Intervista a Nino Galloni: «Il naufragio del libero mercato»
Rita Catania MarroneQuali sono state, secondo Lei, le cause della crisi attuale? Si tratta di cause episodiche oppure possiamo considerarle strutturali, cioè implicite nel sistema stesso?
Per comprendere le cause di questa crisi nata dall’economia reale, dobbiamo fare un piccolo passo indietro e capire ciò che lega la cultura economica ai sistemi di governo e di produzione.
Fino agli anni ’70, la realtà era caratterizzata prevalentemente da economie di scala e, quindi, da costi decrescenti. In questa situazione c’era spazio per l’aumento dei salari, la tenuta dei profitti e l’introduzione di tecnologie sempre più avanzate. Vi era spazio anche per la crescita delle piante organiche e delle piante industriali, il che comportava continue economie di scala, quindi riduzioni dei costi e, conseguentemente, anche benefici sul piano dei prezzi.
Con la controrivoluzione liberistica degli anni successivi, dall’inizio degli anni ’80 in poi, si è avuta una cultura economica di tutt’altro genere che, in nome del libero mercato, quindi per ripristinare una condizione di accesso di tutti a questo mercato, si basava su una logica di costi crescenti. I lavoratori dovevano essere pagati sempre di meno, l’ambiente non doveva essere rispettato, e le tasse stesse erano soprattutto un costo dal punto di vista dei singoli. Si è quindi passati da una logica macroeconomica dei decenni precedenti, che avevano conosciuto un certo sviluppo, ad una in cui prevalevano le esigenze di microeconomia e, conseguentemente, ad una cultura da bassi salari, flessibilità che diventava precarietà, contraffazione delle regole; questo perché la globalizzazione (quella che abbiamo chiamato così ma che, in realtà, non è che una competizione sfrenata a livello internazionale) premiava il produttore peggiore, quello cioè che era competitivo perché riusciva legalmente o illegalmente a pagare di meno la mano d’opera, a non rispettare l’ambiente e le normative (anche quelle internazionali).
Questo si collega all’abbandono del modello stabilito dagli accordi di Bretton Woods nel ’44 (che fungerà un anno dopo da traccia per la conferenza di Yalta), nell’ambito dei quali i Paesi che dovevano dotarsi di un apparato industriale e, conseguentemente, erano costretti a importare, mettendo le proprie bilance commerciali in disavanzo, venivano aiutati dal nuovo Fondo Monetario Internazionale. In realtà poi questo programma non venne rispettato e il nuovo FMI diventò un modo per finanziare qualunque disavanzo dei Paesi, purché fossero allineati con gli Stati Uniti d’America. Negli anni ’80, si ha un’ulteriore svolta e viene detto che ciascun Paese è responsabile della propria bilancia commerciale. Se questa non è in equilibrio ci sono tre possibilità: nel caso che sia in avanzo deve rivalutare la propria moneta; nel caso in cui sia in disavanzo la deve svalutare, nel caso in cui ci siano i cambi fissi (ovvero la moneta unica) deve importare capitali e quindi trovare l’equilibrio attraverso la bilancia dei pagamenti. Per importare i capitali li deve invogliare e, per fare ciò, deve far crescere i propri tassi di interesse interni (oggi c’è lo spread ma ieri il problema era lo stesso, in realtà non è cambiato molto).
Ma che cosa succede, a questo punto? Che quando un Paese è già debole e in disavanzo commerciale, cioè non riesce ad esportare ed importa troppo, fa crescere i propri tassi di interesse e si indebolisce ancora di più. Quindi questo sistema di libero mercato, di liberismo, del trentennio che è naufragato alla fine dell’anno scorso è insostenibile dal lato dell’economia reale, perché non tutti i Paesi potevano essere stabili, dato che l’equilibrio di un Paese debole era perseguito indebolendolo ancora di più; tant’è che la crisi monetaria del ’92 fu causata da questa situazione in condizione di cambi fissi all’interno dello SME (Sistema Monetario Europeo).
