Editoriale: America sì, America no
Andrea ScarabelliIl fascicolo di Antarès appena dato alle stampe, che indaga gli Stati Uniti d’America come paradigma del vacillare della modernità, potrebbe considerarsi come ideale continuazione del n. 4, dedicato alla crisi del modello capitalista, struttura eminentemente moderna. Modernità e americanismo sono elementi di un’equazione davvero singolare. Spesso vengono considerati sinonimi, specialmente dopo la conclusione della Seconda Guerra Mondiale, come notato da Romano Vulpitta in un suo recente studio (L’antiamericanismo in Italia, Roma 2012, p. 30). Questo però non toglie che, al tempo stesso, gli USA esibiscano le numerose contraddizioni della modernità. Tali considerazioni accomunano intellettuali dei più svariati indirizzi, tra cui Alain de Benoist – che sostenne queste tesi già dopo l’11 settembre – e Giorgio Galli, nel suo recente L’impero antimoderno (della collana “l’Archeometro” di Bietti, complemento di Antarès), studio che è stato in certa misura il canovaccio del presente fascicolo. Trattandosi di un dominio molto vasto, non potremo che limitarci a dare qualche indicazione e messa a punto.
Anzitutto, parlare di antiamericanismo non equivale a essere contro l’America, ma contro il culto degli USA, esattamente come – lo ripetiamo da tempo, ma di fronte a obiezioni poco ponderate, repetita juvant – antimodernità e antimodernismo sono atteggiamenti ben distinti. Il primo è il rifiuto aprioristico dell’epoca storica in cui si vive (atteggiamento tanto sterile quanto, in fin dei conti, impossibile), il secondo – l’indirizzo assunto da questa rivista – la messa in discussione dell’adorazione acritica di quel momento storico, della sua celebrazione ed esaltazione. Di certo non saranno sufficienti rettifiche di questo tipo a rimuovere pregiudizi assai più antichi, ma si fa quel che si può…
Discutere sull’identità della realtà americana ci dice qualcosa non soltanto su di loro, ma anche su noi stessi. Loro – l’attuale potenza che detiene l’egemonia globale. Noi – che rispetto agli USA definiamo la nostra identità europea moderna. E il bilancio, a dire il vero, non è dei migliori. Il dibattito, spesso marcato da una certa virulenza, scatenatosi nei primi anni del nuovo millennio sull’esistenza o meno di un “impero americano” ha visto schierarsi opinionisti, saggisti e giornalisti. La ferocia con cui si reagisce di fronte a quelle posizioni che criticano l’impero statunitense è spesso formidabile. Siamo ancora nel dominio – tutto italiano – delle “etichette”: spesso e volentieri si qualificano le opposizioni semplicisticamente come “fasciste” o “marxiste” per non ascoltarle, relegandole a un passato che l’America avrebbe finalmente sepolto. Eppure, come scrive Marco Tarchi in un suo studio sul quale ritorneremo, non è necessario ricorrere a nostalgismi di sorta per criticare gli Stati Uniti, «impero inconsapevole di essere tale» (Ignatieff) che non conosce né tollera freni, promuovendo una sregolata esportazione di capitalismo e democrazia. Di modernità, insomma.
L’antiamericanismo è una di quelle tematiche che fanno saltare del tutto le vecchie opposizioni politiche, per come si sono cristallizzate nel nostro Paese. È un fenomeno trasversale, che supera le barriere ideologiche di ieri, spaziando dalla Rerum Novarum di Leone XIII ad Americanismo e Fordismo di Gramsci (Torino 1975), da Adorno e Horkheimer fino a Sombart e Spengler. D’altra parte, come esistono antiamericanismi di destra e sinistra, anche il filoamericanismo supera le antiche opposizioni, caratterizzando avversari di cui è sempre più palese la radice comune. Incredibile? Basterebbe leggersi gli editoriali delle testate più famose all’indomani dell’11 settembre per riscontrarvi le stesse parole d’ordine. Il già citato Vulpitta (op. cit., p. 71), a questo proposito, nota come oggi l’antiamericanismo sia appannaggio di frange politiche radicali, i “centristi” – di destra e di sinistra – non essendo che appendici europee degli USA. Parole che non possiamo che sottoscrivere.
