Oltre il “caso Goldrake”: rassegna stampa

Enrico Petrucci
Gli ultimi Samurai – Anime e manga, fiabe dall’era atomica n. 17/2021
Oltre il “caso Goldrake”: rassegna stampa

I primi due cartoni animati giapponesi ad arrivare sugli schermi italiani sono Heidi, in onda su Rai 1 nel febbraio 1978, e Goldrake, due mesi dopo su Rai 2. Sono la prima avanguardia di una legione destinata presto a saturare lo spazio televisivo dedicato ai più piccoli. Una doppia saturazione di cartoni e canali televisivi, perché l’arrivo degli anime coincide con il boom della liberalizzazione dell’etere italiano. Del luglio 1976 è la sentenza della Corte Costituzionale che apre le porte alle tv locali. Dalle duecento emittenti del 1978 si passa nel giro di un paio d’anni a più di seicento – e i cartoni animati giapponesi, con altri robottoni, altre orfanelle e le prime maghette, arrivano presto a riempirle in qualsiasi fascia oraria. Ma, oltre a segnare l’immaginario collettivo, Heidi e Goldrake rappresentano una rivoluzione sul piano commerciale. Prima di loro il merchandising televisivo si limitava ai dischi de Lo zecchino d’oro e al successo di Sandokan, lo sceneggiato con Kabir Bedi del 1976 che oltre ai quarantacinque giri aveva portato figurine e maschere di carnevale (un successo replicato l’anno dopo dal ritorno di Furia il cavallo del West su Rai 1).

Sono proprio i cartoni animati giapponesi a segnare la svolta del merchandising. È con loro che i bambini si scoprono consumatori, e non casualmente l’articolo del deputato di Democrazia Proletaria (poi PCI) Silverio Corvisieri che si scaglia contro Goldrake dalle pagine di «Repubblica» arriva tre giorni dopo la Befana del 1979. I genitori, come testimoniano le lettere che nel periodo natalizio 1978 trovano spazio su altri quotidiani, erano stati subissati da richieste di regali a tema Goldrake e Heidi.

Heidi e Goldrake sono la prima avvisaglia dell’Italia degli anni Ottanta. Il loro arrivo in Italia coincide con l’inizio dell’ultima e più sanguinosa fase degli “anni di piombo”, con il sequestro Moro tra il marzo e il maggio del 1978. Non passa settimana senza che le azioni dei gruppi extraparlamentari di destra e sinistra reclamino nuove vittime dalle pagine dei quotidiani. L’Italia dei grandi, insomma, ha altro a cui pensare. Eppure solo dieci anni prima i genitori dei bambini che nel 1978 si appassionano a Heidi e Goldrake cantavano “l’immaginazione” (o “la fantasia”) “al potere”, slogan invecchiati prematuramente tra crisi petrolifera, austerity e il terrorismo che aveva preso il sopravvento sul peace and love.

Ed è proprio dall’elemento fantastico a giungere il primo shock per i genitori e il milieu culturale italiano, che mette in secondo piano anche la riflessione sui pericoli del consumismo. Se nella memoria collettiva la reazione al fenomeno dei cartoni animati giapponesi è associata al già citato articolo di Corvisieri, che declina il suo j’accuse contro Goldrake in chiave politica con espressioni come «orgia della violenza annientatrice», «culto della delega al grande combattente», «religione delle macchine elettroniche», «rifiuto viscerale del “diverso”», in realtà il dibattito, almeno inizialmente, si pone su un binario diverso.

Il panico morale si scatena allo stesso modo su Heidi e Goldrake, replicato su un altro orfanello, il Remì dell’adattamento a cartoni del Senza famiglia di Hector Malot. Heidi è una fantasia rurale e bucolica, pericolosa quanto l’alabarda spaziale di Goldrake. Irreale, nelle sue tinte pastello firmate da Isao Takahata e Hayao Miyazaki, e disimpegnata per l’intelettuale engagé dell’epoca, membro della stessa intellighenzia che trent’anni dopo riconoscerà i due registi e animatori nipponici come i massimi interpreti dell’animazione artistica e impegnata.

Se nell’immaginario collettivo il dibattito vive intorno alle locuzioni che si fanno tormentone dell’articolo di Corvisieri, nella progressione storica dei fatti Corvisieri si limita a preparare il terreno per la polemica e la vera grande ondata di panico morale che sarebbe arrivata solo nell’aprile del 1980: la crociata dei seicento genitori di Imola che chiedevano la completa moratoria dei cartoni animati giapponesi dalle tv italiane.

Soprattutto, Corvisieri s’inserisce in un dibattito già avviato, in cui la prima avvisaglia di pericolo da parte dell’establishment culturale di sinistra era stata proprio la presenza dell’elemento fantastico, dell’irreale. A scagliarsi contro la dimensione intrisecamente fantastica dei cartoni animati giapponesi era stato Giampaolo Fabris. Nel luglio 1978, dalle pagine de «L’Unità» aveva criticato l’animazione giapponese partendo dal punto di vista del merchandising, ma soprattutto per l’irruzione televisiva «del magico, dell’irrazionale» e «di valori arcaici». Era stato l’organo ufficiale del PCI a mettere la prima pietra d’angolo del dibattito contro i cartoni animati nipponici, qualche mese prima della “violenza annientatrice” di Corvisieri.