Dopodiché, si è arrivati alla moneta unica che, diciamolo, è stata una forzatura perché in genere prima si trova una certa unione politica, poi si fa la moneta. Invece, qui si è creata la moneta e poi ci si è accorti che non c’era nessuna unione politica. E questa è causa di problemi, non solo a livello europeo ma, a sentire Obama, anche a livello internazionale (secondo il Presidente americano, tutti i mali potrebbero nascere dall’euro. Il che non è una visione prettamente condivisibile, ma nemmeno del tutto campata in aria).
Su questa situazione si instaura la crisi finanziaria o, meglio, si inseriscono i comportamenti degli agenti speculativi che sono le banche stesse, diventate anche soggetti speculativi. C’è peraltro da tener conto che, finché la Borsa è andata bene dopo la crisi dei titoli obbligazionari del ’92 e fino all’inizio di questa crisi nel 2001, c’è stato un certo trainamento, un rialzo dei titoli tecnologici (e-technology, e-commerce ecc.). Quando questa corsa si è interrotta e gli operatori hanno visto che i rendimenti non erano più crescenti (questo è successo alla fine della primavera del 2001), cambia il regime e si comincia a svendere, cioè a speculare al ribasso: si prende oggi un titolo a credito per rivenderlo immediatamente domani, saldandolo con l’originario venditore a termine. E in questo frattempo si fa abbassare il titolo il più possibile e si guadagna la differenza al ribasso fra i due momenti. Siccome però le banche avevano emesso titoli al rialzo e si erano quindi impegnate coi loro sottoscrittori a livelli notevoli, che più o meno scimmiottavano l’elevatezza dei tassi di interesse reali nel decennio precedente (quello che va dall’83 al ’92 e che vedeva alti tassi di interesse sulle obbligazioni), cosa è successo? Sperando ci sarebbe stata, dopo uno/due trimestri, la ripresa, le banche hanno fatto operazioni di derivazione. Per dirla con parole semplici, piccole catene di Sant’Antonio per garantire il rendimento promesso ai sottoscrittori. Se questo gioco dura tre mesi o sei mesi si può reggere; invece, di trimestre in trimestre, di semestre in semestre, mentre era prevista una ripresa che non sarebbe mai potuta avvenire (perché non si sono rimossi gli ostacoli alla crescita dell’economia reale di cui ho accennato prima), questi disgraziati hanno continuato a fare operazioni di derivazione, che hanno prodotto effetti per circa ottocento trilioni di dollari, cioè ottocento mila miliardi di dollari. Ecco cos’è successo.
Nel 2008 le banche si sono accorte che le perdite da operazioni speculative superavano le rimesse – a vario titolo – delle famiglie e delle imprese (anche criminali): di qui la crisi di liquidità anche perché il “sistema bancario” era stato rimosso e le singole banche sapevano che il vicino versava in condizioni di illiquidità simili alle proprie. Quindi il mercato interbancario era fottuto.
Questa montagna di derivati è solo una parte dei cosiddetti titoli tossici, i quali assommano invece a tre-quattro milioni di miliardi (quadrilioni) di dollari. È una situazione, da un punto di vista finanziario, insostenibile, ingestibile.
Con la illiquidità prima descritta, gli unici soggetti regolatori sono le banche centrali; ma queste ultime non hanno possibilità pari al 10% dei titoli tossici, vale a dire 6/7 volte il PIL mondiale.
Dunque, cosa si inventano l’estate scorsa? La illimitatezza del sostegno alle esigenze di liquidità delle banche: non si cerca una modalità per frenare i loro comportamenti, soprattutto dividendo nettamente i soggetti che fanno attività speculative da quelli che devono dare credito all’economia; infatti, non ci può essere ripresa laddove non vi sia credito all’economia; se è tutto bloccato dal lato delle spese pubbliche, se calano i consumi, se i privati non fanno investimenti perché non vedono la ripresa. Sarebbe necessario che ognuno facesse la sua parte, cosa di cui nessuno invece si preoccupa. La FED dispone questo tipo di sostegno il 15 settembre del 2011 e la BCE, dopo alcuni tentennamenti, nel novembre del 2011 si adegua anche lei, con l’approvazione di Mario Draghi. Sostegno illimitato alle esigenze di liquidità delle banche. Senza nessuna contropartita. Ciò che è scandaloso non è che le banche centrali forniscano illimitatamente liquidità alle banche, ma il fatto che non dicano loro di smetterla. Per cui i derivati stanno ricominciando a crescere e le esigenze di liquidità cresceranno parimenti perché la ripresa nel frattempo non inizia. Ecco la situazione nella quale ci siamo trovati.
