La pelle e la traccia: riscritture del sé. Il cinema trasformazionale di François Ozon
Alessandro Baratti PisaIl cinema di François Ozon è un microcosmo, un mondo perfettamente riconoscibile nonostante le continue variazioni di registro e generi di riferimento. Ma, al di là di questa constatazione lapalissiana, esiste un elemento propriamente ozoniano? La domanda suonerà ingenua, ma, forse, è meno oziosa di quanto possa apparire, poiché punta l’indice sulla difficoltà che la critica ha incontrato quasi subito nel corpo a corpo con l’enfant terrible/prodige del cinema francese. Già, perché se i primi lavori del giovane regista sembravano indirizzare il suo cinema verso la sezione della trasgressione1, nel giro di pochi anni la situazione cambia profondamente, invalidando la collocazione nello scaffale prescelto. Ozon crea difatti più di un grattacapo alla critica nel tornante degli anni Zero, girando quel Sotto la sabbia (2000) che renderà inutilizzabile l’etichetta applicatagli negli anni Novanta, riducendola una volta per tutte a coperta troppo corta.
Paradigmatico il caso dello storico e critico René Prédal che, inventariato il cinema ozoniano dei Novanta nella sezione «trasgressioni violente» e «attacchi radicali contro la famiglia»2, nel suo studio sul cinema francese dopo il 2000 si trova nel difficile compito di ricollocare la produzione del regista. Se il primo problema riguarda il posizionamento nella categoria confacente (cinema d’autore o nuova qualità francese?), quello successivo e ben più spinoso consiste nel rendere conto della natura cangiante del suo cinema. Ed è proprio Sotto la sabbia a imporre il capovolgimento di prospettiva: dopo gli attacchi distruttivi contro la famiglia e la miscela gore/violenza/meraviglioso di Amanti criminali (1999), Ozon, scrive Prédal, «sa anche prendere le cose al contrario, e in dolcezza»3.
La rassegna sui problemi d’inventario potrebbe tranquillamente continuare, evocando quel concetto di “fluidità” che secondo Thibaut Schilt, autore di una monografia pubblicata nel 2011, costituirebbe il nucleo del cinema di Ozon4. Ma, saggiata la scivolosità delle etichette, conviene chiarire l’ipotesi di questo intervento: prendendo spunto dal titolo di uno studio pubblicato nel 2003 dal sociologo e antropologo David Le Breton5, è possibile supporre che l’elemento specifico del cinema di Ozon risieda nell’esigenza di cambiare continuamente pelle, mantenendo come traccia permanente la riscrittura dell’identità. Non una variazione sul tema identitario condotta con sguardo immutabile, ma una dialettica che impegna e investe lo statuto dello stesso sguardo: l’epidermide muta di pellicola in pellicola, la traccia persiste nella metamorfosi stessa.
Nel cinema di Ozon a contare è, fin dai primissimi lavori, la messa in scena di una trasformazione, quasi sempre condensata in oggetti/soggetti/eventi mediatori: la foto familiare in Photo de famille (1988), la bulimia in Les doigts dans le ventre (1988), la magione in Victor (1993), di nuovo la fotografia in La petite mort (1995), il vestito in Une robe d’été (1996) e il bambino in Regarde la mer (1997). In tutti questi casi, oggetti, situazioni e creature concrete condensano emozioni bloccate, promuovendo traumaticamente il passaggio da uno stato identitario all’altro. Ciononostante, pur configurando un universo attraversato da tensioni interne, i primi lavori non riescono a infrangere la cornice familiare che li inquadra rigidamente (fatta eccezione per Une robe d’été e, in parte, Victor).
La metamorfosi identitaria prosegue con Sitcom. La famiglia è simpatica (1998), sorta di Roulette cinese (Rainer Werner Fassbinder, 1976) virata su tonalità farsesche, e con la fuga cruenta di Amanti criminali. Il ratto albino e il boscaiolo fiabesco di questi due film agiscono da operatori di passaggio allo stesso titolo degli oggetti mediatori osservati in precedenza6. Ma ancora una volta la cornice di riferimento, esplicita in Sitcom e implicita in Amanti criminali, è rigidamente familiare (si pensi, in quest’ultimo film, all’assurda preoccupazione di Luc/Jérémie Renier per la macchina del padre). In altri termini, ci muoviamo ancora in un mondo regolato da norme ereditate in ambito domestico e abitato da personaggi che cercano di incrinarlo senza disporre della forza necessaria a distruggerlo e uscirne.