Non mancheranno intellettuali e artisti che li difenderanno. Tra i pochi che azzarderanno una riflessione compiuta sugli elementi del successo dei cartoni animati giapponesi si conta una compagine piuttosto eterogenea: la giornalista veterana Giulia Borgese del «Corriere della Sera», che negli anni Ottanta sarà anche tra i candidati del PRI, e Nicoletta Artom, la funzionaria Rai che aveva scoperto Goldrake. A loro si aggiunge un nome ben noto agli appassionati del fantastico italiano (e ai lettori di questa rivista): Gianfranco de Turris.

Giulia Borgese ricostruisce il successo di Goldrake come una felice sintesi della fiaba di Perrault e dell’epica classica di Achille. Semplifica, forse, ma coglie similitudini con il primo primo “eroe seriale” dell’era moderna, lo Sherlock Holmes di Conan Doyle. Nicoletta Artom, che ben conosce i prodotti d’intrattenimento per ragazzi, mette a confronto l’epica di un Goldrake con la violenza, quella sì annientatrice e soprattuto “domestica”, dei cartoni animati tipo Tom & Jerry. De Turris, dalle pagine de «Il Settimanale», non solo analizza e confronta il successo nipponico con quello della fantascienza e del fumetto anglo-statunitense, ma evidenzia i temi che porteranno al successo il filone in area identitaria, dal bushido dei samurai, all’Harlock ultimo eroe romantico contro i politici imbelli impegnati a giocare a golf.

Completa questa breve rassegna un intervento successivo, del 1981. Si tratta di un approfondimento comparso sul quindicinale del Movimento Sociale Italiano, «Linea». Dietro lo pseudonimo buzzatiano di Giovanni Drogo, l’autore nota con perspicacia e inquadra la maturazione del genere fantascientifico-robotico giapponese. E, anzitutto, riconosce temi e debiti heinleniani presenti in Gundam, serie robotica di fantascienza arrivata in Italia nel 1980. Una dimostrazione di come l’interesse culturale manifestatosi a destra non nascesse dal semplice “riflesso condizionato” nei confronti di opere che a sinistra erano bollate dal doppio stigma dell’irrazionalità e della violenza, ma dalla maggiore apertura e conoscenza nei confronti di fantastico e fantascienza. Era, insomma, l’attenzione a quella “fantasia al potere” ben presto rinnegata proprio dai suoi stessi ideatori.

Enrico Petrucci

1. Giampaolo Fabris, «L’immagine riflessa. Sogni infantili al mercato»

Quest’inverno chi ha figli in giovane età ha senz’altro seguito, sia pure di riflesso, le avventure di Heidi e di Atlas Ufo Robot: due disegni animati che la televisione ha trasmesso a puntate e che hanno riscosso indici elevatis­simi di ascolto e di gradimento presso il pubblico più giovane. Adesso stanno ali­mentando un business di vaste dimensioni: l’industria, acquistandone i diritti di ripro­duzione, li sta utilizzando per invadere il mercato con una incredibile quantità di prodotti. Ma, prima di testimoniare il discutibile sfruttamento commerciale delle simpatie del pubblico infantile, varrà la pena dire due parole sui contenuti e le ragioni del successo di questi disegni animati. Che appaiono, ma solo apparentemente, antiteti­che.

Mentre Heidi, la pastorella svizzera, vive immersa nella natura nella quieta atmosfera del secolo scorso, Atlas Ufo Robot, vascello spaziale precipitato sulla terra, vive nel futuro. Atterra sui teleschermi come epigono, per i più piccini, di quel filone di Guerre stellari e Incontri ravvicinati del terzo tipo che quest’anno ha fatto registrare una serie record di in­cassi. E mentre l’ufologia diviene ormai un fatto di costume – la produzione libraria sugli extraterrestri e lo spazio che dedicano agli Ufo i giornali ne sono una eloquente testimonianza –, Atlas Ufo Robot consente di socializzare i bambini ai nuovi miti dei grandi.

Atlas – che ha incorporato un Ufo Robot – è l’astronave di Actarus, un giovane dai poteri eccezionali scampato alla distruzione del suo pianeta. Actarus vive sotto sembianze umane – nonostante la sua ascendenza regale, sia pure extragalattica – come garzone in un ranch: soltan­to quando il suo antico e cru­dele nemico, il re Vega, deci­de di attaccare con una flotta spaziale la Terra, Actarus, memore forse dei nobili lombi, abbandona i panni del ranchero per impegnarsi in una dura battaglia contro i malvagi oppressori. La lotta spietata tra Actarus, valida­mente coadiuvato dal suo Ufo Robot provvidenzialmente riattivato in extremis, e l’invasore si svolge – mentre Silhena, la bellissima inviata come killer, si converte ad amica e alleata – a fasi drammaticamente alterne. La serie non è terminata (tornerà quest’inverno), ma tutto lascia prevedere che la Terra possa salvarsi.

Heidi – che anagraficamente è concepita negli stessi anni del nostro Pinocchio dalla fervida penna di Johanna Spyri – è una orfanella dalle grandi virtù: anche se ciò contrasta, per il vero, con l’assurdo disinteresse e assenza di memoria dei defunti genitori. Vive in un casolare di alta montagna col nonno burbero – nel villaggio, a valle, lo chiamano il Vecchio della Montagna e lo sospettano di nefandezze – ma col cuore d’oro. Ambedue sono poverissimi (Heidi non ha nemmeno un letto) ma si sa, come tutti i poveri, sono sani e felici.