Dobbiamo quindi dedurre che la situazione sta degenerando ulteriormente?
Assolutamente sì; ma il mondo è diverso da cinquant’anni fa: fino allora una situazione del genere avrebbe creato un’inflazione devastatrice dopo la quale poi l’incognita sarebbe stata quella dell’ impatto del disastro finanziario sull’economia reale; tuttavia, poi si ricominciava. Invece qui, praticamente, ci sono dei meccanismi che consentono di sostenere questo sistema anche se non credo illimitatamente. Però, intanto, quello è l’impegno delle banche centrali. Pensate che basterebbe un decimo di quello che le banche centrali hanno dedicato alle banche che producono i derivati per avviare la ripresa, per risolvere il problema. Utilizzando possibilmente anche il volano del credito, che è la moneta più importante. Tuttavia, quest’ultimo, per essere utilizzato pienamente, abbisogna che lo stesso soggetto non faccia sia attività speculativa finanziaria sia attività di credito. È necessario tornare a distinguere i due soggetti. Questa è la condizione per iniziare a parlare seriamente di come uscire da questo casino.
Dunque un’inversione di marcia è ancora possibile, laddove si agisse in tempi brevi?
Sì, anche se poi il problema sarà quello di sterilizzare in qualche modo questi quadrilioni di titoli tossici. Perché basterebbe un accordo fra i principali Stati del pianeta (penso alla Cina, all’India, alla Russia, agli Stati Uniti d’America e ovviamente anche all’Europa) affinché li congelino ed emettano dei titoli corrispondenti – da loro garantiti – per finanziare lo sviluppo. Se questo accordo avvenisse il problema non sussisterebbe. Ma il vero nodo problematico sta nella situazione delle singole banche, per le quali mi pare ormai che la situazione stia sempre più degenerando, soprattutto per quanto riguarda quelle più incasinate, tra le quali escluderei quelle italiane (dunque la nostra situazione da questo lato è migliore di quella spagnola, francese, inglese e tedesca).
Questo per quanto riguarda le cause della crisi che stiamo vivendo; da quanto abbiamo detto, si capisce come siano strutturali, già implicite nelle premesse del sistema.
Qual è la differenza rispetto alle grandi crisi del passato, ad esempio con quella del 1929?
Dunque ci sono ananlogie e ci sono differenze. Un aspetto in comune con la crisi del ’29 è il fatto che le retribuzioni, quindi i consumi, crescono meno rispetto alle capacità produttive; da ciò consegue una situazione di insufficienza della domanda. C’è uno spostamento della ricchezza verso la finanza e un risucchiamento, sia attraverso le tasse sia tramite altri sistemi, delle risorse create e prodotte dalla gente che lavora nei confronti di chi campa in qualche modo di rendita. Il che non è evidentemente una buona notizia.
La grande differenza è che oggi le capacità produttive rapidamente recuperabili sono talmente ingenti che non esiste l’ipotesi di una crisi inflattiva da eccesso di moneta: ma, invece di trarre vantaggio da tale situazione, l’umanità la sta sprecando utilizzandola solo per autorizzare le speculazioni nelle loro folli corse. La follia la paga la società che rischia di rompersi, in quanto gli speculatori riescono sempre a guadagnarci su: al ribasso, come ho accennato, e anche sfruttando il fatto che singole operazioni, in perdita alla fine del termine (giorno, mese, trimestre, anno…), tuttavia vengono remunerate al loro ripetersi nell’unità di tempo (secondi, millesimi, nanosecondi, metà giornata…).
Esistono, a Suo parere, delle soluzioni realizzabili per uscire da questa situazione?
Per uscirne bisogna compiere alcune operazioni fondamentali. La prima, di cui abbiamo già parlato, è la netta separazione fra i soggetti che svolgono attività speculative e i soggetti che svolgono attività di credito.
