Editoriale: voci dagli abissi cosmici
Andrea Scarabelli0«Abbiamo bisogno di nuove mitologie; non possiamo rinunciarvi.» Così Ray Bradbury definì la funzione fondamentale della fantascienza (Siamo noi i marziani, Bietti, Milano 2015, p. 110), soprattutto in un tempo come il nostro, sorprendentemente povero di miti. Questo numero di «Antarès» nasce proprio dalle parole del «poeta dello spazio», con un duplice intento: da un lato, sviscerare quegli elementi mitologici presenti all’interno della fantascienza; dall’altro, rilevare come questo genere contenga una proposta non solamente letteraria ma anzitutto esistenziale.
Nel fascicolo Modernità occulta tentammo di dimostrare come certi simboli, messi al bando dalla modernità, scegliessero quale terreno d’elezione per riemergere il dominio dell’estetica. Lo stesso accade nel caso della fantascienza, all’interno della quale archetipi molto antichi non vengono semplicemente riesumati, ma si tramutano in materia viva, calandosi nel nostro mondo. Così, nelle Fondazioni di Asimov risorge il mito del Re del Mondo, di cui parlarono, tra gli altri, Alexandre Saint-Yves d’Alveydre e Ferdynand Ossendowsky (Albano), mentre la Nascita del superuomo di Theodor Sturgeon diviene una variazione sul tema mitologico della trasmutazione (Ghezzo), laddove nelle opere di Robert E. Howard a parlare sono versioni aggiornate degli eroi dell’antica Britannia (Guarriello), per giungere infine al post-moderno, deserto dal quale può rinascere una remitologizzazione del mondo (Nejrotti). Le radici di questo genere sono dunque molto più antiche di quanto si possa pensare, come dimostrato dagli articoli di Alex Voglino e Claudio de Nardi e dall’introduzione a The Ship of Ishtar di Abraham Merritt, firmata da Gianfranco de Turris e Sebastiano Fusco, inserita nel dossier.
Ma l’individuazione di questi nuclei archetipici non esaurisce il contenuto di questo numero. Esso, infatti, riprende idee critiche già espresse in precedenza (in particolare, nei fascicoli di «Diorama Letterario», n. 6, settembre 1983, L’alternativa fantastica, e «L’altro regno», a. IV, n. 12, Speciale «Heroic Fantasy»), secondo le quali nella fantascienza è da vedersi un nuovo mito, quale ausilio per una modernità in crisi proprio perché priva di una mitologia fondante. Naturalmente, il mito non va inteso come semplice narrazione del tempo che fu, bensì – secondo le intuizioni dei più aggiornati studiosi dell’argomento – come un modo di abitare il mondo, tramite una sua interpretazione e trasfigurazione. Non racconto ma reintegrazione e attualizzazione dell’originario, insomma.
Ebbene, se la fantascienza precipita il tempo del mito all’interno degli spazi siderali è perché questi sono i nostri spazi, con i quali abbiamo sempre più – ma sempre meno – familiarità. Sempre più, perché è stata la scienza moderna ad aprirci ad essi, esplorando l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo, per dirla con Pascal, e sbalzandoci fuori dalla rassicurante immagine di un universo avente come centro noi stessi. Sempre meno, perché questa rivoluzione ha colto – e coglie – l’uomo moderno impreparato. È come se tra i contemporanei e il loro tempo si fosse generato uno scollamento, che ha generato una sfiducia totale nei confronti di quello che, volenti o nolenti, è uno dei suoi elementi fondamentali, vale a dire la scienza. Ciò è accaduto, inutile dirlo, con la complicità delle terribili possibilità dischiuse dalla tecnica. Come scrisse Fabio Calabrese, la fantascienza «nasce nel momento della presa d’atto del carattere planetario ed epocale della rivoluzione scientifico-tecnologica nella nostra civiltà… Può l’immaginazione… porci all’altezza delle dinamiche del nostro tempo, e quindi in una certa misura aiutarci a scegliere le tendenze positive e a superare quelle distruttive in un tempo in cui si approssima il crocevia tra l’espansione cosmica e la totale distruzione della nostra specie?» (Fiaba di ieri, fantastico di oggi, ne «L’altro regno», cit., p. 21).