Le Alpi svizzere, nella più oleografica delle rappresentazioni – vette immacolate di neve, mucche pezzate con latte, burro e formaggio, conifere sterminate e il lento susseguirsi delle stagioni – fanno da scenario alle innumerevoli azioni edificanti di Heidi, l’insegnare l’abbiccì a Peter (compagno di giochi sottoproletario e birbantello) perché possa leggere i Salmi alla nonnina cieca e malandata; l’olocausto di un soggiorno nell’odiata Francoforte – weberianamente eletta a idealtipo della civiltà metropolitana – in cambio di tante pagnottelle bianche per la nonnina; la guarigione della amichetta benestante Clara, che ritrova miracolosamente, tonificata dall’elioterapia e formaggi made in Switzerland, l’uso delle gambe atrofizzate.

Ma, al di là delle buone azioni, il successo veramente travolgente di Heidi (Servizio Opinioni: gradimento 81) è con tutta probabilità da annoverare – anche se non va sottovalutata la presumibile gratificante protezione dei piccoli spettatori nell’autonomia di movimento della svizzerottina svincolata dalla tutela oppressiva dei genitori – nell’esaltazione di una Natura leziosa da cartolina illustrata.

Da una parte, quindi, con Atlas Ufo Robot l’omaggio ad una tendenza fortemente regressiva – il culto dell’irrazionale e del magico – della società contemporanea. Dall’altra, con Heidi, l’anacronistica esaltazione di valori arcaici, di discutibile virtù e di una mistificante rappresentazione – in un malinteso ossequio alle mode ecologiche – della natura.

Affiora, tra l’altro, il malevolo sospetto che con le due trasmissioni si siano voluti prospettare, ancora su basi sessiste, due modelli diversi: uno per i maschietti – l’eroe tecnologico – e uno per le bambine – la virtuosa apprendista donnina di casa. Accomunati però, al di là delle apparenze, da analoghi contenuti: la fuga dalla realtà in una improbabile società tecnologica a cui si attribuiscono però parvenze di veridicità – il Radiocorriere porta i ragazzini vincitori del concorso collegato con Atlas Ufo Robot a visitare il CNEN e il sincrotrone di Frascati –, o in un altrettanto improbabile stato di natura.

E ambedue, comunque, soggette ad una strumentalizzazione commerciale senza scrupoli. La Sacis – consociata della Rai –, approfittando della notorietà televisiva di questi personaggi, accumula profitti con la concessione dei diritti: e l’industria, ben consapevole della suggestione del piccolo schermo sui giovanissimi consumatori, inonda il mercato con un fiume di prodotti contrassegnati dal marchio dei loro beniamini. Oltre a volumi, fumetti, dischi e figurini, portano l’immagine di Heidi ombrelli, foulard, borse, magliette, bambole e inoltre cartelle, astucci, copriletto, cinture, giochi da tavola e ancora yogurt, caramelle e dolciumi. Atlas Ufo Robot non è da meno: oltre ai soliti dischi, album e figurine, portano l’immagine dei personaggi extraterrestri bambolotti, magliette, maschere, giocattoli, caramelle e patatine. E, con tutta probabilità, uno dei regali più ambiti, per il prossimo Natale, sarà un Ufo Robot, riprodotto in scala e perfettamente funzionante che spara missili in ogni direzione, che una importante ditta di giocattoli ha in programma di immettere sul mercato per la fine dell’anno.

Che i personaggi dello schermo abbiano un’eccezionale capacità di influenza sul comportamento di consumo è noto da tempo: quando Clark Gable in un vecchio film, Accadde una notte, apparve a torso nudo sotto la camicia, la vendita di canottiere ebbe un tale tracollo che i produttori di biancheria intima pretesero la soppressione della scena incriminata. Ciò che è invece più recente è la deliberata strumentalizzazione della naturale disponibilità dei bambini ad entusiasmarsi per i loro eroi. E la singolare attitudine – a parte i contenuti delle due trasmissioni su cui ci sarebbe molto da ridire – della televisione dei piccoli spettatori in termini di mercato.

(«l’Unità», 15 luglio 1978)

2. Giulia Borgese, «Agli “orfani” di Goldrake restano le figurine»

Actarus dunque non è morto nel fondo di un lago azzurro dove è precipitato – chiuso dentro la magica corazza di Goldrake – dopo aver disintegrato un pianeta senza vita che i terribili Vega avevano scagliato contro la Terra… Actarus è salvo per un pelo, ma i bambini in tutta Italia si sentono improvvisamente orfani.

Gli adulti, sulla scia del deputato di Democrazia Proletaria Silverio Corvisieri, ne dibattono ancora i diversi aspetti – incitamento alla violenza o scarica­mento della stessa, ideologia dell’annientamento o pura favola del tutto irreale, diver­timento o paura, consumi­smo o concorrenza che i giocattolai giudicano anche un po’ sleale, sconfitta del diver­so stesso – ma i piccoli orfani di Goldrake già da tempo erano pallidi e svogliati, e inappetenti.

Uscendo da scuola nei giorni scorsi avevano annunciato alle madri, usando il condizionale, l’agghiacciante notizia appena appresa: «Goldrake, dicono che forse morirebbe. Me l’ha detto la Marcella, che l’ha saputo da suo fratello… Sì, anche la Barbara l’ha saputo… Ma non è Goldrake che muore, è Actarus… Hai visto che sta sempre male, con quella macchia nera sotto la spalla sinistra, mi pare, o destra? È stato colpito da un raggio di vegatron… Ma, mamma, tu dici che potrebbe morire davvero? Goldrake, no, non può morire perché non è nato, però potrebbe disintegrarsi. Certo che il professor Procton è molto preoccupato, dice che se la macchia di Actarus raggiunge il cuore lui muore… Sì, sì, muore».

