I minuti prima di cominciare erano un incubo: dovevo sempre ubriacarmi pesante e vomitare». Come quando lo invitano a Parigi nel celebre programma Apostrophe, una trasmissione di interviste a scrittori famosi condotta da Bernard Pivot. C’era chi avrebbe fatto carte false per essere invitato.

Naturalmente è l’ospite d’onore. L’ambiente non è proprio bukowskiano, ma quello radical chic degli intellettuali francesi dell’epoca, tutti piuttosto concentrati sulla propria intelligenza e razionalità, nonché autoreferenziali.

Appena iniziano le domande, si gira verso la moglie, dicendole che sono prive di senso. Allora Pivot chiede a lui di iniziare con una dichiarazione. E Bukowski esordisce: «Conosco moltissimi scrittori americani che farebbero i salti mortali per partecipare a questo programma. A me, veramente, non è che importi molto…». Dopo di che si attacca alla bottiglia, la prima delle tre che si è portato dietro. Beve a garganella, emettendo rumori sordi dallo stomaco. Ogni tanto esce un sonoro rutto. Cavanna, altro giornalista celebre, perde la pazienza e gli lancia un «Ta gueule!». Allora lui si piega in avanti e comincia a tastare le cosce di Catherine Paysant. Lei balza in piedi e, alzandosi la gonna, esclama: «Ebbene, e vai ce n’è ben qua per il pompon!», mentre scoppiano le risa. La cosa sta prendendo una strada boccaccesca, mentre Bukowski continua a eruttare, contorcendosi. A Pivot viene in mente, con terrore, che già un’altra volta lo scrittore ha vomitato sul microfono. Così decidono di farlo uscire, trascinandolo via completamente sbronzo.

D’altronde, il vero Bukowski non è quello di questi ambienti intellettuali e intellettualistici, ma si trova nel suo rapporto con la musica classica. E con i gatti, suoi alter ego silenziosi, splendidi di quella bellezza a lui negata alla quale si abbevera, compagni dell’amata solitudine. Tanti gatti, più ce n’è meglio è: «Avere una banda di gatti intorno è bello» dirà in un’intervista con la Pivano. «Se ti senti giù, basta guardare i gatti e ti sentirai meglio, perché loro sanno che tutto è semplicemente come è. Non vale la pena prendersela. Loro lo sanno e basta. Sono i salvatori. Più gatti avrai, più vivrai.»

I salvatori. I guaritori non solo delle crisi più intime, ma di tutto, come conferma oggi la pet therapy. Tramite il loro fascino, nella poesia In altre parole il Bukowski pornografo, sboccato e trasgressivo scompare, per lasciare il posto a quello vero: «Gli egiziani adoravano i gatti / Spesso ci si facevano seppellire insieme / Invece che con le donne / E mai coi cani // Ma ora / Qui da noi / Scarseggiano / I sapienti / Di tal fatta // Benché ottimi gatti / Ozino ancora / In grande stile / Nei vicoli / Dell’universo // […] La magia persiste / Fuori di noi / Per quanto / Ci sforziamo / Di spezzarla».

Sarà Linda Lee, la sua seconda moglie, a portargli il primo gatto, che sarà veramente il suo angelo custode, anche perché lo capirà profondamente. Linda gli dà una vita stabile, lo fa bere meno, lo mette a dieta e gli permette di stare a letto fino a mezzogiorno, lasciandogli frequentare le corse dei cavalli, la sua passione.

E se si pensa che Bukowski era un tipo violento e irascibile, che girava con un coltello in tasca (non era solo l’immagine di copertina, ma anche quella vera), Linda fu straordinaria nel capirlo a fondo e, volendogli bene davvero, calmarlo. Altrimenti, prima o poi sarebbe finito accoltellato da qualche parte, o sarebbe morto per cirrosi epatica da alcol, tanto più che un’emorragia gastrica l’aveva già avuta. Non a caso sarà lui ad asserire: «Ospedali, galere e puttane, sono queste le università della vita. Chiamatemi dottore».

Nel tempo, oltre che Salvatori, i gatti diverranno i suoi Maestri: «mi piace quel piccolo loro sapere, / che è infatti / molto. // il loro lamentarsi dura poco / né si preoccupano. / e vanno con sorprendente dignità. // […] quando mi sento / giù / basta che / guardi i miei gatti / e il mio / coraggio / ritorna. // Io studio queste / Creature. // Loro sono me. // […] è l’attimo di malinconia / Che precede mezzanotte, / Wagner ruggisce fuori / Dalla radio, / io m’inchino / all’agonia / e alla magia / di quell’uomo / da tempo defunto, / ora è qui / con me / spaventoso / e fantastico, / poi s’avvicina / uno dei miei gatti, / mi guarda / di sottecchi / con occhi / gloriosi, / quindi fa un balzo / sulla scrivania / e lì si ferma. / Wagner gli rimbomba / Addosso / Io allungo la mano / E lo tocco. // Incredibile».

