Ci sono scrittori che insegnano ad amare. Ad amare la vita, l’umanità, scrittori che celebrano la fratellanza e il benessere, il progresso e la civiltà. Non è tra questi che può essere annoverato Charles Bukowski, cui è dedicato l’undicesimo fascicolo della rivista «Antarès – prospettive Antimoderne», edita da Bietti e dedicata alle realtà culturali non conformiste del Novecento.
È un Bukowski, quello di «Antarès», molto diverso da quello che ci hanno propinato e che è entrato nell’immaginario collettivo. Per anni ce ne hanno venduto uno totalmente artefatto, costruito ad uso e consumo dei grandi marchi, che spesso non hanno timore di stemperare e ritoccare gli autori per consegnarli “ripuliti” alla critica letteraria nostrana. Un autentico brand, che ha totalmente snaturato l’autore di Storie di ordinaria follia.
Uno dei meriti più importanti di questo Anarca in terra statunitense è averci insegnato a odiare. Ma senza rancore o risentimento. E nemmeno con pretese moralizzatrici. Il Bukowski che troverete nelle colonne di questo numero non è un agitatore sociale, né un ribelle, ma è impolitico e non allineato, un uomo che combatté la propria guerra da solo, ad onta di tutto e tutti. Che mai sacrificò la sua personalissima causa agli ideali dei più. Anche se tutti, noi no potrebbe essere il suo motto. E non lo fece per farsi vedere, o per accattivarsi le benevolenze dei potenti. Lo fece per mantenersi integro nella lotta, vivo nell’opposizione.
Ma cosa odiava Bukowski?
Odiava le masse, ad esempio, e quegli autori che le masse corteggiavano, adulavano e celebravano, rivestendo di tinte ideologiche la ricerca di fama e l’incremento dei diritti d’autore.
Odiava i professori e i professionisti della cultura, quelli che lo guardavano dall’alto in basso, «gli intellettuali, i poeti, gli studiosi, i filosofi, i professori, i liberali, tutti i nostri amici… o, più precisamente, i vostri amici. Ho sempre apprezzato di più le chiacchierate con i carcerati che quelle con i professori universitari». Meglio stare lontano dai cattedratici: «Parlano solo del potere accademico, degli intrallazzi; di titoli di studio e di tutta quella noiosissima merda». Parole eccessive? Passate una serata con loro…
Odiava anche certi giornalisti, il loro accattonaggio da strapazzo, la ricerca dello scandalo. Saccheggiavano in sostanza le stesse fonti cui attingeva lui, ma mossi da appetiti molto più bassi…
Odiava le anime belle e i progressisti, che si divertiva a tramortire con boutade e dichiarazioni scioccanti. Per épater les bourgeois non si era risparmiato nemmeno la qualifica di nazista: «Una sera venne uno studente a casa mia e dopo alcune birre mi disse: “Il mio prof dice che sei un nazista e che venderesti tua madre per cinque centesimi”. “Non è vero”, gli dissi, “mia madre è morta”».
Odiava le femministe, non le poteva soffrire. Odiava i movimenti che si battevano per i diritti delle donne: «Dentro ci stanno un sacco di lesbiche furbe e un po’ di tritamaschi, e qualche argomento ce l’hanno pure, per quanto penoso – come le loro tette – ma mi venga un colpo se non penso che queste signore il cazzo lo dominano da sempre. Eppure, sostengono di non essere rappresentate in modo dignitoso – non ci sono ancora abbastanza dottoresse, e via dicendo, allora questo maschio risponde che non ci sono ancora abbastanza spazzine».