Ieri sera alle sette c’è stata la ventiseiesima puntata, l’ultima avventura di questo ciclo, così breve purtroppo. Per i bambini è un lutto grosso, per le mamme un lutto strumentale, perché non hanno nemmeno più da sperare in quella mezz’ora di pace sul far della sera. Ma i bambini – dai tre anni in su – sui loro album non ancora completati, mentre già è difficile trovare le bustine di figurine in edicola, coi loro piccoli Goldrake di ferro e di plastica schierati come idoli sulla mensola accanto al letto, si sentono orfani, anche se Actarus non è morto, anche se Goldrake non si è disintegrato.

Niente più raggi ciclonici e alabarde spaziali, magli penetranti, lame rotanti e missili perforanti, niente più trivelle spaziali o flotte di microdischi. Niente più appuntamenti serali con la fiaba che ai grandi non piace “perché sempre uguale”, mentre proprio il ritrovare puntualmente le stesse si­tuazioni e le stesse parole, che si ripetono con cadenza rigorosamente rituale, assicura il grande successo pres­so il pubblico dei più piccoli: guai se Actarus, l’eroe venu­to da un altro mondo per salvare il nostro, non si gettasse ogni volta a capofitto dentro il tunnel dove, urlan­do, ogni volta rinasce sotto forma di Goldrake, il super-robot che indossa la più bella delle divise delle arti marzia­li orientali: guai se ogni volta non dovesse combattere con­tro nemici non certo normali ma contro presenze demo­niache ovviamente raffigura­te da mostri, che senza una ragione e senza una possibi­lità di spiegazione attaccano l’uomo, rappresentato da al­cuni poveracci che abitano in una fattoria.

Lo spettacolo ha del rituale, o addirittura del mitologico in senso classico. Come Achille, l’eroe è un superuo­mo, ma come Achille ha il suo tallone: la macchia di Vegatron sulla spalla; come Ercole combatte i mostri, co­me Ulisse passa attraverso ogni tipo di prova: anche se schiaccia il pulsante magico e mangia libri di cibernetica, i bambini inconsciamente si aspettavano che alla fine avrebbe dovuto morire.

Gli autori della storia han­no sfruttato e alimentato questa attesa della catastrofe; nella penultima puntata, Actarus era stato così male che, se non c’era Venusis pronta a salvarlo, era finito. E proprio alla fine aveva scoperto l’esistenza sulla Terra di sua sorella Maria, salvata da bambina dalla distruzione del suo pianeta compiuta dal Vega.

E il professor Procton, quando Alcor gli dice: «È una storia così bella che non so come raccontarla», aveva risposto solo, misteriosamente: «Così bella?», dimostrando forse la sua preoccupazione che l’infezione spaziale avanzasse. E poi c’è già il Goldrake Secondo, e se Actarus muore la sorella Maria è già pronta a salvare Goldrake, come le ha detto suo non­no prima di morire.

Del resto tutti gli eroi muoiono, anche se poi alcu­ni, in tempi però moderni, non nella mitologia né nella tragedia greca, vengono richiamati in vita. Per amore del lieto fine è risuscitata Cappuccetto Rosso: nell’originale di Charles Perrault la fiaba finisce con l’allucinan­te, famosissimo dialogo fra la bambina e il lupo-nonna, con le parole: «E quel malandrino di lupo si gettò su Cap­puccetto Rosso e la mangiò», ma nella versione popolare e tramandata oralmente arriva il cacciatore a squartare il lupo e a salvare la vecchia e la nipotina scioccherella e di­subbidiente.

Un caso un po’ diverso è quello ben noto di Sherlock Holmes, che Conan Doyle fe­ce precipitare nelle cascate di Reichenbach nel corso di un duello, ma a furor di po­polo – e cioè in seguito a una valanga di lettere dei lettori dello «Strand Magazine», il giornale dove le avventure del celebre detective venivano pubblicate a puntate – dovette, con lo stratagemma di un alberello che aveva terminato la caduta, riportarlo in vita.

E di Actarus cosa sarà? Riprenderà le sue mitiche avventure? Intanto, i bambini orfani di Goldrake si consolano coi dischi dove Actarus continua a cantare i suoi inni alla macchina con la voce di un ragazzo di Caravaggio, Alberto “Michel” Tadini.

(«Corriere della Sera», gennaio 1979)

3. Nicoletta Artom, «Chi ha paura di Goldrake cattivo»

Ammirato, elogiato, amato da una parte; imputato, condannato, sottoposto a dure critiche dall’altra, Goldrake è tornato da poco sui teleschermi della Rai-Tv. Molte discussioni, e anche tante polemiche. Perché? Per cosa, o su cosa?

Silverio Corvisieri, parlamentare e già membro della commissione di indirizzo e vigilanza della Rai, ha sollevato il “caso Goldrake” in un articolo uscito qualche tempo fa sul quotidiano «La Repubblica», dove diceva testualmente: «I temi che dominano i lavori della Commissione parlamentare di vigilanza sono in teoria quelli giusti, ma vengono spesso trattati in un modo ultra-astratto. Basta riflettere sulle ore e ore di discussione per arrivare a definire concetti di pluralismo e completezza dell’informazione». Così conclude l’articolo: «Senza mai avere i mezzi per un confronto serio sul messaggio che la televisione trasmette nelle nostre case: ad esempio, Goldrake…».

In un’altra parte dell’articolo parla di «orgia della violenza annientatrice» che sarebbe contenuta in questi cartoni animati.

Dov’è l’orgia? Dov’è la violenza? Orge, di qualsiasi tipo, non ce ne sono. I cartoni, Commissione o no, non sarebbero stati trasmessi. Orge violente, neppure. Annientate poi a distanza, e senza orge, vengono solo macchine, missili e robot spaziali. È molto violento vedere distruggere macchine fantastiche, inventate?

