Cos’hanno in comune Paul Newman, i Beatles, Che Guevara, Frank Sinatra, Marylin Monroe, Elvis, Oprah Winfrey, Lady Diana e Jim Morrison con Charles Bukowski? Niente, proprio niente. Eppure, la svilente declinazione della moda contemporanea di etichettare qualunque fenomeno di massa ad icona pop ha finito per coinvolgere anche il nostro Hank, tanto da relegarlo a font per t-shirt, generatore automatico di stati per social network, riferimento culturale per la gioventù dissoluta ed universitaria dell’Occidente contemporaneo. È il classico adagio comportamentale di chi, mediante sottilissime e ben curate operazioni di marketing, usa abitualmente prendere messaggi letterarii corposi, sostanziali, spesso scomodi, per operare una reductio scientifica verso il nulla. Depotenziare, destrutturare, commercializzare, in qualche modo svilire. Di Charles Bukowski viene così fuori un’immagine assolutamente perdente: il quadro esistenziale di un dipendente assoluto, promulgatore di un non meglio specificato nichilismo latente costituito da alcol, donne e riflessioni perfettamente riadattabili ai problemi sentimentali della gioventù dalla citazione facile su Facebook. Bukowski, capiamoci, è solo una delle vittime della scientemente promossa attività di superficiale lettura ed interpretazione dei caratteri fortemente antimoderni di buona parte della letteratura, ma è ultimamente annoverabile come una delle operazioni meglio riuscite di questo marketing.
Lo ha ben raccontato Roberto Alfatti Appetiti nel suo Tutti dicono che sono un bastardo. Vita di Charles Bukowski(1). Leggendo le pagine della biografia in questione, si arriva in modo strutturale a poter affermare che i riferimenti filosofico-letterarii del nostro non erano affatto inclini ad osannare l’insieme di valori promulgato nella storia dalla beat generation, ancor meno la modernità liquida, per usare un’espressione di Bauman, così come relativismi etici vari e così via. Le modalità con cui il mercatismo riesce ad operare nei confronti delle personalità letterarie sono volte a creare degli influencer di stili di vita consumistici, ed è così che la passione di Bukowski per le donne, esemplificativamente, viene trasformata nella consueta litania del sentimento mercificato a consumo.
Hamsun, Céline, Dostoevskij, Hemingway, Fante: queste le profonde passioni culturali del vecchio Hank, nomi difficilmente associabili al mito del progresso tout court. Più facile, certo, accostarlo a Feltrinelli, Kerouac o Hemingway, andare alla ricerca di poster nelle stanze delle camere degli universitari che affiancano lo scrittore americano al Che e alle litografie di Kandinskij, usandolo come giustificativo esistenziale alla propria, personalissima, dissolutezza.
Più arduo, di sicuro, assumere la storia di Charles Bukowski nella sua interezza, dall’origine tedesca ai trascorsi all’interno di movimenti giovanili estremisti, dell’una come dell’altra parte: «La differenza tra dittatura e democrazia è che in democrazia prima si vota e poi si prendono ordini, in dittatura non dobbiamo sprecare il nostro tempo andando a votare»(2). E ancora: «Al L. A. City College, poco prima che cominciasse la Seconda Guerra Mondiale, mi atteggiavo a nazista. Distinguevo a fatica Hitler da Ercole e non poteva importarmene di meno. Era soltanto lo stare seduti a lezione e sentire tutte le prediche patriottiche su come dovremmo andar lì e fare del nostro meglio mi vennero a noia. Decisi di diventare l’opposizione. Non mi prendevo il tempo neppure per informarmi su Adolf, semplicemente sputavo qualsiasi cosa che pensavo fosse malvagia o bestiale»(3).
Esaltare l’intera vicenda di vita di uno scrittore senza sezionare e parcellizzare le parti che più fanno comodo, insomma, è quello che ha fatto Appetiti nell’opera di cui sopra. Esiste, d’altro canto, un conformismo da speculazione che associa Bukowski, in particolare il Bukowski poeta, alla beat generation e al rock, un’operazione puramente commerciale tesa alla creazione di un brand – il Brand Bukowski, per l’appunto. Chiunque può facilmente ricercare il pensiero reale del nostro Hank su quella generazione, su quei moti ideali, su quel sistema valoriale. Basta spulciarsi le interviste comparse sulla stampa nazionale ed internazionale attorno al ventennale della scomparsa dello scrittore americano, in ordine: «Da dove trai ispirazione? Non sono certo di cosa mi ispiri. Crisi di disperazione. Morte nella scarpa sinistra. O magari anche lunghe ore di calma benefica. La musica classica mi innalza. L’ippodromo mi dà una panoramica delle masse. Dante le conosceva bene. Sono stato influenzato da scrittori niente male: Dostoevskij, Gor’kij, Turgenev, il primissimo Saroyan, Hemingway, Sherwood Anderson, John Fante, Hamsun, Céline e Carson Mccullers. E ovviamente da James Thurber. E per la poesia da Robinson Jeffers, E. E. Cummings e un po’ da Ezra Pound»(4). «E gli scrittori della beat generation? Oh, no. L’ho detto troppo in fretta, vero? Ma è così. In loro sento una certa falsità di fondo»(5). Ezra Pound, quindi, contrapposto a una certa falsità di fondo. Andarlo a raccontare in giro, oggi, a chi rinomina le proprie pulsioni di reintegro della visione del mondo beat cospargendole di Charles Bukowski, risulterebbe probabilmente anche scabroso.
