A cosa serve una maschera? Una maschera nasconde, vela, ma è anche un’altra faccia, talvolta più espressiva, grottesca, minacciosa. Una maschera è uno schermo bianco di fissità glaciale e allo stesso tempo un argine, un avamposto salvifico. Le maschere confondono, mentono; sono oggetti immutabili appiccicati sul reale, toppe multiformi che rivestono, plastiche, la superficie delle cose (della Cosa, nell’accezione freudiana), alterandola, sdoppiandola. Maschere come pagine, storie sovrapposte, foto sovraesposte, dissolvenze incrociate. La maschera è, in sé, un oggetto che non dice nulla, anonimo, anche seriale: un banale sembiante che non parla, non rimanda a nient’altro che a se stesso. Indossare una maschera, allo stesso modo, è un atto che in sé significa poco, perché ciò che fa la differenza, in realtà, non è l’azione, l’indossare la maschera, ma la funzione che essa ha per il soggetto. Rob Zombie lo sa bene, conosce l’importanza non trascurabile di questa funzione e nella sua filmografia (tutta) inserisce questo comune denominatore in modo solo apparentemente scenografico. La maschera nel cinema (ma non solo) di Rob Zombie ha una funzione molto precisa: non è un oggetto che punta all’exploitation, non è un accessorio, un orpello decorativo finalizzato al grottesco. Il cinema di Rob Zombie è solo in superficie semplice, diretto. In realtà è uno studio insistito (e non derivativo) che punta verso il buio, verso ciò che non si può dire. A questo autore interessano le maschere, che compaiono sempre nei suoi film e ricorrono sovente in primo piano, parti integranti dei suoi personaggi. Lo studio di Rob Zombie sulla funzione della maschera si compie nei suoi primi tre titoli, i più teorici, che compongono un’ideale “trilogia della maschera”: qui Zombie esplora tutto ciò che lo interroga e chiude il cerchio. I film successivi non hanno lo stesso spessore, quella spinta vertiginosa verso l’abisso, e risultano, anche se non banali, una sorta di ripetizione del medesimo. Ma che funzione ha la maschera nel cinema di Rob Zombie? In La casa dei 1000 corpi troviamo una parata di maschere grottesche, spaventose, in quella che in superficie può apparire come l’esibizione del terrifico. Il regista vuole mostrare l’effetto che hanno sulle vittime (e sullo spettatore), sui personaggi che progressivamente scivolano verso l’inferno (letteralmente, fino a incontrare Satana). L’effetto è precisamente di angoscia. Perché di angoscia? L’angoscia, intanto, non coincide con la paura. In Che cos’è la metafisica? Heidegger scrive: «Con il termine angoscia non intendiamo quell’ansietà assai frequente che in fondo fa parte di quel senso di paura che insorge fin troppo facilmente. L’angoscia è fondamentalmente diversa dalla paura. Noi abbiamo paura sempre di questo o di quell’ente determinato, che in questo o in quel determinato riguardo ci minaccia. La paura di… è sempre anche paura per qualcosa di determinato. Nell’angoscia, noi diciamo, uno è spaesato. Ma dinanzi a che cosa v’è lo spaesamento e cosa vuol dire quell’uno? Non possiamo dire dinanzi a che cosa uno è spaesato, perché lo è nell’insieme»(1). È molto appropriato il termine spaesamento che Heidegger utilizza, perché richiama qualcosa nell’ordine del disorientamento, di una perturbazione di campo che colloca il soggetto nella nebbia, facendogli perdere i punti di riferimento. È in gioco, appunto, quello che Freud ha definito Unheimlich, perturbante: qualcosa che sembra familiare e che invece non lo è, e risulta pertanto spiazzante, angosciante. Perturbante è l’uomo che Sigmund Freud scorge, nottetempo, entrare nel suo stesso scompartimento del treno, rendendosi conto, un attimo dopo, che si tratta di se stesso; perturbante è lo specchio che non riflette il protagonista di Le Horla, racconto di Maupassant; perturbante è il quadro La riproduzione è vietata di Magritte, in cui l’uomo rappresentato guarda in uno specchio e vede se stesso di spalle. Il perturbante fa vacillare l’impalcatura attraverso cui guardiamo il mondo, quell’apparato simbolico-immaginario che scherma il reale, che lo filtra rendendolo tollerabile e comprensibile. È un’irruzione di reale che scompagina gli appigli simbolici con cui tendiamo, di solito, a dare un senso alla realtà: l’effetto è sempre di angoscia. La stessa che incutono nell’osservatore (vittima e spettatore) le maschere usate in La casa dei 1000 corpi: in apparenza innocue, riconoscibili, appartenenti all’universo circense e fiabesco, usate però in modo distorto, incrinate da dettagli fuori posto. Maschere animate da intenti imprevedibili, dunque angoscianti, che non seguono la traiettoria promessa in superficie, ma si orientano altrove. Gli occhi che le abitano, sotto, puntano dritti all’osservatore, al di là del sorriso sghembo, gelandolo di fronte all’enigma del desiderio. Nel primo film assistiamo a una discesa progressiva, a un graduale svelarsi dell’inganno. Le maschere si fanno via via più rivelatrici, più spaventose e dunque meno angoscianti: le dissonanze si attenuano, la maschera diventa il personaggio. Lo spettatore (come alcuni protagonisti) sa cosa deve temere, l’impalcatura simbolica ritorna salda. Se