Goldrake poi non è un invasore, non sbarca da nessuna parte, non attacca mai nessuno. Se attaccato, si difende come può, come farebbe chiunque nella realtà. Vince e vince sempre a puntate. In tutto ciò che male c’è?

C’è da domandarsi se Silverio Corvisieri e gli altri dopo di lui, colpiti da antipatia acuta nei confronti di Goldrake, abbiano trascurato di informarsi, o abbiano evitato di analizzare da vicino altri eroi, quelli classici dei cartoni animati, quelli osannati come Topolino, Tom e Jerry, Silvestro, il terribile Bunny (il coniglio) o Twitty (il canarino). Bene, questi cartoni sono molto più pericolosi, molto, molto più violenti.

Tom e Jerry, ma anche gli altri, vivono tra pareti domestiche, usano costantemente oggetti che si trovano in casa, adorano infilare code nelle prese elettriche, chiudere nemici nel frigorifero, usare ferri da stiro come martelli. Queste e altre situazioni che effetto fanno sul piccolo spettatore? Se al gatto viene infilata la coda nella corrente elettrica i danni, nella fantasia, sono pochi, ma per i bambini è semplice dedurne: «Non succederà niente nemmeno al mio fratellino minore».

La violenza, come si vede, c’è in questi cartoni ed è pericolosa perché può essere imitata. Nulla di quanto detto appare in Ufo Robot. Non è facile trovare un “Maglio rotante”, un “Tuono spaziale” o “Rotelle perforanti”. E, se vi è da parte dei bambini una ripetizione di questi termini, è un gioco di fantasia e tale resta.

Di questa opinione è anche qualcuno che i cartoni animati li conosce molto bene, molto a fondo, Bruno Bozzetto, autore di West and Soda, Sig. Rossi e Allegro, non troppo.

«Io sono molto scettico» dice Bozzetto, «su questa battaglia contro il cartone animato, sono allarmato piuttosto per il “dal vero”. È lì che i bambini si identificano, trovandosi davanti alla realtà di tutti i giorni… Non parliamo poi di spettacoli tipo Western, gialli… Queste sono cose che “restano” dentro il bambino… In ogni caso, Ufo Robot è un cartone così folle, così inimmaginabile, che non riesco a capire come un bambino possa identificarvisi».

Il dibattito non finisce qui. Chiamiamo in causa altri che i cartoni li conoscono bene, come Isa Barzizza (direttore di doppiaggio di tantissimi cartoni). Isa dice: «Goldrake sì, forse è violento, ma non è più violento di Remi. Non è quella di Remi una violenza disperante? Si costringe i bambini a piangere per ventisei puntate, e su fatti che li toccano da vicino, la perdita della mamma e del papà, la tristezza di sentirsi soli».

Secondo Sergio Trinchero, esperto di cartoni animati e fumetti, «Goldrake non è violento, non c’è violenza… Questo poi unito al fatto che il buono vince sempre…; e allora Topolino, che ci portavano a vedere “felici” i nostri genitori, allora Topolino non vinceva, anzi non vince sempre…? E poi, perché deve vincere il cattivo? Se il buono perdesse, ci sarebbe una sola puntata…! Io non so immaginare un bambino che ami un eroe perdente – a parer mio, sarebbe un bambino un po’ strano o un bambino masochista!».

In realtà i bambini tutti questi problemi non se li pongono. Loro accettano o rifiutano i programmi secondo i loro gusti, a volte dimostrandosi più adulti e “ragionevoli” di coloro che vogliono o possono amministrare i loro spettacoli.

Una volta, un direttore della Rai-Tv ha detto che il pubblico italiano era «formato da quaranta milioni di teste di c…»; di conseguenza, sempre per quel direttore, i quaranta milioni di teste di c… ne dovrebbero aver generate altrettanti milioni.

Non c’è forse, in questo genere di concetti, una logica da tutori o censori? Fiducia nei bambini, invece. Sono intelligenti!

(«TV Sorrisi e Canzoni», 16-22 dicembre 1979)

 4. Gianfranco de Turris, «Banzai! Arriva il pericolo giallo»

In principio era Goldrake. Poi è stata la volta di Mazinga (o Mazinger), Jeeg Vanguard, Gaiking, Teccamen. Sono gli Ufo Robot, i ciclopici automi che, guidati da esseri umani, difendono la Terra da ogni possibile e immaginabile minaccia; sono i nuovi supereroi giapponesi che stanno soppiantando poco a poco nei fumetti e nei cartoni animati gli equivalenti americani, sono il “pericolo giallo” additato con allarme dalla cultura, dagli Intelligenti. Ma l’invasione non è finita qui: c’è il pirata spaziale Capitan Harlock, il pilota di macchine da corsa a razzo Ken Falco, il ladro fantascientifico Arsenio Lupin III, il ragazzo preistorico Ryu, il leone bianco Kimba e gli strappalacrime Heidi e Remi. Ce n’è per tutti i gusti e per tutte le età.

In principio erano monopolio della Rai, poi sono dilagati sui canali delle televisioni private. E sono tutti, o quasi tutti, prodotti dalla maggiore casa di cartoni animati del Sol Levant, la Toei. In principio erano solo film, adesso sono anche giocattoli di tutte le grandezze e poster, pupazzi gonfiabili e magliette, adesivi e figurine, giochi di gruppo e modellini elettronici, film e dischi. Sono diventati un fatto di costume. Le vetrine dei negozi di regali, dei grandi magazzini, rigurgitano letteralmente di mostri, robot, astronavi, piloti spaziali made in Japan, che sembrano aver posto in secondo piano gli stessi prodotti statunitensi consimili (quelli ispirati alle serie televisive Space: 1999 e Star Trek).