È lo stesso Hank, del resto, ad evidenziare ancora vivente l’esagerazione e le forzature d’immagine che le sue opere erano costrette a subire. È già stato detto: non serve scavare così a fondo, basta essere testuali e mettersi a leggere e ascoltare le parole di chi è coinvolto in prima persona in questa fallacissima ma maledettamente ben riuscita mercificazione letteraria: «Quando hai capito che stava per arrivare il successo? Ho vissuto in una catapecchia di cartone ad Atlanta, Georgia, per un dollaro e venticinque centesimi al giorno, senz’acqua ed elettricità. Non avevo neanche la macchina da scrivere. Scrivevo sui bordi di giornale, e nonostante questo sapevo già di essere uno scrittore eccezionale, anche se non c’era nessuno lì pronto a dirmelo se non io stesso. È arrivato tutto troppo tardi per me per non essere sospettoso. E ci sono degli effetti collaterali spiacevoli. Mi arrivano lettere d’odio. Telefonate d’odio. Ho gente che mi odia e mi vuole uccidere. E la gente si aspetta che io sia sempre conforme alla mia immagine»(6). E qual è questa immagine? «È superesagerata… che sono un duro, e salto dentro e fuori dal letto con tutte le signore, e così via. Questo lo facevo in una certa misura, ma in generale sono superesagerati. Hanno esagerato quello che sono, quello che ho fatto, quello che faccio. È un po’ hyped-up, pompato… La migliore immagine che dovrebbero farsi di me, l’immagine vera, è semplicemente leggere quello che ho scritto e non fare invenzioni fuori dai libri»(7). Invenzioni come quelle che ritraggono l’archetipo del nichilismo americano in braccio a Charles Bukowski, anticonformista semmai, dedito all’innamoramento più che al libertinaggio, alla metafisica della dipendenza assoluta dalle donne, dal fumo e dall’alcol, non per trasposizione dannata dei costumi quanto, più probabilmente, per delle ferite di carattere psicologico che un’infanzia non trascorsa esattamente nella serenità potrebbero aver lasciato in regalo ad Hank, specie a causa della violenza del padre.
Primordi della vita tremendi, cui la scrittura e la poesia, in qualche modo, ebbero la capacità di rimediare, per ammissione stessa di Charles. Degli autori e dei libri letti in giovinezza dice esemplificativamente, in Primo amore: «Mi offrivano una opportunità e qualche speranza in un posto senza opportunità, speranza, sentimento… senza quei libri non sono del tutto sicuro di cosa sarei diventato: delirante; parricida; idiota; buonannulla»(8). Come spesso succede in letteratura, quindi, lasciar parlare gli autori, lasciar loro l’espressione di se stessi e del proprio panorama valoriale consente di inquadrare meglio il tutto e liberare figurativamente l’imago che il mercato editoriale ed i suoi interessi tendono inevitabilmente e costantemente a costruire.
Evitando inutili esercizi di stile ermeneutico volti a reinterpretare in salsa metapolitica la vicenda intellettuale di Bukowski, la questione dirompente è che Hank ci mostra moltissime caratterizzazioni dell’esistenza dell’uomo ma non giustifica aprioristicamente la modernità nella sua accezione “liquida”, come la rilettura contemporanea cerca quotidie di far credere a migliaia di giovinastri col radar ormonale più o meno sotto controllo. Esigenze di vendita, ovviamente, ma soprattutto una snaturalizzazione di alcuni messaggi letterarii che merita un blocco fermo e deciso a mò di operazione verità. Questo lavoro, in modo più che esaustivo, lo fa il già citato libro di Appetiti, la cui lettura diventa indispensabile per una discesa veritiera nell’inferno di Bukowski, senza le contaminazioni di cui si è largamente parlato in questo articolo. Va specificato, per la medesima correttezza di esposizione, che il nostro non può neppure essere considerato un antimoderno. Anzi. Si potrebbe asserire che, come spesso accade in letteratura, lo sport di attaccare forzatamente etichette al fine di sentirsi più rappresentati, più capiti, per esigenze identitarie – o, in maniera meno nobile, per stretti motivi di bancarella –, è dannoso, oltre che inutile. Dannoso, perché scompone la vita delle persone, rendendo vane, superficiali ed irrilevanti le radici psicoesistenziali della loro genialità nello scrivere, deformando i messaggi, l’insieme, l’opera letteraria. Inutile, perché la forza delle parole lasciate scritte costituisce, per antonomasia, un irresistibile scudo a qualsivoglia operazione di brand si provi a mettere in campo. Il “caso Bukowski” è emblematico: per quanto una reductio verso il nulla assoluto sia il comune adagio della maggior parte degli interpreti contemporanei, ponendo in evidenza semplicemente quello che il Nostro ha realmente lasciato, nero su bianco, all’umanità intera, tutto si riappropria del suo significato in modo assolutamente autonomo e naturale.
- Edizioni Bietti, Milano 2014.
- Charles Bukowski, Compagno di sbronze, Feltrinelli, Milano 1979, p. 54.
- Charles Bukowski, Questioni di politica, in A sud di nessun nord, Guanda, Parma 1998, p. 34.
- Charles Bukowski, Il sole bacia i belli. Interviste, incontri, insulti, Feltrinelli, Milano 2014, p. 284.
- Ivi, p. 154.
- Ivi, pp. 193-194.
- Charles Bukowski, Quello che importa è grattarmi sotto le ascelle, Feltrinelli, Milano 1997, p. 43.
- Cfr. Charles Bukowski, Primo amore, in Quando eravamo giovani, Feltrinelli, Milano 2015.