in La casa dei 1000 corpi Zombie opera una distinzione molto precisa tra angoscia e paura dividendo il film in due parti, in La casa del diavolo si domanda cosa ci sia dietro la maschera. Il discorso si fa complesso, perché a questo punto diventa evidente che la maschera è essa stessa rappresentazione dell’apparato simbolico-immaginario, cioè del fantasma del soggetto; fantasma in quanto finestra di inquadramento della realtà, punto di vista personale sul mondo, lente che filtra il reale, dispositivo che conferisce senso a qualcosa che altrimenti risulterebbe incomprensibile, inspiegabile e traumatico, per esempio la morte. La casa del diavolo è un film sull’incomprensibilità della morte: nonostante le efferatezze rappresentate, essa viene inseguita e indagata, ma risulta non rappresentabile. A morire sono i corpi, massacrati e fatti a pezzi, ma quella carne non ci dice nulla della morte, che invece sfugge e sembra fuori registro. I decessi, in questo film, sono grotteschi, eccessivi: tentativi di descrivere l’informe, di dare una forma, minuziosamente, a qualcosa che sembra non averne. L’effetto è caricaturale, almeno fino all’epilogo, quando accade qualcosa di fondamentale. I protagonisti di La casa del diavolo, già visti in La casa dei 1000 corpi, abbandonate le maschere che permettevano loro di inquadrare la realtà (proprio ciò che avviene, specularmente, nello spettatore), dopo avere tentato di sopravvivere in una porzione di mondo ostile e senza senso, scelgono il passaggio all’atto come soluzione all’angoscia. Si lanciano con l’auto contro un posto di blocco, di fatto facendosi uccidere. Perché la morte di questi protagonisti, un gruppo di assassini, ha sullo spettatore un effetto sorprendente di avvicinamento, di compassione, nell’accezione più nobile del termine? Forse perché abbiamo visto dietro la maschera, e abbiamo dunque compreso la funzione di quell’apparato per chi lo indossava; abbiamo visto la rabbia e il dolore, il caos, il disorientamento. In La casa del diavolo Rob Zombie si interroga sulla funzione della maschera, tema del suo film successivo, per cui sceglie quella per antonomasia: Michael Myers. L’opera è Halloween. The Beginning, rivisitazione dell’omonima pellicola di John Carpenter. Zombie stavolta vuole capire come si arriva alla maschera, il perché della maschera, la sua funzione per il soggetto. Il suo Halloween è, vale la pena sottolinearlo, la workprint version, poi rimaneggiata e uscita addirittura in due versioni (theatrical e unrated). La cosiddetta workprint version, nonostante l’incompleta colonna sonora, è fulminante, in particolare nella prima parte, ancora una volta quella più teorica e spiazzante. Lo si può dire con certezza: il film che all’autore interessava realizzare è concentrato nella prima ora, poi diventa prevedibile, ripetitivo, stanco. Il primo frammento è il film di Rob Zombie, il secondo diventa un remake di quello di Carpenter. Al solito, il regista vuole arrivare dritto al punto, rispondere all’interrogativo fondamentale che è il cuore dell’opera: come si diventa Michael Myers? E dunque: a cosa serve una maschera? È proprio nei primi minuti che si trova l’immagine più geniale creata da Zombie: un bambino di nome Michael Myers fugge dalle violenze familiari della propria casa, dall’insensatezza di un meccanismo scolastico da cui si sente escluso. La sua corsa si arresta in un freeze frame del viso stravolto, in movimento, e in sovrimpressione (non su schermo nero: in sovrimpressione!), a caratteri bianchi e semplicissimi, compare il titolo del film. Halloween. The Beginning è, programmaticamente, un testo su un bambino senza volto, dunque ben altra cosa rispetto al modello di Carpenter. Quel titolo posto semplicemente sulla faccia del bambino è già una risposta; in effetti è tutto il film. La maschera che Michael indossa, prima della comparsa del titolo di testa, è quella di un clown; grazie a essa riesce a uccidere un animale, a convogliare la sua angoscia in un atto organizzato. L’angoscia di Michael Myers: non a caso Halloween. The Beginning viene dopo La casa del diavolo, dopo il suicidio di quei protagonisti rimasti senza maschera. Le maschere che Myers indossa successivamente, prima di giungere a quella che diventerà parte integrante di sé, sono oggetti di carta disegnati da lui, tentativi rudimentali di circoscrivere l’informe (come avviene, su scala ben più ampia ma non con la stessa freschezza, in Le streghe di Salem), di confinare ciò che è senza confini: l’angoscia, appunto. Attraverso la maschera la realtà appare comprensibile, può acquisire senso, gli occhi inquadrano il mondo da due fessure che circoscrivono il campo e questo limite è pacificante. Le maschere di Michael Myers sono questo, in fondo: limiti che organizzano, strutturano, appigli simbolici che fanno da avamposto, rifugio (nell’accezione freudiana di Schutzbau) nei confronti dell’angoscia, rendendola rappresentabile. Per questo la maschera che Myers sceglie, infine, è bianca, inespressiva, di fissità angosciante: il soggetto, in questo caso, ha trovato il modo di rappresentarsi.
Note
1 Heidegger Martin, Che cos’è la metafisica?, Adelphi, Milano 2001.