Questa “moda” che ha contagiato i bambini, e non soltanto quelli più piccoli, è un bene o un male? Gli Ufo Robot sono in effetti diventati un “caso” nazionale che per poco non finiva in parlamento. Pro o contro Goldrake & C. si sono schierati e si schiereranno ancora non soltanto psicologi, sociologi, pedagoghi e “fumettari”, ma anche giornalisti e uomini politici.

Il via alla polemica giunse dalle autorevoli colonne dell’austero «La Repubblica», che pubblicò un ponderoso “neretto” a firma dell’on. Silverio Corvisieri, ex redattore dell’«Unità», ex fondatore di Avanguardia Operaia, allora indipendente di sinistra, oggi rifluito nel Pci.

«Goldrake», diceva, «deve sempre affrontare qualche nemico spaziale estremamente malvagio, che vuole invadere e distruggere la Terra e l’umana civiltà orrendamente tecnologizzata. È a lui che gli uomini si affidano, come si faceva un tempo in Giappone con i valorosi samurai. Questo superuomo-supermacchina può tutto e, per nostra fortuna, “un cuore umano ha”. In ogni caso, si celebra dai teleschermi con molta efficacia spettacolare l’orgia della violenza annientatrice, il culto della delega al grande combattente, la religione delle macchine elettroniche, il rifiuto viscerale del “diverso” (chi viene da altri pianeti è sempre un nemico odioso…)».

Insomma, Corvisieri vs. Goldrake, per dirla in termini di fumetti. Nulla di nuovo, comunque: è la solita vecchia polemica della sinistra intellettuale contro l’“eroe” della narrativa popolare, sia essa scritta o disegnata. Polemica nata quasi vent’anni fa con le interpretazioni sociologiche di Umberto Eco e la sua distinzione fra “apocalittici” e “integrati”, e che prosegue ancor oggi, implacabile, ogni volta che se ne presenta l’occasione: gli Ufo Robot, appunto, o il recente Superman (il film).

Il procedimento è molto semplice. Non si tratta di negare il valore dell’“eroe” in quanto tale, come mito “assoluto”, che va dalle leggende antiche ai comics e ai film moderni, ma di interpretarlo alla rovescia, analizzandolo negativamente e quindi condannandolo per i valori che rappresenta, esprime e difende. Goldrake ha una “ideologia distruttiva”, Superman è un “qualunquista”; ma anche, per citare esempi che fecero scalpore negli anni scorsi, Li’l Abner un “reazionario”, Dick Tracy addirittura un “fascista”, Jeff Hawke un “mistico” e un “irrazionale” (nonostante sia un fumetto di fantascienza, forse il migliore del genere), e così via.

Si sono cercati, quindi, altri “eroi” da contrapporre a quelli che, in ogni caso, sembravano e sembrano attrarre di più i ragazzi. La cultura radical-marxista, con il solito professor Eco in prima fila, ha fatto per anni l’apologia di fumetti come «Diabolik» (nato nel 1962) che era e rimane il perfetto esempio di “eroe negativo”, in quanto impersona ed esalta valori opposti a quelli tradizionali: nel caso particolare, è il crimine a prevalere sempre e comunque sulla legge, anche in modo efferato; cioè il “cattivo”, il delinquente, sul “buono”, il poliziotto.

Altro tentativo fu quello, sempre sponsor il professor Eco, dei fumetti cinesi attraverso un grosso volume edito da Laterza e relativa, ampia pubblicità sui settimanali radical-chic (che magari adesso fanno il mea culpa). I “fumetti di Mao” erano esplicitamente presentati come contraltare ideologico ai fumetti occidentali – americani, in particolare. Nella introduzione si effettuava una puntigliosa contrapposizione fra i “valori” propagandati dalle strisce cinesi e quelli che si rintracciavano in un notissimo personaggio statunitense, Terry, del disegnatore Milton Caniff. A tutto favore dei primi, come è naturale.

Ma in fin dei conti, pure in questa occasione, non è che i fumetti cinesi facessero scaturire un eroe “collettivo” in opposto all’eroe “individuale” dell’Occidente. Anche nelle storie disegnate oltre la “cortina di bambù” c’è sempre l’eroe (o l’eroina) che con il suo coraggio, abnegazione, volontà e sacrificio personali, sconfigge i “cattivi” di turno (controrivoluzionari, ecc. ecc.). Le cellule, il collettivo, il villaggio vengono sempre dopo. Inoltre, nelle avventure presentate in Italia i “valori” che vengono esaltati sono sempre gli stessi: difesa dell’onore personale e dell’onestà, di una certa ideologia, del proprio Paese, rispetto verso se stessi e gli altri, coraggio. Soltanto che si tratta di “valori” di segno diverso dal nostro, al limite opposto, e che evidentemente i sociologi e i fumettologi radical-chic preferivano a quelli occidentali (almeno allora…). Il Paese era la Cina di Mao (non quella dei suoi successori), l’ideologia il marxismo, il coraggio era rivoluzionario, l’onore e l’onestà erano quelli dei perfetti militanti di partito, e così via.