Eppure, fermarsi alle possibilità micidiali spalancate dalla tecnica non è sufficiente: se è forse eccessivo affermare ch’essa sia il nostro destino (come se i destini fossero scanditi da un solo elemento…), sarebbe altrettanto miope prescinderne completamente. È qui che s’inserisce la SF, con la sua epica dello spazio, le avventure ambientate nella malinconia di galassie lontane, nel gelo di un universo la cui vastità ci affascina e atterrisce. Con la letteratura fantastica condivide «l’interrogazione metafisica sull’uomo, che coinvolge necessariamente il suo ruolo universale» (Michele Martino, Contro il «mondo moderno», in «Diorama Letterario», cit., p. 15) ma va ben oltre, indagando il «possibile, entro certe circostanze» (Philip K. Dick, My definition of SF, in «Just SF», n. 1, 1981), come scrissero anche Sergio Solmi (compilatore della storica antologia intitolata non casualmente Le meraviglie del possibile) e il già citato Bradbury, che la definì «arte del possibile».
La scienza ha spalancato dimensioni nuove, che l’umanità nemmeno riesce a comprendere: spetta alla letteratura rendercele familiari, condurre Ermes negli spazi esterni, inondandoli di quell’impulso che un tempo spinse gli occidentali a violare il mistero delle colonne d’Ercole alla ricerca di nuovi mondi. La follia è la stessa – quella follia che è l’uomo occidentale, della quale gli scrittori di fantascienza sono, a un tempo, alfieri e cassandre. Quest’epica della modernità dà voce nuova all’uomo, smarrito innanzi al ritorno del fantastico in seno alla scienza stessa (come affermarono Louis Pauwels e Jacques Bergier ne Il mattino dei maghi, stralci del quale sono riportati nell’antologia I demoni dell’Altrove, inserita in questo numero). Adempiendo, insomma, alla funzione svolta storicamente dal mito, messaggero tra l’uomo e il suo tempo.
Pur avventurandosi oltre l’atmosfera, infatti, un certo tipo di fantascienza torna sempre all’uomo, con le sue debolezze e le sue glorie, le sue tentazioni e la sua crescita, i suoi traumi e le sue vittorie. Anche il ricorso a dimensioni aliene – si veda l’opera di Clifford Simak, caposcuola della SF detta umanistica – si rivela essere una lente con la quale guardare l’umanità in modo diverso. Passando per lo spazio, si torna sempre sulla Terra. Non vi è mai un Altrove assoluto, se non nel cuore dell’uomo. «Siamo noi i marziani» ribatté Bradbury a un giornalista ottuso che gli rimproverò di aver sbagliato le previsioni circa l’esistenza della vita sul pianeta rosso. E l’uomo di Marte descritto da Robert Heinlein in Stranger in a strange land non la sa più forse più lunga sul nostro pianeta di quanto non voglia far credere? Ai suoi occhi, siamo noi gli alieni. Così come scrisse Philip K. Dick, esploratore degli stati allucinati – ma non meno reali – della psiche: «Siamo tutti degli alieni. Nessuno di noi appartiene a questo mondo; esso non ci appartiene» (cit. in Lawrence Sutin, Divine invasioni, Fanucci, Roma 2001, p. 114). Non appartiene a noi, nipoti della rivoluzione copernicana sgomenti innanzi all’Altrove. A quell’Altrove che siamo, e che dovremo essere fino in fondo, per essere contemporanei a noi stessi, piccoli abitanti di un piccolo pianeta all’interno di una periferia, una tra le tante, occupati a cantare ininterrottamente il mito di Orfeo – la cui testa, anche se recisa, non smette di narrare le gesta degli uomini, negli abissi siderali.