Non c’è dunque un antiamericanismo solo: d’altra parte, scrive Vulpitta (op. cit., p. 16), la molteplicità delle avversioni al sogno americano riflette le innumerevoli sfaccettature di questo stesso sogno – nonché, ovviamente, i diversi rapporti intrattenuti dagli statunitensi con quello che definiscono sprezzantemente Row (rest of the world). Claudio Finzi (Europa Occidente Americhe, Roma 2009, p. 7) a sua volta parla di Americhe, al plurale, mentre Giorgio Galli ricorda come sarebbe meglio riferirsi agli “Stati Uniti” e non all’“America” tout court, anche perché esistono altre realtà politiche oltreoceano (che, oltretutto, degli Stati Uniti subiscono sovente l’ingerenza, gli interessi, le ambizioni).
Perché questo excursus su “destra” e “sinistra”? Per quale ragione tornare ancora su categorie la cui bancarotta e il cui fallimento progettuale – almeno a livello italiano, sebbene molti ancora ci costruiscano su carriere – sono sempre più sotto gli occhi di tutti? Semplicemente perché sono i filtri con i quali gli USA stessi interpretano ogni posizione che metta in dubbio il carattere assoluto della loro “missione civilizzatrice”. Quando in Europa si avanzano dubbi sulla legittimità dell’operato statunitense, si è filo-sovietici oppure pazzi reazionari. Eppure, ad onta di quanto l’opinione americana percepisce, essere scettici non equivale ad auspicare il ritorno di Mussolini (il cui parere sugli USA fu peraltro molto più complesso di quanto abitualmente si creda) né a essere marxisti o comunisti, ma nasce dalla constatazione dei numerosi danni, a livello politico ed economico, che sessant’anni di dominio planetario, di «colonizzazione culturale e psicologica» (Marco Tarchi, Contro l’americanismo, Roma-Bari 2004, p. 141) hanno causato. Eppure la critica statunitense si è ben vaccinata contro queste accuse, come d’altra parte i suoi allievi nostrani hanno ben imparato, scoprendosi da un giorno all’altro «tutti americani». La trasversalità menzionata, purtroppo, riguarda anche gli anatemi che colpiscono i dissensi…
Non serve essere filosovietici per pronunciarsi contro l’America: come dimenticare le testimonianze di chi denunciò, ad esempio, la comunanza tra i «satelliti» dell’unione sovietica e i «vassalli» dell’imperialismo statunitense (Alain de Benoist, L’impero del “bene”, Roma 2004, p. 149) o gli orizzonti del tutto analoghi che permearono le ideologie dei due “blocchi”? Come ignorare quanto scrisse Ernst Jünger, nel suo Stato mondiale, a proposito dell’identità di stella bianca e stella rossa? Come non ricordare le parole del filosofo Julius Evola, a cui è dedicato uno specifico contributo, il quale, sulle colonne della Nuova Antologia, definì in tempi non sospetti americanismo e bolscevismo – identici, da un punto di vista metastorico – come le braccia di una tenaglia in procinto di stringersi sull’Europa?