Nulla di nuovo, dunque, nelle critiche di Corvisieri, così come in quelle che son venute dopo. Su «Alteralter» (maggio 1979), uno dei redattori del mensile ritiene gli Ufo Robot portatori di un malefico messaggio subliminale che ha come scopo quello di «abbassare il livello critico del fruitore e far acquisire miti e modelli di comportamento propri del “sistema”» (ma il direttore della rivista, Oreste del Buono, si dice esplicitamente in disaccordo). Massimo Maisetti sull’«Unità» (18 luglio) prende di petto la serie non per la sua «violenza», ma per «la sciatteria del disegno, la mediocrità della tecnica, la monotonia ripetitiva delle storie». Ugo Ronfani, su «Il Giorno» (24 luglio), riprendendo una «denuncia» del Comitato Difesa Consumatori, accusa i personaggi della Toei diffusi dalla Rai di «aizzare il consumismo infantile» con riferimento a giochi, magliette e pupazzi.

In tutta questa polemica ci sono non solo esagerazione, genericità e poca cognizione di causa, ma forse anche un interessato allarmismo. Il fatto è che tutto quanto si rimprovera a Goldrake, Mazinga e Jeeg Robot non è loro appannaggio esclusivo, ma è una caratteristica della maggioranza dei cartoni animati e dei fumetti, se non della favolistica tradizionale.

Disumanizzazione, meccanizzazione, razzismo? Niente di tutto ciò: Goldrake, Mazinga e Gaiking sono sì robot di metallo, ma guidati da un essere umano che pensa e agisce autonomamente. Anche Actarus, il pilota di Goldrake, non è un terrestre; quindi non tutti gli alieni sono visti negativamente. Di “mostri” le fiabe sono zeppe, ed i bambini di oggi li interpretano come meglio credono: «Il mio bel robottino» dicono, tenendo in mano un pupazzetto, e giocano al «mostro buono» contro il «mostro cattivo».

Ideologia e istigazione alla violenza? Per tutti i fumetti avventurosi si potrebbe scrivere lo stesso, italiani e stranieri. Disegni sciatti e mediocri? È un’affermazione abbastanza ridicola, non solo perché sul mercato c’è molto di peggio, ma perché oggettivamente gli Ufo Robot, grazie anche ai computer del Sol Levante, sono ben disegnati, originali e fantasmagorici (eccetto le meccaniche ripetizioni delle azioni ed i volti dei protagonisti, ricalcati su ben studiati cliché anatomici). Soprattutto Capitan Harlock è, nei colori e nella ricostruzione degli ambienti, addirittura troppo sofisticato, a rischio di non essere “capito”.

Incitamento al consumismo? Ma questa è un’“accusa” che potrebbe essere mossa al più innocuo dei fumetti – ad esempio ai Peanuts, ai personaggi di Walt Disney, a Braccio di Ferro, nato per pubblicizzare gli spinaci in scatola. Ci si è dimenticati delle legioni di magliette, cuscini, pupazzi di stoffa, giocattoli, dentifrici, generi alimentari, con le immagini di Charlie Brown e Topolino, Snoopy e Pluto, Linus e Paperino, Lucy e Pippo?

Ma perché allora tante accuse contro tale successo?

Certo, il colore, il movimento, l’azione sfolgorante, l’ambiente esotico e “strano”, il veder “vivere” ed agire a livello adatto tante cose da “grandi”: astronavi, robot, calcolatori, stazioni atomiche. E poi: attraverso i loro eroi, i protagonisti umani delle vicende (i piloti dei robot e dei razzi), i bambini vedono moltiplicate le loro possibilità fantastiche. In essi s’incarna ancora una volta il simbolo dell’“eroe” tipicamente giapponese, il samurai difensore e guerriero (la struttura esterna degli Ufo Robot ne ricorda l’armatura).

Si può aggiungere questo: il protagonista umano dimostra che attraverso una speciale selezione, un duro allenamento fisico, intellettuale e al limite morale, si può arrivare ad una vera e propria trasformazione interiore, al raggiungimento di uno status superiore del proprio essere, nel quale si è al servizio e si opera per la difesa della propria patria e della propria famiglia.

Esagerato? È quanto illustra una serie di telefilm in genere mal compresi, quelli di Jeeg Robot, il quale altri non è che Hiroshi, un ragazzo pieno di problemi e complessi, che all’occorrenza diventa la testa, cioè la parte pensante, di un super-robot formato da “componenti” di acciaio che gli vengono lasciati in volo a una astronave guidata da una fanciulla. In questo modo, combatte le forze dell’abisso: un Impero sotterraneo e divinità infernali che vorrebbero conquistare il Giappone e la Terra.

Anche Capitan Harlock è molto indicativo. Figura “romantica”, si oppone solitario, con la sua astronave Arcadia, alle Mazoniane, donne-pianta senz’anima che stanno invadendo la galassia, mentre sul nostro pianeta nessuno se ne preoccupa (i governanti preferiscono giocare a golf). Solo i “ribelli” al conformismo terrestre sono con lui e combattono nello spazio. Harlock è un idealista («Nero è il suo mantello, ma il cuore bianco è», dice la canzoncina andata a ruba) e come tale non poteva non piacere ai bambini. Gli autori hanno voluto criticare il femminismo da un lato e l’indifferenza dei politicanti dall’altro? L’ipotesi è fondata.

(«Il Settimanale», 26 dicembre 1979)

 5. Giovanni Drogo, «Da Mazinga a Harlock»

Credo sia il caso d’intervenire breve­mente su una delle affermazioni fatte da Randolfo Carta nei suoi tre articoli pub­blicati a singhiozzo da «Linea»: quella in merito ai cartoni animati giapponesi. Premetto che in genere sono d’accordo, ma ritengo sia il caso di approfondire il suo giudizio affrettato.

