Chi ha ucciso Marcel? La questione risuona dentro una grande casa borghese isolata dalla neve che non smette di cadere e dentro un décor marcato che non prevede un solo uomo in campo. Madre, moglie, cognata, sorella, figlie e cameriere del defunto si interrogano, si sospettano, si dichiarano, si rivelano in una partita che François Ozon ha stabilito e apparecchiato con tutti i suoi accessori soltanto per stravolgerla. Come in ogni film di Ozon il piacere deriva dalla sua insolenza, dalla volontà di produrre un rumore nell’ingranaggio, di moltiplicare le combinazioni, di esplorare tutte le possibilità e di spingere la macchina fino a ingolfarla e se è necessario a romperla. Perché Ozon, le règles du jeu, le aggira e le imbroglia invece di seguirle. E lì risiede il suo talento. Coro feroce di astuzie, vendette e disfunzioni femminili, 8 donne e un mistero è un gioco da tavola, un gioco al massacro, un intrigo poliziesco, uno psicodramma familiare, una radiografia malinconica delle passioni femminili, una commedia musicale, un ritratto (ir)riverente di grandi attrici francesi.
Regista di signore come George Cukor, François Ozon sogna di dirigere il remake di Donne (1939) ma un problema di diritti lo costringe a ripiegare sulla pièce di Robert Thomas (Huit femmes), che trasforma in un serraglio artificiale dove gli uomini, motore di ogni discorso, forse non esistono nemmeno. Del film di Cukor conserva e reinterpreta i titoli di testa, che accostano per dissolvenza a un animale un cast tutto femminile. Ozon, più cortese, “offre” a ciascuna delle sue attrici un fiore che esemplifichi precocemente la psicologia del loro personaggio. Oggetto di critiche, l’impianto narrativo della commedia gialla si presta all’interpretazione misogina (le donne sono davvero lo scatenato e poco sopportabile bestiario illustrato in un interno?), femminista (il catalogo sciorinato è il risultato di una soggiacente struttura di potere maschile che determina i comportamenti femminili e si arroga il diritto di rappresentarli), camp (quel florilegio «sono le donne che non siamo ma che sapremmo essere così bene»).
All’incrocio tra le letture, 8 donne e un mistero si attesta coltivando una crudeltà sorniona e una piccola dose di perversità. Saturo di dive, volti, voci, abiti magnifici o impossibili, accumula riferimenti e attrazioni e non si fa mancare nemmeno l’effetto karaoke, rubato ad Alain Resnais. A ciascuna a turno la sua canzone, le otto protagoniste interrompono il corso dell’azione e interpretano un numero preso in prestito dal varietà francese. Otto intermezzi musicali in cui qualcosa di intimo si rivela. Il mistero della presenza, quella del personaggio e quello dell’attrice, si lascia guardare senza farsi spiegare, perché il cinema può risolvere l’enigma (chi ha ucciso Marcel?) ma sfuggire l’essenza. Quando le voci azzardano il canto, quando i corpi si sciolgono nella coreografia, quando le attrici declinano il soccorso alla sceneggiatura, lì da qualche parte accade la verità e si ficca nel cuore potente della finzione e di un dispositivo che rivendica apertamente la teatralità senza tuttavia assumerla pienamente. Perché Ozon sembra voler donare al film una profondità e una sincerità che stonano con il clima artificiale e velenoso che canzone dopo canzone si è imposto. Divertissement cinefilo, 8 donne e un mistero evoca Alfred Hitchcock, Luis Buñuel, il mélo di Douglas Sirk, gli ultimi film di François Truffaut. Ma Ozon non ha lo sguardo profondamente innamorato di L’uomo che amava le donne (1977), né l’attrazione profonda per le ferite della passione che rivelavano La donna che visse due volte (1954) o Lo specchio della vita (1959). Le spose sono sicuramente in nero ma troppo belle per essere vere. Nondimeno il film intriga, elettrizza e accende come una giornata di sole. Dopo la grazia fredda di Sotto la sabbia, l’autore francese fugge i sentimenti e il reale ripiegando sul film corale e il salotto borghese, recuperando la vena iconoclasta di Sitcom o Gocce d’acqua su pietre roventi. Per l’occasione incontra e armonizza davanti alla macchina da presa un cast prestigioso che, da Danielle Darrieux a Ludivine Sagnier, rappresenta più generazioni di attrici e più generazioni di cinema. Accomodate in un universo che evoca quello di Agatha Christie e abbigliate secondo la moda degli anni Cinquanta – abiti couture, gonne a campana sotto il ginocchio, corpini attillati per risaltare la femminilità senza svenderla – il regista invita le sue protagoniste a enfatizzare lo charme e a esagerare il typage, il carattere del loro personaggio e le convenzioni dell’intrigo. Appare subito evidente che il principale interesse del film non è quello di rivelare l’assassina di Marcel, l’invisibile “capofamiglia”, ma di partecipare ai confronti verbali, qualche volta addirittura fisici, a cui si abbandonano le otto dame. Ozon offre alle sue dive una gamma di colori per esaltarne lo splendore e per giocare con la loro immagine: la borghese sofisticata (Catherine Deneuve), l’amante consumata (Fanny Ardant), la vecchia signora fascinosa (Danielle Darrieux), la domestica smorfiosa (Emmanuelle Béart), la cuoca devota (Firmine Richard), la liceale sfacciata (Ludivine Sagnier), la jeune fille dalla facciata irreprensibile che si incrina poco a poco (Virginie Ledoyen), la zitella ipocondriaca che non ama leggere (Isabelle Huppert). Quest’ultima, interpretata da un’attrice sulfurea e impiegata in contropiede, produce una claustrofobia sovraeccitata e uno scarto tra le scenografie impeccabili e il corpo sghembo. Diversamente l’impulso di Ozon conduce Deneuve e Ardant a rispolverare il potenziale erotico e a sfoderare le unghie, naturalmente smaltate rosso giungla. Colore che certifica l’approdo a una femminilità aggressiva, fatale e senza scrupoli. Almeno quella incarnata dalle due luminose dive francesi, che invocano il fantasma di Truffaut con una celebre replica («È una gioia e una sofferenza») ribadita in due dei suoi film (La mia droga si chiama Julie [1969], L’ultimo metrò [1980]). Mentre il ricordo del regista scivola tra la Deneuve e l’Ardant, Ozon aggiunge allo stato di assedio familiare l’emozione cinefila, pescando a piene mani tutto quello che decifra e misura le sue fissazioni, rendendo omaggio alle piccole cose che insieme fanno il cinema.
Elettrone libero il cui moto h da generato una filmografia sospesa tra centro e margine, dispositivo e ritratto, artificio e natura, Ozon trova il suo equilibrio nella distanza che separa le due lenti, fa esercizio di stile e conferma la medesima ossessione: il desiderio. Un sentimento intenso che tracima da ogni fotogramma malgrado i codici imposti e le dighe edificate.