L’arte di Robert Bartleh Cumming, nato a Haverhill (Massachusetts) il 12 gennaio 1965, è un universo in costante espansione sulla base della medesima substantia: l’orrore e la passione per la sua iconografia continuamente evocata in performance live, dischi, film e romanzi che sono prima di tutto atti d’amore. Rob Zombie è un semplice, ma complesso, sistema di segni postmoderno: originale in un meccanismo a base citazionista, utilizza i format(i) del passato per creare un linguaggio sempre più nuovo e intimo con cui approcciare e venerare la materia della quale sono fatti gli incubi. Artisticamente nato come musicista e fondatore dei White Zombie nel 1985, inizia a interessarsi alla pratica filmica nei primi anni Duemila, dopo avere sciolto l’amato gruppo alternative metal nel 1998 e avere aperto una carriera solista con gli album Hellbilly Deluxe (1998) e The Sinister Urge (2001). Il debutto nel lungometraggio è datato 2003 ed è già un manifesto d’intenti: La casa dei 1000 corpi, come i suoi concerti, sfoggia una bulimia vorace di forme e omaggi, di opposizioni in cui al rigore di alcune scene (l’elegante carrello all’indietro sulla stazione di benzina, il dolly sull’esecuzione dell’agente Nash) si contrappone l’orgia sconnessa di quelle successive. Zombie scrive, dirige e supervisiona in post-produzione un pastiche di forme e dispositivi, che frulla insieme ricostruzioni di filmati vintage e soggettive in steadycam à la Sam Raimi, trash video promozionali e riferimenti a Non aprite quella porta (1974) e ai film di Lucio Fulci. E poi freak show e sexploitation, archetipi e armamentari dell’horror anni Trenta, quadri di Hieronymus Bosch reinventati in chiave splatter (l’Uomo Pesce) e discese agli inferi di colori acidi, accesi, urlati tra frame negativi e positivi virati in rosso, verde e viola. Molte inquadrature sono scentrate, gli split screen si accumulano selvaggi, il montaggio procede a ritmo forsennato: è il film-pancia di Zombie, il manifesto di una furia primigenia che necessita ancora di essere sistematizzata in un impianto filmico vero e proprio. È nato un regista, che si prende una pausa dalla musica (nessun disco dal 2001 al 2006 di Educated Horses) per buttarsi anima e corpo nell’avventura di celluloide, chiudendo il cerchio sulla famiglia Firefly nel 2005 con La casa del diavolo, scarto evolutivo da un frenetico cinema di accumulo a uno ragionato di struttura narrativa, formale e contestuale. La varietà di dispositivi e referenti è ancora sovrabbondante, anche se differente – dal western di Sam Packinpah al sempre presente Tobe Hooper, da Easy Rider (1969) a Le colline hanno gli occhi (1977), dai fratelli Marx all’hardcore incarnato dalla pornostar Ginger Lynn, da tagli di montaggio netti a transizioni con tendine che richiamano i classici americani – ma è qui finalizzata alla creazione di un mondo coeso. Zombie muove le proprie caricature nella sporcizia, nella sabbia e nella fuliggine di un’America rurale cotta dal sole, di una dittatura redneck fieramente (follemente) sudista nella quale incontrare on the road una morte certa. La corsa fatale dei Firefly a bordo di un’auto, lanciata a tutta velocità incontro a una grandinata di piombo, è capace di sintetizzare ogni suggestione messa in campo fino a quel momento: i campi lunghi contestuali, il destino ineluttabile e barbaramente accettato come tale, il fermo immagine come tecnica funzionale e mai gratuita. Ogni riferimento a fatti e persone cinematografiche non è mai stato casuale e Zombie lo attesta, massacrando i suoi antieroi criminali in una sequenza che, appropriandosi della lezione di Peckinpah, la riattualizza senza scimmiottarla. La casa del diavolo è il film-polmone, inserito in una struttura toracica blindata e capace di donare l’ossigeno della consapevolezza drammaturgica al pulsante bisogno di elevare a potenza le suggestioni audiovisive. Anche graficamente, Zombie abbandona la frenesia primitiva e si concede qualche scarto verso una geometria che sarà propria dei suoi film successivi: la staticità delle fotografie iniziali, i fermo immagine, dolly e carrelli sempre misurati e qualche establishing shot cui ancorare lo sguardo sono atti di impercettibile sobrietà che aprono al successivo Halloween. The Beginning, gesto filmico la cui natura derivativa si esaurisce nel titolo e nel main theme di una colonna sonora che è limpida citazione carpenteriana. A quattro anni, due film e un disco dal debutto, l’autore è ormai consapevole padrone del linguaggio e