Il vuoto. Forse Ozon non l’ha mai filmato con tanta intensità. Il vuoto come mancanza. In una coppia: l’assenza dell’altro. Non c’è mai, in nessun momento di CinquePerDue, una condivisione forte tra Marion e Gilles. Ognuno sta solo. Sullo schermo, nella vita. Separati: Marion e Gilles sono sempre distanti. Non li unisce l’amore, perché forse non c’è mai stato, nemmeno in quel finale/inizio, andando già incontro opportunamente al loro tramonto; né il matrimonio, perché la prima notte di nozze lui si addormenta e lei resiste, ma poi cede a uno sconosciuto trovato nel suo errare desolato e triste; non un figlio, perché non solo non riescono a trovargli un nome insieme, ma soprattutto perché Gilles evita di arrivare in tempo per il parto e subito dopo preferisce rintanarsi in auto piuttosto che stare vicino a Marion, abbandonata in quel letto d’ospedale e dolorante per il cesareo; nemmeno i ricordi e il sesso sembrano suturare questa eterna ferita: i rapporti erotici sono calvari, momenti quasi di stupro e violenza; e il passato porta con sé troppe ruggini, specie se ci si fa vanto di prodezze sessuali alternative, in una sorta di libertà (mal) controllata.
Ozon eleva il vuoto anche ad assenza narrativa, dunque a elemento fondante di tale distacco. Prende cinque momenti topici della vita amorosa di Marion e Gilles e toglie tutto il resto: l’ellissi come simbolo dell’oblio, buco nero del racconto. Tutto quello che determina gli avvenimenti successivi (in questo caso: precedenti) sta altrove: non necessario, superfluo. Non arriva alla frantumazione casuale della storia, come farà in seguito Philip Gröning in La moglie del poliziotto (2013), obbligando lo spettatore a ricostruire cronologicamente quello che è successo, compresi i tasselli mancanti; ma scardina anche lui la certezza del tempo, rovesciando il percorso degli avvenimenti, dal giorno del divorzio a quello dell’incontro (ma non come gioco fine a se stesso), togliendo subito qualsiasi illusione e bruciando ogni promessa di eternità. In definitiva, come sarebbe piaciuto a Hitchcock, mostra all’inizio “delitto e colpevoli”, cercando di scovare le ragioni di un così esemplare fallimento, che scopriremo essere evidenti molto presto.
Nell’incedere metabolizzato del suo cinema, tra ironia e intellettualismi, dove la realtà è una configurazione di nature morte, Ozon con CinquePerDue parte dall’atto definitivo, molto burocratico, di una separazione (anni dopo la rivedremo con la stessa inconciliabilità ingovernabile nel capolavoro di Asghar Fahradi [2011]), portandoci quasi bergmanianamente dentro alle scene da un matrimonio, dalle sue armonie tormentate alle incomprensibili contraddizioni. La scena immediatamente successiva alla firma dell’addio, ad esempio, conduce i due, da poco ex, a dividere una stanza d’albergo, in cerca di una riparazione personale, che produce puntualmente l’effetto contrario con l’ennesima dissonanza dei corpi, dove la morbosità soggiace al desiderio e il valore di ogni cosa non ha più senso.
A ritroso il percorso non si fa necessariamente più audace: Ozon non mira a dimostrazioni teoriche della finzione, piuttosto riesce a creare un disagio, un fraintendimento anche in chi guarda. Gli equilibri (e anche il loro contrario) di una coppia appartengono solo ai protagonisti (e infatti lo spettatore ne è tagliato fuori, le situazioni piombano all’improvviso, come flash esistenziali). Al massimo gli indizi si fermano ai rispettivi caratteri, dalla fragilità di Marion all’esuberanza lunare di Gilles, in un rincorrersi senza veri contatti, sempre fuori misura, mai in sintonia. I cinque quadri che compongono l’esposizione di psicologie e dinamiche del rapporto sono sintomatici: l’amore, anche nelle sue forme più esasperate, da sempre al centro del cinema di Ozon, ha qui la sua più devastante rappresentazione, perché si tratta alla fin fine di una coppia ordinaria, come tante, che frequenta i villaggi turistici, che si sposa e fa un figlio quasi per abitudine, che borghesemente crede di aver dato così un senso alla propria vita (e la serata con il fratello e il suo giovane fidanzato funge da elemento disturbante), covando dentro un malessere quotidiano, dove solo l’effimero può avere credibilità di durata.
Ozon dà forma ad altri fantasmi, come spesso accade nel suo cinema. Qui i personaggi non spariscono o muoiono come altrove, ma è come se riflettessero la loro “assenza”, il loro vagare in cerca di un posto dove stare e con chi stare, probabilmente con nessuno. Marion è costantemente sola: si aggira per i corridoi degli alberghi o in quelli dell’ospedale in cerca del proprio figlio appena nato; va a caccia di qualcuno su una spiaggia vacanziera, cercando di catturarne l’attenzione. Gilles probabilmente è tormentato da un ruolo che sembra non riuscire a controllare, è incerto probabilmente anche sulla sua deriva sessuale (fa sesso con una rabbia sempre esagitata) e la spavalderia del fratello, che è gay dichiarato, forse lo fa sentire in colpa. Non trova soddisfazione in nulla, tanto meno per l’arrivo del figlio, con il quale poi si sforza di essere paterno. Sono personaggi in perenne convergenza parallela.
La tragedia, come spesso in Ozon, ha il suo lato sarcastico, stavolta amplificato dalle canzoni che servono da collante tra un frammento e l’altro. Tutte evocative, dissonanti, italiane, a loro modo nostalgiche. Un qualcosa che potrebbe essere, ma non è, con la stessa malinconia esistenziale del Luigi Tenco di Mi sono innamorato di te e quella lacrima sul viso di un Bobby Solo nascente, che stacca il primo episodio dal secondo, quando il divorzio è avvenuto e l’ultimo, disperato tentativo di riconciliazione palesemente falsa (la scena di sesso strappato in albergo) è fallito.
Sono i dettagli forse a cambiare la vita. Ozon li delega anche al caso: l’incontro in spiaggia, quasi uno scontro accidentale in acqua tra Gilles e Marion (che pure già si conoscevano di vista) cambia il percorso delle loro storie, ma il pessimismo che accompagna ogni istante del film è frutto delle proprie scelte, della propria sensibilità: per questo più delle canzoni, è quel tramonto, posto quasi simbolicamente a chiusura del film, a rinnegare una possibilità diversa. Non c’è felicità imposta, vivere insieme è una fatica continua, una goccia rovente che scava la pietra del viso, come direbbe Roberto Roversi. Ozon osserva e forse questo distacco, spesso intellettuale, impedisce una sincera partecipazione alle vicende dei personaggi (a volte è il limite del suo cinema). Ma basterebbero uno sguardo perduto di Valeria Bruni Tedeschi, un suo ennesimo inciampo in quella vita che non riesce a capire, né a soddisfare, per comprendere che probabilmente non è così: nei frammenti che Ozon sceglie per raccontare l’ennesima storia di amori fraintesi e inconsolabili pulsa un sentimento vitale, dolorosamente quasi rassegnato.