Labirinti cosmici

Mario Farneti
Jorge Luis Borges – Il Bibliotecario di Babele n. 12/2017
Labirinti cosmici

«Confusione… Confusione… mi dispiace se sei figlia della solita illusione e se fai confusione… Confu­sione… Tu vorresti imbalsamare anche l’ultima e più piccola emozione… Confusione…»

Il fading fa svanire le ultime parole della canzone di Lucio Battisti e dall’altoparlante del radioricevitore UHF dell’astro­nave emerge prepotente il rumore di fondo, uno scroscio asemico dal quale qualche scienziato paranoico aveva invano cercato di discernere messaggi intelligenti di specie aliene. Tuttavia, nes­sun alieno aveva mai pensato di inquinare la purezza dell’etere con un segnale spurio, che con la sua consistenza avrebbe creato distonia nell’ineffabile, intelligente cristallinità dell’Universo.

È l’anno 80 dalla Fondazione dell’Impero, mi chiamo Lu­cio Nevio Mandelli, capitano di vascello dell’Armata Spaziale d’Occidente, secondo in comando dell’astronave fotonica Ulti­ma Spes, che ha superato il confine del Sistema Solare a una velo­cità di centocinquantamila chilometri al secondo e, attraversata la Fascia di Kuiper, ha raggiunto le propaggini della Nube di Oort, generatrice di comete. Abbiamo intrapreso un viaggio verso un mondo nuovo – forse, un Nuovo Mondo.

Alcuni anni prima, la sonda automatica Spes Prima ci aveva preceduti in quel quadrante della Galassia con un viaggio di esplorazione all’interno di una singolarità e, con grande sorpre­sa, era ritornata sulla Terra appena un mese dopo il suo lancio, ri­portandoci una mappa dell’universo esplorato che aveva destato l’interesse degli scienziati: un labirinto cosmico cui si accedeva attraverso una serie continua e uniforme di singolarità.

Sembrava fosse tutto regolato da una logica cui la sonda non era riuscita a sfuggire e che l’aveva riportata in maniera del tutto inattesa al luogo di partenza. Era come l’invito di un’in­telligenza aliena a percorrere le vie di un labirinto regolato da una legge universale, che con quel fatto aveva voluto dare testi­monianza di esistere.

O era solo un tentativo di confondere i sensi di una specie involuta come quella umana? A noi era toccato verificare se la serie di singolarità costituisse l’atto volontario di una mente in­telligente, oppure se fosse frutto di casualità. La nostra poteva essere una missione senza speranza di ritorno, non soltanto a casa ma nelle nostre menti, nella nostra esistenza. Rischiavamo di perderci per sempre in un limbo privo di dimensioni e ragio­ne, proprio noi che pretendevamo di spiegare ogni cosa con il calcolo e la razionalità.

Il “buco neroè davanti a noi, nei pressi della Madre di tutte le comete, nel quadrante della Galassia segnalato dalla sonda. L’astronave riduce la velocità, fino ad azzerarla, a una distanza di mezzo milione di chilometri. L’elaboratore di bordo ne misura il diametro: appena diecimila chilometri. Entriamo in posizione di stallo. Basta un piccolo balzo in avanti per essere risucchia­ti da quel nulla che attrae dentro sé ogni brandello di materia, finanche la luce; seducente come una sirena muta che cattura con la sua fascinazione ogni essenza che le si avvicini. Ci stri­tolerà? Non lo sappiamo. Sappiamo soltanto che la sonda Spes Prima l’ha attraversato e ha fatto ritorno, intatta, sulla Terra, ma non conosciamo quale sarà l’effetto sugli esseri viventi.

Naomi Eshel, colonnello della Heyl Ha’Avir del Grande Israele, comandante della missione, ordina a Steve Collins, uf­ficiale di rotta dell’Armata Spaziale USEast, d’inserire i dati registrati anni prima. Qualche minuto, e il pilota Ivan Karpov della Federazione Russa Occidentale inizia la sequenza di avvio dei motori fotonici a raggi laser.