Sarà sempre solitario come un gatto. E individualista e indipendente come un gatto. Quell’uomo bruttissimo s’illuminava della bellezza dei suoi amici, che immetteva nelle pagine, dove sono talmente vividi che ci sembra di toccare il loro manto di seta. Tanti felini, sempre accolti con gioia, anche quelli neri, sui quali grava una superstizione idiota. Così descriverà l’arrivo del gatto nero: «Aprii la porta e uscii sulla veranda. C’era uno strano gatto, là fuori. Era enorme, un maschio, col pelo nero, lucido, e gli occhi gialli luminosi. Non aveva paura di me. Si avvicinò, cominciò a strusciarsi contro una delle mie gambe e a fare le fusa. Io ero un brav’uomo e lui lo sapeva. Gli animali sapevano sempre cose del genere. Avevano una specie di istinto. Tornai dentro e lui mi seguì». A Craney, un gatto pacioccone, dedicò una poesia, Pelo figo: «Dorme sulla schiena / Un po’ dovunque / Le gambe stiracchiate / All’insù. // Sa che mai / Lo calpesteremo / Ma non sa / Come / Incompleto e nervoso / Sia degli umani / Il sonno. // E il vivere». Beecker era invece il matou dei francesi, «un combattente. A volte le becca ma vince sempre lui. Gli ho insegnato tutto io… tira di sinistro, centralo col destro».

Via via che il leone invecchia, privilegia sempre più gli elementi essenziali della vita: la casa, una donna devota, i gatti, la musica. Sa che è arrivato in porto. Scrive: «È quello che ho sempre desiderato. Ora mi piace solo bere buon vino e carezzare i miei gatti». E meditare: «È Natale da fine ottobre. Le lucette si accendono sempre prima, mentre le persone sono sempre più intermittenti. Io vorrei un dicembre a luci spente e con le persone accese». Sono convinta che i gatti “guaritori” abbiano veramente sanato quell’anima tormentata.

I gatti e la musica saranno i compagni che vorrà vicino all’approssimarsi della morte: lui sa quando la Vecchia Signora si sta facendo avanti. Lo capisce dal suo aspetto, descritto così da un amico: «Il volto è deturpato e segnato […] come quello di un gatto selvatico battagliero; l’agiatezza casual della sua casa, i tanti, tanti gatti che gironzolano, tutti ex randagi raccolti da Bukowski che gironzolano per il soggiorno».

E lo sente, come si legge nella poesia Il bicchiere della staffa: «Credetemi non immaginavo / Di vivere così a lungo, / Pianificavo / una rapida via d’uscita di scena / per cui ho vissuto / con sprezzante abbandono. / […] abbiate pazienza vi prego, / un giorno me ne andrò, / non insozzerò più le pagine / con versi semplici e crudi. […] / Ma per adesso, per stasera, / scrivo, / musica classica come sempre / alla radio / combatto col / computer / e le parole si formano / e brillano sullo schermo. […] // sicché ora riempio il bicchiere / e brindo a tutto quanto: / ai miei fedeli lettori / che mi hanno tenuto / sempre a galla, / a mia moglie / e ai miei gatti / e al mio editore». La morte che si avvicina comporta anche una maturazione: «Non mi dispiace avvicinarmi alla morte: infatti ci si sente quasi bene. Ma servono colori diversi per la dannata tela». E ci parla, con la morte: «Ti ho dato tante di quelle occasioni che avresti dovuto portarmi via parecchio tempo fa. Vorrei essere sepolto vicino all’ippodromo… per sentire la volata sulla dirittura d’arrivo». Solo un suo aspetto non gli andrà bene: «La morte / Non mi preoccupa / Ma m’incazzo / Quando muoiono / Gli animali».

Nel 1988 era giunta la tubercolosi, forse covata sin dall’infanzia, ma Charles aveva continuato a scrivere e pubblicare libri fino a quando, il 9 marzo 1994, all’età di settantaquattro anni, muore stroncato da una leucemia fulminante, a San Pedro, poco dopo aver completato il suo ultimo romanzo, Pulp. I funerali vengono officiati da monaci buddisti, alla cui disciplina spirituale si è avvicinato negli ultimi anni. Nella sua ultima poesia è già Oltre, assistito da un grande amico: «sto / per morire / ma non ho / rimorsi / al riguardo // io e Bach siamo / in questa stanza / insieme. // Ora la sua musica / Mi eleva / Al di sopra del dolore / E dei miei / Patetici / Egoismi».

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