Riferimenti perlopiù sbattuti nel dimenticatoio, soffocati da un terrificante buonismo da primi della classe, che tuttavia è pronto a squalificare l’avversario come Male Assoluto, nulla risparmiando, nulla escludendo, laddove si tratti di annientarlo moralmente, fisicamente, spiritualmente – «il mondo non capisce quanto siamo buoni!» di George W. Bush, pronunziato un mese dopo l’attacco al World Trade Center. La straordinaria ingenuità degli americani li porta a non concepire nemmeno che da qualche parte del pianeta qualcuno possa essere in disaccordo con la loro “missione”. «L’olografia della inarrivabile bontà americana», così definita da Marco Tarchi (op. cit., p. VI), è facilmente riscontrabile in quello che è un capolavoro della vulgata a stelle e strisce, sul quale ritorneremo in questo numero (L’antiamericanismo in Europa, Soveria Mannelli 2007, p. 11), in cui Russel A. Berman, lungi dal considerare sintomatico di un certo agire americano le ondate di antiamericanismo diffuse in Europa, afferma che queste recano le «strutture ossessive di un modo di pensare fatto di pregiudizi e stereotipi» (p. 50), «una fantasia politica, una visione illogica e ideologica» (p. 52), «un’eccedenza isterica che va oltre la ragione» (p. 76). Che l’antiamericanismo sia in buona parte condizionato da fattori storici esterni agli USA è naturale. Accade per qualsiasi fattore storico, perché non dovrebbe valere anche per questo? Ma che la condotta globale statunitense non ne sia minimamente responsabile…
Molti di costoro, poi, giungono all’imprudenza di parlare di declino dell’impero [sic!] statunitense, minimizzando il ruolo ricoperto dagli USA a livello globale. Anche qui, valga quanto detto sopra. Ascrivere agli Stati Uniti la responsabilità di qualsiasi cosa accade sul pianeta è eccessivo e unilaterale – questa, forse, sarebbe un’autentica ossessione. Il che non toglie però che gli USA rimangono la potenza militare più importante e influente del mondo, nonché il centro planetario della finanza. Come non ricordare le parole di una Eleonora Duse – Ma ils se tuent, ces gens la! (Ma questi si ammazzano!) – sgomenta di fronte alla Borsa di Chicago?
Simile posizione, tuttavia, non è in nulla e per nulla assimilabile a molti di quei movimenti no-global, i quali, pretendendo di monopolizzare le opposizioni a un sistema pur totalitario e imperialista (non imperiale!), offrono la sponda a quegli stessi filoamericani, nostrani e statunitensi. Detti movimenti contestano appieno la dimensione politica statunitense ma non a sufficienza quella culturale, nutrendosi in fondo delle premesse dello stesso sistema che vorrebbero criticare – giungendo perfino, per una curiosa, ma non imprevedibile, eterogenesi dei fini, a rafforzarlo. Mancando spesso e volentieri di ogni sorta di portata realmente rivoluzionaria, sono le loro guerriglie urbane a puntellare il capitale, quando quest’ultimo vacilla, agli occhi dell’opinione pubblica. Ma gli attuali new global, occupy…, indignados e via dicendo non detengono il monopolio dell’antiamericanismo, sebbene oltreoceano – ma non solo – si finga d’ignorarlo. È anche grazie a costoro che l’America è diventata un mito, che vede fautori a oltranza, persuasi che essa sia il faro della nuova umanità, e detrattori tout court, che la dipingono come incarnazione del Male.
Non che gli americani non abbiano la minima responsabilità nella costituzione del mito che li ha come oggetto. L’ideologia americana è infatti impregnata da un messianismo senza pari. Costanzo Preve (L’ideocrazia imperiale americana, Roma 2004, p. 11) la definisce «una ideologia messianica di origine puritana seicentesca, frutto di una (apparente) laicizzazione della dottrina calvinista». Concetti, questi, già formulati nell’ormai introvabile Il male americano del 1978, firmato da Giorgio Locchi e Alain de Benoist, primo volume dedicato all’antiamericanismo nel secondo dopoguerra italiano. Eric Voegelin, nella sua Nuova scienza politica (Torino, 1968) colora il progetto americano di tinte gnostiche.