In quegli attimi d’incertezza ripenso all’incontro con l’Impe­ratore, poco prima della partenza. Il sovrano mi aveva ricevuto in udienza privata a Roma, sul Palatino, congratulandosi con me per essermi offerto volontario. Era fiero che un militare di alto grado dell’Impero d’Occidente partecipasse a una ricerca ritenuta “di confine” dalla scienza ufficiale. Fu in quell’occasio­ne che conobbi Edward Lattanzi, l’astrofisico che avrebbe fatto parte dell’equipaggio. Era un italo-americano di trentacinque anni, laureato al MIT ma perfezionatosi al Dipartimento di Astrofisica dell’Università “Roma Imperiale”.

«Motori allineati» sentenzia Karpov. «Siamo pronti al balzo.»

Helen attiva il conto alla rovescia: meno dieci secondi. Il letto­re numerico inizia la sequenza e, giunto a zero, sfrecciamo verso il buco nero, entrando nell’orizzonte degli eventi dopo tre secon­di e trecentotrentatré millesimi.

Il buio s’impossessa di ogni cosa, per pochi millesimi di se­condo o forse milioni di anni, concentrati in un non-tempo. Neanche un respiro e veniamo proiettati in un altro universo… o almeno è quanto crediamo, in quei primi attimi di smarri­mento. L’elaboratore di bordo stabilisce la posizione: cinquan­tamila chilometri dal pianeta Terra in allontanamento. Cal­coliamo il punto d’ingresso, che coincide esattamente con il centro della calotta polare… il Polo Nord, ma nel punto dell’u­niverso in cui si trovava la Terra settanta milioni di anni prima della nostra partenza.

Il dato appare incredibile, lo confrontiamo con quelli raccolti dalla Spes Prima. Ci accorgiamo che i dati originari si sono miste­riosamente modificati aderendo alla perfezione alla nuova realtà.

Il comandante ordina l’inversione di rotta verso “quella” Terra per indagare sul paradosso di cui siamo testimoni – tale, almeno, ci appare all’inizio. Entriamo in orbita intorno al pia­neta e attiviamo le telecamere di ricognizione. L’elaboratore di bordo opera un raffronto tra la massa continentale di allora e quella attuale, ma l’esito è negativo. L’estensione delle superfici emerse differisce del tutto da quella a noi nota e non è possibile eseguire alcuna proiezione che riconduca alla sua forma. L’uf­ficiale di rotta rileva un segnale radio proveniente da un’isola sperduta in un immenso oceano, molto simile a quello di un radiofaro. Ha origine da una struttura simmetrica, un evidente manufatto umano: un manufatto, all’epoca dei dinosauri! È un edificio a pianta ottagonale al centro di una vasta radura che emerge dalla giungla. La sua estensione supera quella di una metropoli media del mondo occidentale. È costituito da una sequenza di costruzioni senza soluzione di continuità geome­tricamente giustapposte.

La telecamera individua la presenza di uomini. Uomini come noi, nati settanta milioni di anni dopo. La scoperta capovolge la nostra visione del mondo. E poi, la cosa più sconvolgente: le telecamere di bordo scandagliano lo spazio intorno alla Terra, alla ricerca della Luna. Inutilmente: lo spazio è vuoto. Cerchia­mo di metterci in contatto radio con gli abitanti della strana costruzione, ma le gamme di frequenza sono pulite, tranne per quell’unico segnale radio, finché un raggio laser a bassa potenza esce dal centro della struttura e inquadra l’astronave per una frazione di secondo. Null’altro. In quell’istante l’elaboratore di bordo segnala un messaggio in ingresso che decodifica e dif­fonde attraverso l’altoparlante: è musica. Una musica ineffabile, che supera qualsiasi intuizione umana. All’improvviso avvi­stiamo un vascello spaziale – o, almeno, tale appare ai nostri occhi – di una forma che dapprima scambiamo per una farfalla, ma ci accorgiamo essere una labrys, la scure bipenne. Mi torna in mente il palazzo di Cnosso a Creta, chiamato dagli storici il palazzo delle labrys, cioè il labirinto. Il vascello spaziale si fer­ma a cinquecento chilometri da noi e diventa incandescente, le due lame iniziano a roteare creando una forma circolare che, al culmine dell’incandescenza, diventa oscura, creando un nuovo buco nero sempre più grande e potente, tanto da attirarci dentro in una frazione di secondo.