Il punto critico di questo orizzonte asfittico è raggiunto in Gocce d’acqua su pietre roventi (2000), tributo dichiaratamente fassbinderiano: fulcro del film è di nuovo la trasformazione dell’identità, ma qui declinata secondo la logica del plagio caricaturale. Leopold (Bernard Giraudeau) svolge una funzione carceraria simile a quella del boscaiolo di Amanti criminali, ma la sua azione non ha più nulla di potenzialmente maieutico: il suo ruolo è quello di un inflessibile demiurgo, la sua influenza si esaurisce nel plasmare identità da usare e gettare a piacimento. La metamorfosi è ancora al centro della pellicola, ma soltanto come posta in palio di un gioco espropriativo che prevede un solo esito, l’annullamento dell’identità: «Per Franz, Vera appare come ciò che egli potrebbe diventare sotto l’influenza di Leopold e il suo suicidio è un modo di sfuggirvi», afferma Ozon7.
Con Gocce d’acqua su pietre roventi il cinema di Ozon si rinchiude deliberatamente nel microcosmo fassbinderiano, sarcofago narrativo che blocca ogni via di fuga (non è fortuito che Ozon avesse previsto un finale meno pessimista e soffocante, salvo preferirgli in extremis un epilogo più fedele all’universo implacabile di Fassbinder). Non sono soltanto i personaggi di questo film a restare imprigionati, è il suo stesso cinema a indossare una maschera mortuaria dalle fattezze fassbinderiane: «Io sono la sua creatura», confessa disperata Vera a Franz nel prefinale. Con Gocce d’acqua su pietre roventi si consuma insomma il suicidio di Franz/François e, al tempo stesso, la scomparsa di una fonte d’ispirazione così imponente da poter essere assimilata a un compagno di vita.
Come fare i conti con la morte del compagno ed elaborare il lutto quando il cadavere è fisicamente assente? Sotto la sabbia è la risposta a questa scomparsa, risposta che mescola ricordi infantili (un evento estivo di cui Ozon è stato testimone da bambino), risonanze attoriali (il suicidio della sorella di Charlotte Rampling) e, soprattutto, esigenze di riformulazione identitaria. Il buco prodotto nell’identità di Marie dalla sparizione di Jean (Bruno Cremer) corrisponde al vuoto lasciato dalla scomparsa del nume tutelare Fassbinder nel cinema di Ozon. Con Sotto la sabbia siamo sì a un punto di svolta, ma non tanto per la brusca virata di registro che ha complicato la vita alla critica, quanto piuttosto per l’accorciamento della distanza emotiva tra autore e vicenda narrata. È lo stesso Ozon, specificando la differenza tra questa pellicola e i film precedenti, a puntualizzare l’inedito avvicinamento: «La grande differenza deriva soprattutto dall’identificazione con il personaggio principale, mentre i miei altri film preferivano la distanziazione. In Sotto la sabbia accompagno veramente Marie […]. Avevo davvero voglia di essere con lei, in uno stato vicino alla compassione»8.
Prende dunque vita un cinema in cui il regista è sempre più apertamente autore e soggetto: dopo il buco identitario di Sotto la sabbia, con 8 donne e un mistero (2002) si assiste alla proliferazione indiziaria di identità da validare. Le otto donne mentono per ragioni diverse dal presunto assassinio e per identificare la colpevole, indagine puramente pretestuosa, occorre che cantino le loro verità segrete, mettendosi a nudo, orchestrando una responsabilità corale: una sola identità composta da otto finzioni che si sgretolano. E in Swimming Pool (2003), con la piscina a dominare la scena come liquido oggetto mediatore, Ozon si proietta nuovamente in Charlotte Rampling, grazie alla quale rispondere alla domanda continuamente rivoltagli «Come fa a incatenare un film dopo l’altro? Dove trova la sua ispirazione?»9. Con CinquePerDue. Frammenti di vita amorosa (2004) Ozon torna poi sull’identità della coppia già affrontata in Gocce d’acqua su pietre roventi, sostituendo però l’esperienza acquisita all’appropriazione ossequiosa della pièce fassbinderiana e rimpiazzando l’inesorabile chiusura del film precedente con un arrangiamento cronologico che smentisce l’inevitabilità della separazione grazie a una risalita altrettanto inevitabile alle origini della relazione10.