Odiava anche le ideologie, che avevano mietuto parecchie vittime tra gli intellettuali (infatuazioni spesso perdonate, ovviamente in base al credo). Odiava la rettorica nazionalista e bellicista così come il pacifismo, che infestava le piazze e i college americani. In realtà, pacifista lo era anche lui, ma in tempi non sospetti: «Se non eri a favore della guerra, come scrittore non valevi un cazzo. Io ero uno scrittore che non valeva un cazzo». Eppure, un conto è il pacifismo suo, un conto quello dei beat, le cazzate da Greenwich Village, Woodstock e Parco Lambro, quel giovanilismo ostentato che non avrebbe tardato ad irreggimentarsi tra le file della peggior borghesia. Non si scende in strada: dalla strada si viene, semmai. Questo il principio del vecchio Hank. Il Sessantotto? Una scazzottata interna alla borghesia, un movimento di borghesi contro altri borghesi. Sembra di leggere Pasolini…
E, anche in questo caso, lui beat lo era quando nessuno osava dichiararsi tale. Così come era underground quando questo termine non era ancora diventato mainstream. Quando qualcosa diventa di moda, ci dice Bukowski, quando diventa una cosa per bene, quando diventa consigliabile se si vuol far carriera, basta. Si cambia aria. Anche se tutti, noi no, ricordate? Hank detesta l’idea di appartenere a una massa, di regolare il proprio orologio biologico e intellettuale su quello dei più. Non che gli faccia schifo a priori l’idea di migliorare l’uomo e la società. Solo, non ha voglia di scriverci su. Tutto qui. Una questione di educazione, più che di orientamento ideologico. Un modo per avanzare negli anni senza vergognarsi di se stessi.
Odiava, dunque, ma anche amava, intensamente. I suoi amori?
Le donne, ovviamente, e poi l’alcol. I cavalli. La musica: non quella di Bob Dylan, Joan Baez o John Lennon, che spopolava e spopola tra molti dei suoi lettori, ma le architetture stilistiche di Brahms e Mahler, Wagner su tutti, Bach e Stravinskij, Beethoven e Sibelius, Shostakovich. E poi, libri su libri. Quali? Roberto Alfatti Appetiti, nel suo Tutti dicono che sono un bastardo. Vita di Charles Bukowski (Edizioni Bietti, Milano 2014), che ha costituito il canovaccio di questo numero, fa una piccola rassegna di questi eretici, assieme ai versi che Buk dedicò loro: Louis-Ferdinand Céline, «derubato, deriso, tormentato dai / francesi»; Ezra Pound, «trascinato lungo / le strade polverose d’Italia in una gabbia / e poi confinato in un / manicomio»; Knut Hamsun, «che mangiava la propria / carne»; Dostoevskij, «in piedi bendato di fronte a / un plotone d’esecuzione»; John Dos Passos, «che passava / da fervente sinistroide / a repubblicano / ultra conservatore»; Wilfred Owen, «ucciso / nella prima guerra mondiale / mentre / salvava il mondo in nome della / Democrazia»; Francis Scott Fitzgerald, «che alla fine smise di bere solo per crepare / subito dopo»; William Faulkner, che «quando riceveva la posta alla mattina / metteva la busta in / controluce / e se non ci vedeva dentro / un assegno / la gettava / via». E poi Artaud e Kafka, John Fante e il suo Arturo Bandini.
Eretici di ogni latitudine e longitudine, vinti, sconfitti di ogni tempo. Li preferiva ai vincitori, alla loro volgarità, al loro moralismo da primi della classe. Perché li odiava? Semplicissimo: «Ingrassano».
Breviari dei vinti sono i suoi libri, canti della disfatta e dello scacco. Ma non sono scritti impegnati. Nessuna denuncia, nessun engagement. Meglio puttane, cavalli e sbronze, uniche panacee all’american dream.
Questo numero – a breve disponibile online e in formato cartaceo (per informazioni: antares@edizionibietti.com) – affronta molte delle sfaccettature dell’ultimo poeta maledetto, i cui scritti sono autentici antidoti al buonismo, al culturalmente corretto, al conformismo e alle ortodossie. Il suo è il testamento dell’american way of life, ma anzitutto un vademecum indispensabile per attraversare questo nostro tempo senza perdere noi stessi. Anche se tutti, noi no.
(Andrea Scarabelli, «ilGiornale.it», 2 novembre 2016)