Riemergiamo ancora nei pressi della Terra, stavolta in un’epoca più recente: trenta milioni di anni prima della nostra era.

Invertiamo di nuovo la rotta ed entriamo in orbita intorno al nostro pianeta. Ci troviamo al centro di un paradosso inestri­cabile, a ogni passaggio riemergiamo sempre dalla Terra, come fosse il centro di un labirinto spaziale dal quale non si può sfug­gire. I dati ricevuti dalle telecamere di ricognizione sono ancora una volta sbalorditivi. A duecentomila chilometri dalla nostra posizione, una semisfera occupa la posizione della Luna. I sensori la identificano come una struttura metallica di lega sconosciuta. Intorno al grande impianto si avvicendano astronavi di forma oblunga, provenienti dalla Terra, che sembrano trasportare ma­teriali e uomini. Ci avviciniamo, ma veniamo circondati da una flottiglia di aeronavi discoidali. Operiamo una manovra di sgan­ciamento e, grazie ai potenti motori fotonici, raggiungiamo in pochi secondi una distanza di seicentomila chilometri.

Chiedo una spiegazione a Edward, la cui risposta è laconica: «Non c’è dubbio che la Luna sia un corpo artificiale, costruito in orbita da una civiltà umana ben più evoluta di quella attuale. La nostra Luna è il rudere di una costruzione ardita della mente umana.»

La mia incredulità è vinta solo dall’evidenza.

«Quel che dici ha dell’incredibile, ma qual è lo scopo di quest’opera gigantesca?»

«Sembra un’astronave destinata a trasportare nello spazio milioni di esseri umani. Potrebbe trattarsi della migrazione di un’intera civiltà verso un altro pianeta.»

«Una migrazione fallita» rispondo, «poiché la Luna non si è mai mossa dall’orbita terrestre…»

«Sempre che sia la stessa Luna…»

«Vuoi dire che questa civiltà è specializzata nella costruzione di… lune?»

«Non posso escluderlo…»

Un allarme risuona nella cabina di comando. Poco distante da noi appare ancora una volta l’enorme labrys, che inizia a rotea­re fino a diventare incandescente e collassare in un buco nero. Ancora una volta veniamo attratti all’interno e riemergiamo dal Polo Nord. Sotto di noi la Terra ha un’atmosfera densa e gialla­stra. L’elaboratore di bordo sentenzia che ci troviamo a meno di dieci milioni di anni dalla nostra era. Tutti i vulcani della Terra sono in eruzione e una nebbia pesante oscura i continenti.

Puntiamo le telecamere verso la Luna: i dati ricevuti ci dicono che non è la stessa di venti milioni di anni prima.

«Come sospettavo» dice Lattanzi. «La prima Luna era un’a­stronave che ha lasciato l’orbita terrestre, trasferendo milioni di coloni su un altro pianeta, forse attraverso lo stesso passaggio da noi usato per giungere sin qui. Questa invece è una nuova strut­tura, differente dall’altra. Infatti, ha un diametro più piccolo, benché l’orbita sia la stessa.»

Ci avviciniamo al corpo celeste. Dalla sua superficie si elevano guglie alte cento chilometri e più, così numerose da farla appa­rire come il riccio di una castagna. Le telecamere si sofferma­no su un panorama agghiacciante: la superficie è ricoperta da scheletri umani, migliaia, forse milioni, sparsi e ammucchiati dappertutto.

Quali le ragioni dell’immensa strage?