Penso che se la ormai vastissima genia degli Ufo Robot (ma ormai il termine è del tutto improprio) può interessare la destra, non è per i suoi capostipiti, bensì per i suoi discendenti. In realtà Goldrake e Mazinga erano narrativamente ripetiti­vi, schematici, monotoni e noiosi: ogni puntata (avventura) ricalcava pedisse­quamente le precedenti. Ciò che ha colpi­to è in effetti l’idea fondamentalmente nuova che vi stava alla base: la vera ori­ginalità era nell’ipotesi dell’immenso au­toma antropomorfo destinato a poten­ziare, esaltare e moltiplicare le caratteri­stiche del suo pilota (si comportava in­fatti proprio come esseri umani). Da questi robot della “prima generazione” si distaccava Jeeg, che, pur impostato sullo stesso schema-base, se ne differenziava per un elemento di fondo: il robot nasce­va per un “cambiamento di stato” (come si è scritto) del suo “pilota”, che si trasfor­mava nella testa, cioè nell’organo di pen­siero e comando, del robot cui veniva­no poi aggiunti tutti gli altri arti meccani­ci.

Era quindi la volta della “seconda ge­nerazione” di personaggi, i quali, pur se più complessi, non si distaccavano dallo schema fondamentale: difesa della Terra da parte di bruttissimi e cattivissimi ne­mici extraterrestri. Ecco quindi Mazinga Z, “spalla” più giovane di Mazinga; Gaiking, che combatte lanciato da un “drago spaziale” contro le Forze dell’Orrore Nero; Daitarn III, che si oppone ai Meganoidi; gli Space Robot (o Jetta Robot) e gli Astro Robot, forniti di tre piloti ognuno ed entrambi componibili e scomponibili in tre combinazioni diverse. Ca­ratteristica comune a quasi tutti: una no­ta grottesca o umoristica, non si com­prende bene se involontaria o autoironica. Come dal primo gruppo Jeeg, così da questo secondo gruppo si distacca Danguard per una diversità fondamentale della trama: nessuna invasione e relativa difesa, ma la lunga vicenda della “corsa al decimo pianeta” del Sistema Solare, fra i “buoni” guidati dal dottor Galax e i “cattivi” dal cancelliere Doppler.

“Terza generazione”: la più interes­sante, dal nostro punto di vista. Le trame si fanno più complesse, coordinate, “a continuazione”, veri e propri romanzi d’appendice (nel senso positivo del ter­mine): l’ideologia è più netta e distingui­bile. Ad esempio, in Capitan Harlock, il pirata dello spazio che difende la Terra contro le Mazoniane, donne-pianta cru­delissime, c’è da un lato l’esaltazione del­la vita libera e avventurosa, coraggiosa e audace, dall’altro la condanna dei politi­ci vigliacchi, imbelli e traditori, attaccati alla poltrona, alla vita burocratica, tran­quilla e pantofolaia, preoccupati della carriera, senza ideali eroici, avversari dell’avventura materiale e spirituale. Harlock, che raccoglie sotto la sua ban­diera tutti gli insoddisfatti e li porta a combattere il nemico del genere umano, è, se vogliamo, un perfetto “fascista” nell’ideologia e nei comportamenti.

Due altri arrivati di questa “terza ge­nerazione” sui canali televisivi privati so­no gli Star Blazers (o Guerrieri delle Stel­le), che combattono l’Impero della Cometa e sembrano ispirarsi alla Legione dello Spazio dello scrittore americano Jack Williamson, e Kyashan, il ragazzo trasformato dal padre in un “androide cac­ciatore di robot” per condurre una specie di guerriglia contro gli uomini che hanno invaso e sottomesso tutta la Terra.

Infine – e qui concordo con Carta – Gundam, senza dubbio la serie più com­pleta dell’infinito repertorio nipponico, che non ha nulla da invidiare ai migliori romanzi per ragazzi di Heinlein, Asimov, Hamilton, Norton. Anzi, direi che deve moltissimo alle caratterizzazioni del vecchio Robert Heinlein, con i suoi pro­tagonisti giovanissimi (tra i quindici e i vent’anni) che si affiancano e si sostituiscono agli adulti nella grande saga narrata dal piccolo schermo.

La vicenda è questa: la stazione spaziale Side 3 si ribella alla Terra, si au­toproclama Principato di Yon e vuol sot­tomettere tutte le altre stazioni e la Ter­ra. È la guerra. L’assalto e la distruzione di un’altra stazione, Side 7, porta un gruppo di ragazzi a sostituirsi ai soldati della Base Bianca, una strana astronave a forma di cavallo a dondolo, che parte salvando la popolazione e il Gundam, il nuovo potentissimo “guerriero d’ac­ciaio” delle forze confederali. Alla guida del Gundam si troverà, per un caso, Pe­ter Ray, il figlio quindicenne del proget­tista del robot. La storia è la lunga vicenda della Base Bianca, del suo viaggio ver­so la Terra, della guerra e della sconfitta di Yon.

Elementare. Ma affascinante. Perché l’opera è realizzata perfettamen­te con grande verosimiglianza tecnica (è tutto considerato nei particolari, anche il sistema di puntamento dei robot, le ca­ratteristiche delle tute spaziali e delle astronavi, ecc.) e psicologica (i caratteri sono complessi e non elementari; non tutti sono “eroi” ma ci sono anche i vi­gliacchi, gli opportunisti e i traditori; non tutti sono immortali, ma muoiono anche i protagonisti). Dal punto di vista “ideologico”, una sorpresa: sono il camerati­smo, l’onore militare, l’amore di patria, il sacrificio, la dedizione, ad essere in pri­mo piano, ma su entrambi i fronti.

(«Linea», 15-31 gennaio 1981)

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