Introduzione
Roberto Alfatti AppetitiTutti dicevano che era un bastardo. Non che si potesse dar loro torto, intendiamoci. Hank, con la sua bastardaggine, c’aveva costruito una maschera e una mazza, un rifugio e una posa. Lo lasciava intendere a chiunque gli si avvicinasse: sono un bastardo. Era il suo biglietto da visita, stampato su quel volto butterato, poco adatto a un dipendente delle poste, foss’anche un postino on the road. La strada, polverosa, assolata e indifferente, l’avrebbe lasciata volentieri ai beat, quegli apprendisti stregoni desiderosi di incontri, abbracci, applausi e rivoluzioni, ardenti di collettivismo, amore libero e stronzate del genere. «Gli scrittori che si mettono in mostra nel gran baraccone hippie. Giganti dell’umanità? Cazzate. Giganti della pubblicità.» Alle protest song di Bob Dylan e Joan Baez preferiva Brahms e Mahler, possibilmente da ascoltare sorseggiando birra, una confezione da sei, al riparo di quattro mura.
Se il vecchio Hank non avesse manifestato il suo incrollabile fastidio per la retorica del sogno americano, azzarderemmo una definizione: self-made man. Un solitario che amava coltivare i propri vizi, più prosaicamente. La sua scalata verso il mito non è stata una passeggiata di salute: se l’è guadagnata centimetro dopo centimetro, trascinandosi dallo sgabello malfermo dell’ultimo dei bar sino al palco più o meno posticcio di un reading che di letterario aveva ben poco, pubblicando i primi ciclostilati per l’underground californiano. Un voyage che lo porterà a conquistare l’Europa a metà anni Settanta e assai più tardi a farsi conoscere negli States, paradossalmente grazie alla trasposizione cinematografica dei suoi libri, film come Storie di ordinaria follia diretto dal “nostro” Marco Ferreri, con la faccia di Ben Gazzara, «le cui espressioni sembrano quelle di un uomo che soffre di stitichezza». Opere in cui la società statunitense è molto diversa dalle immagini edulcorate che in quegli anni presentano il nuovo continente come una terra promessa. La rappresenta per quello che è: tutt’altro che un modello d’esportazione, un luogo in cui luci e ombre, fiaba e incubo, si mescolano con imprevedibile e irragionevole casualità.
L’avanzata di Bukowski parte dalla Germania, suo paese d’origine mai rinnegato, passa per la Francia e arriva infine nell’Italia libidinosa degli Ottanta, in cerca di pruriginose trasgressioni narrative. Più i critici inorridivano, più i ragazzi lo amavano. Sognavano di essere Bukowski, potremmo dire parafrasando il titolo del generazionale romanzo cult con cui Gino Armuzzi, nel 1994, raccontava la picaresca vita di un giovane bocconiano che sognava «di essere Bukowski, buttato qua e là tra i bordelli di Los Angeles, con un bicchiere di whisky in mano e una prostituta accanto». Già, diventare Bukowski. Ci hanno provato in molti. Decine, centinaia di aspiranti scrittori hanno tentato di imitarne lo stile. Caricature smarrite nell’anonimato.
Nel frattempo, Charles – quel nome che da ragazzo gli sembrava troppo pretenzioso – si era strappato a morsi il suo angolo di paradiso borghese e se lo teneva stretto. Lo custodiva con la stessa cura con cui aveva scelto una villetta in una zona residenziale. Nascosto la sua privacy dietro una siepe sufficientemente alta da tenere fuori chicchessia. Tenuto a bada i pellegrini che andavano a cercarlo, pretendendo di essere ricevuti. Trovato una donna da amare, dopo tante disgraziate, ubriacone e matte, che si prendesse cura di lui, allungandogli la vita – come diceva compiaciuto – di almeno dieci anni. Le etichette, però, sono appiccicose. Non vengono via. Neanche se le nascondi dentro la fodera di un cappotto elegante e ti radi tutte le mattine. Malgrado tu sia un padre attento e affettuoso. Quella corazza da duro, da puttaniere, da ubriacone – anzi, da barfly, mosca da bar – gli è rimasta cucita sulla pelle fino alla fine, e anche dopo.
La sua faccia, sfigurata da una violenta forma di acne giovanile, l’hanno riprodotta sulle magliette degli epigoni del sessantottismo imperituro, parte integrante del merchandising del carrozzone conformista di sinistra. Ne hanno fatto un marchio. Le sue frasi continuano a fare il giro del web e per la maggior parte sono apocrife. Possono sembrare bukowskiane, ma non le ha scritte lui. Perché il mondo vuole essere salvato e reclama le sue icone, da indossare con noncuranza e infilare in lavatrice affinché siano pulite per la prossima manifestazione. Il Bukowski che sfila in piazza con pacifisti e sedicenti progressisti! Ve lo immaginate? Lui, che detestava apertamente le associazioni benefiche, le mobilitazioni democratiche e tutto quanto esprimesse buone intenzioni. Scommettitore abituale, agli studenti politicizzati, ai ribelli di professione, ai professorini con la cravatta, ai redattori di prefazioni (come questa) e ai giornalisti ignoranti e invadenti prediligeva i frequentatori degli ippodromi: «Arrabbiati, preoccupati, ingannati, scannati, inculati ma pronti a ricascarci, se rimediavano i soldi».
Hank i soldi li aveva fatti e, come tutti coloro che hanno conosciuto la povertà, si guardava bene dallo sperperarli. Lui, che aveva giocato più volte con la morte, dormito nei vicoli tra cocci di bottiglia e topi, era diventato un uomo misurato, per quanto possibile. Un buon amministratore di se stesso, attento anche alla qualità del vino da scegliere: bianco e tedesco. La corazza che gli aveva salvato la vita negli anni più difficili, tuttavia, gliel’ha rovinata in quelli migliori. Perché il suo pubblico non voleva altro che Bukowski così come pensava d’averlo conosciuto. Nulla di più. Nulla di meno. Cazzotti e scopate. Da parte sua, invece, Buk rivendicava il diritto di cambiare, sperimentare nuove forme di linguaggio, improvvisarsi investigatore e mettersi a caccia di Louis-Ferdinand Céline, l’unico che – parole sue – scrivesse meglio di lui. Era morto davvero o si nascondeva da qualche parte? Fedele a se stesso, aveva smesso di recitare il ruolo di Bukowski e non si era lasciato inghiottire da Hollywood, «il luna park dell’idiozia». Sfuggiva alla mondanità, frequentava pochi amici. Perché era timido.
A noi piace pensare che Hank, venuto a mancare nel 1994, sia ora da qualche parte, lassù o laggiù, con la Pall Mall senza filtro tra le labbra, a bere una birra con i pochi colleghi che avrebbe voluto frequentare. Nessun contemporaneo. «Le vecchie pellacce che si sono battute così bene: Hemingway, Céline, Dostoevskij, Hamsun.» E John Fante, «il nostro mentore, il nostro Dio», l’unico che avesse mai riconosciuto come maestro. È grazie a Bukowski, che fece appena in tempo a conoscerlo, quando era già gravemente malato e dimenticato da tutti, se Fante è stato riscoperto ed è oggi meritatamente famoso. Un italiano, un abruzzese di seconda generazione nato negli States, un dago, come venivano apostrofati i nostri connazionali, un figlio illegittimo degli Stati Uniti, proprio come il vecchio Hank. Sì, una gran bella coppia di bastardi.