Per quanto riguarda invece la seconda, si tratta di ripristinare la sovranità monetaria. Mi riferisco soprattutto alla situazione attuale degli USA, i quali possiedono sovranità monetaria, come la Cina in fondo, solo che, per esempio, gli USA utilizzano questa potenzialità per fare delle guerre inutili e dannose (ovvero attività che potremmo definire speculative) senza sfruttarla abbastanza per fare investimenti di infrastrutturazione del pianeta e altre cose di questo tipo. Oggi l’umanità ha a disposizione, a differenza del passato, tecnologie che consentono di produrre e di migliorare le condizioni di vita di tutti senza problemi. Infatti, tutta questa moneta che viene creata non genera inflazione, perché qualcosa arriva comunque anche alle tasche della gente (o almeno, di alcune categorie) e la domanda rimane sempre abbastanza alta. I prodotti, i servizi e le capacità produttive inutilizzate ci sono e rappresentano la salvaguardia dall’inflazione, almeno per il momento. Poi dopo non sappiamo cosa succederà.
In terzo luogo bisogna togliere gli interessi sui titoli del debito pubblico dal bilancio dello Stato. Questo si fa mettendo il debito pubblico fuori dal perimetro dello Stato in quanto tale, come amministrazione. È necessario, quindi, creare un fondo che raccolga tutte le realtà da reddito delle pubbliche amministrazioni e non solo, a garanzia del debito stesso, in modo da risparmiare, nel caso dell’Italia, quegli 84 miliardi di interessi all’anno che sono la palla al piede. Il peso, infatti, non è il debito in quanto tale, ma i suoi interessi. Il problema dell’Italia è lo spread (così come negli anni ’90 le modalità di compensazione dei disavanzi commerciali, o prima la politica errata del debito da parte delle autorità monetarie).
La politica di questo governo non è stata quella di abbassare lo spread ma quella di mettervi un tetto, oltre il quale deve entrare in funzione il cosiddetto fondo salva-Stati. Ma quel tetto, se impedisce il tracollo nel giro di poche settimane, ci fa morire più lentamente. Perché occorrerebbe portare lo spread attorno ai 100 punti massimo. O, se vogliamo, abbassare il tetto ai 100 punti, non tenerlo intorno ai 400 o poco meno… anche con uno spread a 350 siamo in difficoltà con gli investimenti per la ripresa! Come si fa a tenerlo basso? Prima di tutto bisogna far crescere l’economia. Questa è la prima cosa. Ovviamente gli stessi mercati internazionali che ci chiedono lo sviluppo vogliono vedere anche i conti in ordine, quindi, in questo momento dovremmo dare capacità d’acquisto alle famiglie ma non aumentare il disavanzo pubblico e quindi l’emissione di titoli. Ad esempio, che cosa succede quando abbassiamo (e quando abbasseremo, se faremo come la Spagna con le tredicesime) gli stipendi dei dipendenti pubblici? Avremo un calo dei loro consumi, con tutte le conseguenze sul piano occupazionale dell’indotto del pubblico, i consumi privati delle famiglie dei dipendenti pubblici. Un fatto assolutamente negativo perché alla fine dell’anno, se continuiamo così, ci accorgeremo che il PIL è calato del 3%: se non cambiamo rotta tempestivamente le conseguenze saranno devastanti perché lo spread schizzerà più in alto. Per far accettare alla Finlandia, all’Olanda, alla Germania di intervenire per farlo alzare oltre i 500-600 punti, dobbiamo dare loro in cambio lacrime e sangue? Ma lacrime e sangue sono proprio quello che ci impedisce lo sviluppo! Possiamo anche, per ipotesi, sospendere le tredicesime dei dipendenti pubblici, ma dobbiamo dare loro della moneta non convertibile (dei buoni, dei vaucher, dei coupon senza copertura in euro, ovviamente, ma spendibili sul mercato interno) da utilizzare nei negozi per approvvigionarsi di cibo, vestiario, oggetti di consumo.
Esiste un rapporto tra quanto sta dicendo, il coinvolgimento delle categorie produttive e la previdenza?
Occorre un patto con i commercianti e gli artigiani affinché accettino questa moneta complementare. Perché, a loro volta, queste categorie stanno mandando in disavanzo l’INPS. Non ci si rende conto che questo disavanzo è dovuto fondamentalmente al fatto che gli artigiani evadono perché non gli si spiega che gli converrebbe non evadere; andrebbe rivista tutta la posizione dei commercianti all’interno dell’INPS.