Da parte americana? Come non ricordare le parole del presidente John Adams, che parlava degli USA come di una «Repubblica pura e virtuosa che ha il destino di governare il globo e di introdurvi la perfezione dell’uomo» (cit. in Alain de Benoist, L’impero del “bene”, cit., p. 15). È la celebre dottrina del destino manifesto, che vede gli americani, popolo eletto da Dio, impegnati in un’opera di evangelizzazione planetaria e contrapposti all’Europa non solo come «potere a potere» ma come «altare ad altare» (Metternich). Il tutto, senza esclusione di mezzi: raccapriccianti, ad esempio, le parole di Benjamin Franklin, il quale considerò l’alcool venduto agli Indiani d’America come un mezzo fornito dalla Provvidenza, al fine di «distruggere questi selvaggi per lasciare spazio ai coltivatori della terra» (cit. in ivi, p. 31). Siamo innanzi a un nazionalismo dalle forte tinte messianiche (William Pfaff), il quale si serve dell’ideologia dei diritti dell’uomo, denunciata da Marco Tarchi (op. cit., p. 20) e Alain de Benoist (Oltre i diritti dell’uomo, Roma 2004), la quale, in tutta la sua innocenza, incarna la diffusione su scala globale di un paradigma regionale, relativo al solo Occidente, spesso e volentieri accompagnando olocausti e carneficine.
La realizzazione di questo messianismo escatologico fa da sfondo anche ai rapporti tra Nuovo e Vecchio Mondo. Gli stessi Pilgrims Fathers, protestanti estremisti, voltarono le spalle all’Europa, mossi dal desiderio di fondare nel non-luogo del continente americano un’utopia incarnata. La fuga – indotta – dal «malvagio mondo europeo» li portava verso una «nuova terra promessa» (Finzi, op. cit., p. 60). «L’America si è costituita per uscire dalla storia», scriveva Octavio Paz. Sono gli Stati Uniti ad aver voltato le spalle al rest of the world, alle «raffinate muse dell’Europa» (Emerson) e non viceversa, come sottende il vittimismo di certi filoamericani. Il distacco dall’Europa da parte del «perpetuo monumento ed esempio a emulazione e aspirazione degli altri paesi» (Thomas Jefferson), della «Nuova Gerusalemme» (George Washington), si palesa già nella dichiarazione del presidente Monroe, che precluse al mondo europeo qualsiasi decisione di ordine politico all’interno del continente americano, situato in una magnifica «condizione di isolamento», alienato dalle scaramucce politiche del Vecchio Mondo e del Row «dal vasto oceano che ci separa da quelli», come scrisse Jefferson allo scienziato tedesco Alexander von Humboldt (Ivi, p. 15). In queste righe è possibile decifrare buona parte delle scelte politiche che seguiranno, mettendo a repentaglio la pluralità delle culture, la loro ineguaglianza – patrimonio inalienabile che tanto scandalo genera presso i progressisti, che vorrebbero omologarle in un disegno unico, di cui, guarda caso, essi stessi sarebbero i guardasigilli –, quella loro irriducibilità che è un dovere salvaguardare e proteggere dall’egualitarismo propagandato dai bombardamenti e dal politically correct a mano armata, nell’epoca dell’american dream…
Il presente numero ospita la rassegna di una serie di critiche controcorrente agli USA, che esplorano l’universo americano affrontando tematiche e punti di vista poco noti. Come ha scritto Giorgio Galli nella sua introduzione, non intende fornire una sintomatologia completa della crisi della modernità statunitense, non ha la pretesa di essere una guida all’“impero antimoderno” ma un pungolo, uno stimolo atto a considerare la realtà globale in cui ci troviamo catapultati al principio del XXI secolo come un multiverso a più dimensioni, senza che alcuno oh yes, we can si arroghi il diritto di regolare tutti gli orologi del pianeta sul proprio. Gli articoli contenuti in questo fascicolo affrontano la crisi della modernità assumendo come punto di riferimento gli Stati Uniti, luogo che alla modernità politica – come messo a fuoco da Giorgio Galli – ha dato i natali, ma che esibisce, al contempo, tutti i sintomi di quella crisi che è cifra fondamentale del nostro tempo.