Si tratta, insomma, di uno scavo dei personaggi e delle relazioni che porta allo scoperto la loro verità, una verità intesa come principio di apertura e non come punto di arrivo di un percorso ultimativo: non un semplice dispositivo di rivelazione, ma di vera e propria evoluzione. E se le pellicole (alla lettera “piccole pelli”) di Ozon sembrano sempre di più organismi chiusi e sorvegliati, il suo cinema non fa che ripetere questo: l’identità resta florida solo a condizione di mutare. Il suo principio vitale non è l’unità definitiva, ma la trasformazione permanente a dispetto dei vincoli sociali e culturali, malgrado le convenzioni imposte dai film, nonostante la limitatezza di Il tempo che resta (2005). Non è dunque fortuito che in questa pellicola persino la morte annunciata, proprio come la separazione di CinquePerDue, metta in moto un processo di riconfigurazione che sprona Romain (Melvil Poupaud), ennesimo auctor in fabula, a riscrivere il proprio sé: la sua morte a credito è l’occasione per raffigurare un tragitto di elaborazione interiore che lo guidi dalla rabbia e dalla negazione all’accettazione e all’abbandono. L’ineluttabilità della malattia opera qui come evento mediatore per antonomasia, promuovendo una riformulazione identitaria volta a rimuovere il superfluo (si veda il diverso significato assunto dall’attività fotografica di Romain) e rintracciare quel principio vitale che risiede nella disponibilità alla trasformazione11.
Rappresentazione in scala della condizione umana, Il tempo che resta precisa dunque l’esigenza di non cristallizzare l’identità, la morte in vita coincidendo con la fissazione dell’io in unità dalla fisionomia immutabile. È questa l’esigenza che contraddistingue la vocazione dinamica dei personaggi ozoniani: entrano in scena come stereotipi e acquisiscono volume drammatico nel corso della rappresentazione, sbarazzandosi della maschera con la quale si sono presentati12. Il mediometraggio Un lever de rideau (2006), preludio/interludio di matrice teatrale, conferma e rinnega al tempo stesso questo principio, mettendo in scena tre personaggi che conquistano sì una dimensione diversa dallo stereotipo iniziale (l’amante ferito, l’amata incorreggibile, l’amico mediatore), ma che non evolvono intimamente. La trasformazione indotta dall’esperienza vissuta coinvolge soltanto la loro colorazione drammatica senza intaccare il nucleo identitario: non è senza motivo che Pierre (Mathieu Amalric), accorato portavoce di Ozon, si riveli incapace di dissuadere Bruno (Louis Garrel) dal fermo proposito di lasciare Rosette (Vahina Giocante). All’amore provato per Rosette, Bruno contrappone e antepone un amor proprio inflessibile come un contaminuti, condannandosi all’altera solitudine di un’identità lapidaria.