Tutto il mondo agricolo sarebbe da rivisitare, poiché l’agricoltura nel nostro Paese è fondamentale, molto più importante di quello che comunemente si crede, ma non è l’agricoltura da assistenza degli anni ’70. Bisognerebbe ragionare di più su quello che si potrebbe fare per questo settore.
È ovvio che se le imprese non crescono non c’è domanda di dirigenti e, mentre quelli di venti, trenta anni fa sono andati in pensione con alte pensioni, quelli attuali sono pochi; non ci sono abbastanza versamenti.
Oltretutto c’è ora il problema dei dipendenti pubblici che sono entrati nell’INPS. È ovvio che, se non si assumono più dipendenti pubblici ma si pagano le consulenze e i lavoratori precari, non ci può essere equilibrio. Stiamo parlando di una dozzina di miliardi di euro. Ovviamente poi, in fondo, i lavoratori dipendenti e soprattutto i parasubordinati portano invece risorse e si fa una compensazione per cui il disavanzo dell’INPS è contenuto, ma è un’apparenza: in realtà non si affrontano i problemi strutturali. Qui si parla tanto di riforme ma poi non si fanno interventi dove sarebbe più necessario.
Un altro punto da affrontare è il riposizionamento della pubblica amministrazione dello Stato, che deve diventare “amica” dei cittadini. L’impresa, l’artigiano deve vedere in essa un amico che va a trovarlo e gli sistema il bilancio, gli mette a posto le inadempienze ecc. perché lo Stato, la pubblica amministrazione si deve posizionare fra la criminalità (che deve combattere senza tregua) e l’irregolarità per cui deve affrontare direttamente le inadempienze, aiutandosi nell’interesse comune. Non sconfiggeremo mai l’illegalità e la criminalità in questo Paese finché la faremo alleare con l’esercito degli irregolari che sono decine di milioni, perché ci sono troppe leggi, troppi regolamenti, troppi impicci. Quindi il prossimo governo dovrà cancellare leggi, non farne di altre. Però i funzionari pubblici, gli ispettori ecc. dovranno avere maggiori poteri, nell’interesse dei cittadini; ma dovranno sentirsi le spalle coperte non che se vanno in deroga a qualche normetta pensano di fare una brutta fine. Devono sapere che il loro obiettivo è quello di aiutare l’utenza e quindi se c’è un’inadempienza da parte dell’utenza la devono sistemare loro. Questo è fondamentale per avere una pubblica amministrazione moderna. Bisogna passare da una logica burocratica ad una logica commerciale. Così si può salvare il Paese, questi sono passaggi fondamentali.
Ovviamente, se poi l’euro non regge, allora bisogna attrezzarsi per fare – in base alle nostre vocazioni – affari con il Sud America, con il Nord Africa, coi Balcani, con la Russia. Secondo me l’Italia ha le risorse per farcela. Tra l’altro oggi ci sono tecnologie di cui molti brevetti sono italiani: se messi in produzione (per il trattamento dei rifiuti, per la sostituzione con altre tecnologie per i veicoli di trasporto e dei modi di trasporto, per la produzione di energia, tutte su basi locali) consentirebbero veramente di gestire il Paese alla grande e di farci essere leader di tutta una serie di aspetti strategici dell’economia. Però, se non si riesce a creare una politica che voglia queste cose è ovvio che fra poco andremo verso una situazione ancora più grave di quella che stiamo vivendo al momento.
Le speranze allora non mancano, laddove vi sia una volontà politica…
Le speranze ci sono, perché finché regge la capacità produttiva industriale dell’Italia, in qualsiasi momento possiamo riprendere. Però non ci dimentichiamo che le imprese italiane soprattutto quelle del centro-nord stanno alla canna del gas. Non hanno banche che le aiutino, non hanno infrastrutture che funzionino, non hanno una pubblica amministrazione amica che sono le tre cose fondamentali su cui bisogna intervenire per fare investimenti, per cambiare i rapporti e gli obbiettivi, per avere una banca (bank in inglese significa sponda) adeguata.