nel 2007 impagina una carneficina al limite del manierismo. Pur non consumandosi esclusivamente nella componente formale, il remake (quasi reboot) di Halloween. La notte delle streghe (1978) procede per carrelli in pedinamento sui personaggi, false soggettive e raffinati giochi thriller di messa a fuoco, panoramiche cadenzate e ralenti rarefatti. Nel buio esteso della messa in scena, Zombie lavora con i controluce per dare corpo all’angoscia, procedendo per sottrazione (anche di musiche e suoni) in netta controtendenza con le meccaniche di accumulo sperimentate agli esordi. Nella consueta notte di Ognissanti, la furia in camera a mano squarcia improvvisamente un testo di compatta geometria estetica, acquisendo ulteriore valore simbolico in prossimità delle sequenze più animalesche: nello sfogo forsennato di Michael Myers il montaggio diventa frenetico e la macchina da presa cede all’isteria. Mezzo filmico e finalità drammaturgica si incontrano, in una tessitura narrativa pregna di sottotesti psicoanalitici. La dimensione affettiva forte rende Halloween. The Beginning il film-cuore, quello più stratificato in termini emotivi e simbolici. Sheri Moon Zombie, compagna di una vita e cartina di tornasole per leggere il cinema dell’autore, è qui madre e sexy stripper, in una crasi di ruoli che permette a Edipo di scorrazzare liberamente da un locale a luci rosse ai fornelli della cucina di casa Myers. Abbandonati i panni della scapigliata killer borderline Baby Firefly, l’attrice inizia il percorso trascendente che la porterà a interpretare una madre-eterea e diabolicamente onirica in Halloween II (2009) e la regina di tutti i sabba in Le streghe di Salem (2012). Il cinema di Zombie non è più questione di soli corpi (filmici e anatomici) in brutale collisione, ma inizia ad assumere i connotati della sperimentazione, che in Le streghe di Salem raggiunge vertici di astrazione e purezza. In mezzo c’è Halloween II, a chiudere il dittico e ad aprire interstizi di trascendenza. In una macelleria in cui la brutalità di Myers è fuori controllo, tra tendini recisi, arterie spaccate e corpi sventrati, si fanno strada sequenze di omicidio in ralenti estatico e muto, ma soprattutto crepacci di sogno con mamma Myers e cavallo bianco e banchetti onirici con creature antropomorfe. Tra le nebbie notturne si inaugura la dimensione contemplativa del cinema di Zombie, che in Le streghe di Salem – girato dopo aver concluso il disco Hellbilly Deluxe 2 nel 2010 – si impossessa della struttura drammaturgica e la spinge al collasso. In quello che a tutti gli effetti è il suo INLAND EMPIRE, Zombie cerca e trova i numeri primi estetici (ed estatici) della propria arte visiva, cercando lo stupore in quadri ad altissima valenza lirico-simbolica. La macchina da presa si muove sempre di meno, aprendo il campo alla statica meraviglia di teatri sporcati da demoni antropomorfi, di sabba in luci ocra bagnati dalle viscere di vittime sacrificali, di lenti carrelli all’indietro su corridoi deserti, di stanze inondate della luce rossa irrorata da un crocifisso abnorme. È una meraviglia quasi mélièsiana, quella che anima il cineocchio zombiano, e non è certo un caso che alle spalle dell’eterea Sheri Moon compaia la gigantografia della celebre luna messa in scena dal pioniere del fantastico nel suo Viaggio nella luna (1902), trasformata nella gigantografia di tutt’altro nel romanzo che Zombie scrive assieme a B.K. Evenson e pubblica nel 2013, ampliando (e rivisitando) alcuni contenuti del film: «L’appartamento di Heidi era tutto fuorché storico. La parete sopra il suo letto era coperta da un murale che ritraeva un Keith Richards piuttosto trasandato». Se in letteratura Zombie ricomincia dalla pancia, nel cinema trova la misura dell’astrazione, confezionando il suo nuovo manifesto da cui ripartire per nuove, furiose orge di sangue. Con le dovute pause di ludico sfogo (The Haunted World of El Superbeasto nel 2009 e il film-concerto The Zombie Horror Picture Show nel 2014, messo in scena cinque anni dopo aver “ucciso” Frank-N-Furter in Halloween II), il cinema di Zombie si è evoluto in un doppio percorso centrifugo e centripeto ed è approdato al film-cervello, quello oltre il quale ci può essere solo una ripartenza dal punto in cui tutto è iniziato. Dalla violenza più brutale prende le mosse 31, storia di una carneficina restituita senza sconti, ma con la consapevolezza di chi ha scavato dentro la propria arte, fino a trovare l’Eldorado delle forme significanti.
Claudio Bartolini