Quando è uscito Sotto la sabbia sembrava che, almeno per produttività, François Ozon stesse tentando di inseguire anche i ritmi frenetici di Rainer Werner Fassbinder – quattro lungometraggi in poco più di due anni, una manciata di corti nel decennio precedente, addirittura un “parto gemellare” nel 2000: l’autore della pièce teatrale da cui aveva tratto Gocce d’acqua su pietre roventi era, per il giovane regista, vertice implicito di un Parnaso cinematografico dove Pasolini, Collard, Hitchcock e Chabrol, tra gli altri, si tengono per mano.
Ecco, non è andata così: non si è poi manifestata quella disperata, dissipata creatività che aveva bruciato da due lati la candela fassbinderiana. Casomai si legge, a posteriori, un lavoro metodico, entomologico, di analisi, di racconto della borghesia, un lavoro che va a guardare sotto le strutture e le apparenze della famiglia borghese, salvo mantenerne intatti i presupposti: sollevare il tappeto, perché qualcosa là sotto non va, per constatare che qualcuno ci ha spazzato della polvere; eventualmente, aggiungerne; ricoprire. E infatti, nel caso di Sotto la sabbia, fin dal titolo si è indotti a ragionare su un medium che copre, che occulta i problemi; si è tentati, a posteriori, di pensare anche al cocciuto atteggiamento della moglie in denial, come se il riferimento fosse allo struzzo, che però la testa la nasconde nella sabbia. Un medium che è fintamente quieto, rimodellato continuamente dalle onde: non è un caso se il testo che Marie legge ai suoi allievi in università è tratto dal soliloquio di Bernard in Le onde di Virginia Woolf; non è un caso se il passo ruota intorno al concetto di fine, di perdita, “over and done with” e si conclude con la battuta «Ho perduto la mia giovinezza». E il marito, l’amore di gioventù di cui Marie, nel suo delirio leggero, non accetta la perdita, rimane presente, più o meno nascosto, nella casa, nel borghesissimo appartamento parigino.
«C’è sempre un modo per entrare in non importa quale casa» dice Claude nel finale di Nella casa. Ozon non nasconde mai la tentazione di accomodarsi nella casa dei propri personaggi. Ma non esattamente «non importa quale»: fatto salvo, con non poco disagio, Ricky, e altre brevi incursioni, nei suoi film quasi mai si esce dal milieu delle case altoborghesi e parigine, comfort zone non solo tematica. Perché il nostro non è esattamente un rivoluzionario, tutt’al più, con esiti straordinari, un cinico, un disilluso; e spesso un illusionista. Un mestiere, quello di regista/illusionista, che combina – è nel DNA del cinema – la costruzione narrativa, lo storytelling, e gli strumenti sottili del montaggio (la montatrice qui è Laurence Bawedin).
Sotto la sabbia comincia con un’uscita apparente dalla comfort zone di cui sopra: un campo lunghissimo (quasi un’anti-cartolina), dove si distinguono le torri di Nôtre-Dame e un’infilata di palazzi hausmanniani, la Senna e i bateaux-mouche, mentre la macchina da presa lentamente scende sull’acqua, accompagnata dallo score citazionista del fido Philippe Rombi; titolo sovraimpresso alle petites vagues della Senna (e in fondo, “sotto l’acqua, c’è la sabbia”); la macchina da presa vira a destra e rivela, sotto un cavalcavia del périphérique, una spiaggetta urbana, e le gambe anonime di gente stesa ad arrostire; la panoramica continua sul traffico che prosegue indisturbato; stacco, sonoro e d’inquadratura, e ci troviamo di fronte al doppio primo piano, in cameracar, autostrada in mezzo alla campagna, di Marie e Jean Drillon che vanno in vacanza, lei guida, lui assopito, mentre lo stereo diffonde la Sinfonia n°2 di Mahler (un pezzo, si sa, dal titolo emblematico Auferstehung, “risurrezione”); controcampo, la musica continua, la macchina da presa dentro l’abitacolo rivela Jean alla guida, Marie sul posto del passeggero. Stacco, sosta igienica e a suo modo idilliaca all’autogrill. I due ripartono; raccordo brevissimo, una curva e siamo alla casa in campagna (la prima vera maison del film), Marie recupera la chiave sotto a un sasso, si volta; nessun controcampo; apre la porta, entra, qui sì il controcampo c’è, e, solo in un secondo momento, Jean entra nell’inquadratura, con entrambe le mani occupate dalle valige, e a quel punto chiede alla moglie di aprire metà della porta per poter accedere anche lui alla casa. Da questo momento la corporeità, il peso di Jean, tornano a essere palpabili: nell’inquadratura successiva la mole dell’uomo impedisce a Marie di togliere il telo di protezione dal divano; poco dopo, impegnato a far legna nel bosco, Jean solleva un sasso (e due, in pochi secondi), sotto il cui peso brulica un formicaio.
Evitiamo l’analisi pedante della sequenza, ma c’è, in questo minuto e mezzo di cinema, tutta l’abilità di Ozon illusionista/storyteller di cui sopra, la costruzione di un dispositivo di ambiguità (di narrazione, di linguaggio e di metafore visive e di ellissi di montaggio), che, in quanto tale, si rivela meglio solo a una seconda visione; un calcolo nel dosaggio degli ingredienti che fa poi sorridere quando, rivedendo il film, si legge “Fidelité Productions” in apertura dei credits: non tanto per la fedeltà a questo label, che ha accompagnato Ozon dai primi cortometraggi fino ad Angel. La vita, il romanzo (2007), ma perché il termine sembra parte integrante del sistema del film, preannuncio dell’ostinata fedeltà che in questo specifico caso Marie Drillon dedica al marito Jean. In questo minuto e mezzo, caratterizzato da pochissime battute, si rivela anche l’importanza del lavoro di Ozon sugli attori, non solo sul loro metodo, ma anche sul loro statuto: si ricorda quasi sempre che il film ha riscoperto, o meglio rilanciato Charlotte Rampling, mentre più raramente si ricorda che Bruno Cremer, con il suo fisico imponente e il faccione malinconico era, per il pubblico medio (e continuerà ad esserlo) il Maigret “definitivo”, una figura con il cui “peso” occorre fare i conti.
A proposito di peso, la battuta sulla “leggerezza” che Marie fa a Vincent (Jacques Nolon) dopo aver finalmente accettato di fare l’amore con lui è emblematica, visto che nella sequenza precedente, dopo aver rifiutato le sue avances, l’incontro erotico con il fantasma del marito era assolutamente incorporeo (è la scena, giustamente celebre, delle mani che sfiorano il corpo di Marie). Un’incorporeità di cui, nella casa di Marie e Jean c’è, forse, un altro riflesso, se, come pare (ma Ozon nega il totale, quindi potrebbe essere un’illusione) sul camino che Vincent cerca di ravvivare è appoggiata una derivazione, se non una copia, da Giove ed Io di Correggio, dove il dio, in forma di nuvola, si accoppia con la fanciulla. Se ti metti contro Giove, sai già di perdere.