L’elaboratore trasmette i dati inconfutabili di un’eruzione solare d’inaudita potenza avvenuta cinquant’anni prima, che ha spazzato via l’intera civiltà umana sulla Terra e sulla “nave spaziale Luna”, intenzionata ad allontanarsi forse proprio per evitare le conseguenze mortali del fenomeno. Col passare dei millenni i raggi cosmici avevano poi eroso e polverizzato quei poveri resti finché nell’epoca da cui provenivamo non ne era ri­masta traccia. Il lungo e costante bombardamento dei meteoriti aveva infine reso irriconoscibili quelli che un tempo remoto era­no stati manufatti umani.

Volgiamo le telecamere di ricognizione verso la Terra, su un panorama di devastazione. Gli edifici appaiono fusi dalla poten­za dell’eruzione solare. Nessun sopravvissuto.

«Se l’umanità intera si è estinta dieci milioni di anni fa, chi sono i nostri antenati?» La domanda rimane senza risposta, perché ben presto la labrys si manifesta di nuovo e, trasformatasi in una singolarità, ci attrae al suo interno, sino a farci emergere ancora una volta dal Polo Nord, “appena” un milione di anni prima della nostra era.

La Terra appare verde e rigogliosa ma non vi è segno di attività umana, mentre la Luna è poco differente da quella dei nostri tempi. I sensori di bordo segnalano un’anomalia. In coda alla nostra astronave ne appare un’altra, emersa anch’essa dal Polo Nord, apertosi come il diaframma di una fotocamera. Non ci segue, cambia rotta e scende sulla Terra, seguita da altre decine di astronavi di forma diversa l’una dall’altra, sempre giunte dal­lo stesso passaggio, che eseguono manovre analoghe. Ognuna atterra in un punto diverso della superficie emersa, alcune s’im­mergono nelle distese marine.

«È la vita intelligente che ritorna sul pianeta» dice Edward. «La Terra è il centro di un labirinto cosmico verso il quale ten­dono tutte le anime della Galassia. Per questo motivo la vita lì è così potente, molteplice, proteiforme, inestinguibile. Per una civiltà evoluta è facile imbattersi in questo labirinto e ogni civil­tà lascia il suo segno sul pianeta, crocevia spaziale.»

«Noi uomini, quindi, non siamo figli di questo pianeta» ri­spondo sconcertato.

«No, Lucio» conferma Edward, «siamo figli del cosmo, che è intelligenza, ed è l’intelligenza il propellente di cui l’Universo non può fare a meno, pena la sua scomparsa. Siamo noi esseri pensanti a dargli significato e a far sì che si manifesti in ogni momento della nostra esistenza. Ciò che ha visto la sonda Spes Prima differiva da ciò che abbiamo percepito noi, poiché, non essendo un essere pensante, non dava significato ai dati che riceveva. Solo l’uomo può trascenderli, poiché possiede un’a­nima che è in contatto profondo con le miriadi di anime che abitano il cosmo.»

«Pensi che quello che abbiamo percorso sia l’unico labirinto o ne esistono altri?»

Edward guarda fuori dall’oblò. Il suo sguardo stenta a tro­vare un punto sul quale concentrarsi. Il viso gli s’illumina: «Il cosmo, nella sua immensa complessità, è formato da una moltitudine di labirinti, così come multiformi sono i labirinti della mente umana che in esso si proietta, esprimendosi nella poliedricità, ma anche nell’unità. Per questo motivo ciò che è in basso è come ciò che è in alto e ciò che è in alto è come ciò che è in basso, per fare il miracolo della cosa una. L’universo è come un libro che ogni essere elabora attraverso i labirinti della propria mente, unici e irripetibili, i quali s’incrociano con quelli altrui senza entrarvi in collisione, anzi si esalta, si moltiplica, diviene polimorfo, a volte monocentrico, altre policentrico, ma sempre indefinitamente labirintico. Ogni labirinto costruisce, in ogni istante, una struttura che nella con-fusione crea e distrugge. Lo spirito si perde, ma allo stesso tempo si espande e accede a nuove dimensioni.»

Gettiamo un ultimo sguardo alla Terra prima di essere risuc­chiati dall’ultima singolarità ed essere restituiti, oltre l’ultimo orizzonte degli eventi, alla nostra realtà.

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