Sviluppata in chiave giubilatoria, l’assoluta fedeltà al proprio universo interiore è la fissazione che pervade anche Angel. La vita, il romanzo (2007), ennesimo autoritratto per interposta protagonista: «Mi riconosco nella frenesia di Angel, nella sua volontà di fare. Il suo pragmatismo le permette di uscire dalla sua condizione sociale. La sua arte è al servizio della sua vita»13. Eppure, sotto il trasporto empatico e l’ammirazione per una forza creativa letteralmente travolgente, affiora l’insidia generata da questa iperattività fantasmagorica, ovvero il pericolo di rimanere imprigionati in un universo immaginario totalmente svincolato dalla realtà: «Angel si è costruita su delle menzogne, emozioni camuffate. […] Avevo veramente voglia di mostrare questa ambiguità, di oscillare tra la distanza da e l’identificazione con Angel»14. Gloria e sciagura di Angel (Romola Garai), è proprio questa divorante inventiva a provocare lo scontro fatale tra il suo mondo artificiale e quello reale. E se la fedeltà a se stesso di Bruno in Un lever de rideau sfociava in una condotta rigidamente esclusiva, quella di Angel sfocia al contrario in una fantasia avidamente inclusiva: Paradise House, microcosmo ideale vagheggiato fin dall’infanzia, si tramuta così in luogo di reclusione, alienazione e, inesorabilmente, di morte.
Dopo il mediometraggio Quand la peur dévore l’âme (2007), ibrido intertestuale creato a partire dalla libera commistione di Secondo amore (Douglas Sirk, 1955), e La paura mangia l’anima (Rainer Werner Fassbinder, 1974)15 Ozon concepisce con Ricky. Una storia d’amore e libertà (2009) il suo film più teorico insieme al successivo Nella casa (2012). Enfant prodige/terrible se mai ve ne furono, Ricky incarna compiutamente quell’identità metamorfica e inafferrabile che anima e agita il nucleo del cinema ozoniano. Tenuto in gabbia dalla famiglia, braccato dalle forze dell’ordine che cercano di accalappiarlo, analizzato dai medici che suggeriscono di tarparne le ali e ambito dalla curiosità mediatica, questo bambino polimorfo e gioiosamente svolazzante riassume in sé i tratti cangianti dell’identità intimamente florida e quelli di un cinema che ha fatto dell’irregolarità, dell’eterogeneità e della mutazione la propria traccia vitale.
Ozon continuerà a frequentare questa traccia nei film seguenti, ponendo di volta in volta l’accento su – e assumendo puntualmente – aspetti diversi: se Il rifugio (2009) farà del ventre di Mousse (Isabelle Carré) l’oggetto/evento mediatore della trasformazione16, Potiche. La bella statuina (2010) si incentrerà sull’evoluzione della moglie-trofeo Suzanne (Catherine Deneuve) in soggetto “senza etichetta”17, Nella casa eleggerà lo sconfinamento narrativo a procedimento destabilizzante18, Giovane e bella (2013) riconoscerà nella stagione adolescenziale il periodo più propizio per un’apertura al mondo non ancora condizionata da preconcetti morali19 e Una nuova amica (2014), infine, porterà la riflessione sull’identità al massimo grado di porosità20. Feudo dai contorni in continua riconfigurazione, il cinema di Ozon, pronto ad accogliere una nuova creatura pellicolare (Frantz, 2016), occupa in definitiva una posizione felicemente atipica nel cinema francese contemporaneo. Vale oggi più che mai quello che, con invidiabile semplicità, affermava Melvil Poupaud dopo Il tempo che resta: «Gira molto e cambia stile ogni volta, restando personale al tempo stesso»21.
Note
1 Giusto a titolo di esempio, il fantomatico Carlos Pardo – in un articolo comparso dapprima anonimo nel novembre del 1999 su «Libération», quindi firmato e ripubblicato nel febbraio 2000 su «Le Monde diplomatique» – colloca senza incertezze Amanti criminali (1999) nel recente gruppo dei «film francesi affascinati dal sordido» (Crime, pornographie et mépris du peuple. Des films français fascinés par le sordide è l’eloquente titolo dell’intervento di Pardo). Lo stesso trattamento verrà riservato da James Quandt ad Amanti criminali, insieme al mediometraggio Regarde la mer (1997) e alla pellicola di esordio Sitcom. La famiglia è simpatica (1998), nell’articolo Flesh & Blood: Sex and Violence in Recent French Cinema pubblicato pochi anni dopo su «Artforum», febbraio 2004, pp. 24-27.
2 Prédal René, Le cinéma français des années 1990. Une génération de transition, Armand Colin, Parigi 2008, p. 83.
3 Ivi, p. 108.
4 «Il concetto di fluidità (…) è al cuore del cinema di Ozon, dalla sua carriera iniziale di regista di cortometraggi una ventina di anni fa fino al presente». Vedi Schilt Thibaut, François Ozon, University of Illinois Press, Illinois 2011, p. 2.
5 Le Breton David, La pelle e la traccia. Le ferite del sé, Booklet, Milano 2005.
6 François Ozon su Amanti criminali: «C’è in lui [Luc] un’omosessualità latente che diventa viva col boscaiolo. Il problema di Luc è che non lo sa…». Vedi www.francois-ozon.com/en/interviews-criminal-lovers.
7 Vedi www.francois-ozon.com/fr/entretiens-gouttes-eau-sur-pierres-brulantes.
8 Vedi www.francois-ozon.com/fr/entretiens-sous-le-sable.
9 Vedi www.francois-ozon.com/fr/entretiens-swimming-pool.
10 «Avevo già affrontato questo tema in Gocce d’acqua su pietre roventi, appropriandomi del testo di Fassbinder. Lo aveva scritto a 19 anni e questa visione da adolescente della coppia, crudele e già colma di disillusione, mi era piaciuta. Con CinquePerDue. Frammenti di vita amorosa, avevo voglia di tornare sulla coppia con la mia esperienza d’oggi, ma senza dare troppe spiegazioni». Vedi www.francois-ozon.com/fr/entretiens-5×2-cinq-fois-deux.
11 «Se Romain raggiunge una certa forma di eroismo, ciò avviene attraverso vie molto indirette e infine molto personali, che non concernono che la sua propria traccia». Vedi www.francois-ozon.com/fr/entretiens-le-temps-qui-reste.
12 «Ozon ama filmare l’evoluzione di un personaggio che effettua un tragitto interiore quando si trova implicato in conflitti violenti, spesso familiari. Chiuso all’inizio, si apre allora progressivamente (…)». Prédal René, op. cit., p.108.
13 Vedi www.francois-ozon.com/fr/entretiens-angel/47-francois-ozon.
14 Ibidem.
15 Si noti che Quand la peur dévore l’âme è un mediometraggio che invera formalmente il principio vitale della poetica ozoniana: creare nuove identità a partire dalla riconfigurazione di quelle vecchie.
16 «Una donna incinta è affascinante da guardare. Questo corpo che si trasforma, si arrotonda… È molto attraente, sensuale e misterioso […]. È attraverso questo ventre che si opera una rinascita. Ed è anche attorno a esso che si annoda la relazione tra Mousse e Paul. È il centro del loro incontro». Vedi www.francois-ozon.com/fr/entretiens-le-refuge/181-francois-ozon.
17 «Sono senza etichetta» dirà Suzanne Pujol (Catherine Deneuve) presentandosi ai concittadini come candidata indipendente nella campagna politica finale.
18 «Ci sono delle lacune nella storia, il passaggio tra le redazioni e la realtà è sempre meno marcato. Il montaggio ha contribuito molto a far sparire il dispositivo di partenza, a rafforzare le ellissi, a giocare sulla confusione tra il reale e la finzione». Vedi www.francois-ozon.com/fr/entretiens-dans-la-maison/335-entretien-avec-francois-ozon.
19 «L’adolescenza è un periodo di passaggio in cui tutto è possibile. […]. C’è un’apertura al mondo senza considerazioni morali. Prostituendosi, Isabelle fa un’esperienza, un viaggio che non è affatto una perversione». Vedi www.francois-ozon.com/fr/entretiens-jeune-et-jolie/413-entretien-avec-francois-ozon.
20 «Il mio scopo era veramente far scoprire agli uomini, condividendoli, gli artifici femminili, farli penetrare nell’universo del travestimento dolcemente, con tenerezza e humour. Con l’idea di non farsi mai beffa dei personaggi, di accompagnarli ed essere sempre in empatia con loro». Vedi www.francois-ozon.com/fr/entretiens-une-nouvelle-amie/494-entretien-avec-francois-ozon.
21 Vedi www.francois-ozon.com/fr/entretiens-le-temps-qui-reste.